De Magistris torna sindaco. Il TAR Napoli rinvia la legge Severino alla Corte Costituzionale

Luigi de Magistris può tornare a fare il sindaco; è quanto emerge dalla pronuncia resa oggi dal Tar Campania, il quale ha accolto il ricorso dell’interessato avverso la sospensione, per un periodo massimo di 18 mesi, scattata, per effetto della legge Severino, dopo la condanna in primo grado ad un anno e tre mesi per abuso d’ufficio nel caso Why Not.

Il Tar ha deciso di inviare gli atti alla Corte costituzionale per non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 10 e 11 del D.Lgs. 235/2012 (aventi ad oggetto, rispettivamente, l’incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e la sospensione e decadenza di diritto degli amministratori locali in condizione di incandidabilità) ed ha sospeso l’efficacia del provvedimento fino alla Camera di Consiglio successiva alla decisione della Consulta.

La decisione, presa dal collegio all’unanimità, ha per effetto il reintegro di de Magistris nelle funzioni di sindaco della città di Napoli ed il passaggio alla Corte costituzionale della questione relativa alla legittimità della legge Severino, sulla quale, dunque, torna ad aprirsi il dibattito.

Posso dire solo che abbiamo fatto una fatica enorme, considerata la complessità del quesito“, ha dichiarato il presidente del Tribunale amministrativo regionale della Campania, Cesare Mastrocola, che con i giudici Paolo Corciulo, relatore, e Carlo Dell’Olio, giudice a latere, ha emesso il provvedimento.

A seguire Il testo integrale della pronuncia del TAR Campania

Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Prima)

 Presidente Cesare Mastrocola; Consigliere, Estensore Paolo Corciulo; Consigliere Carlo Dell’Olio

Ordinanza n. 01801/2014

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso n. 4798/ 14 R.G., proposto da:

Luigi De Magistris, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Russo, Stefano Montone e Lelio Della Pietra, con domicilio eletto presso Giuseppe Russo in Napoli, via Cesario Console n. 3;

contro

Ministero dell’Interno – U.T.G. – Prefettura di Napoli, in persona del Prefetto p.t. rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso cui domicilia in Napoli, via Diaz, 11;

e con l’intervento di

ad adiuvandum:
Comune di Napoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Fabio Maria Ferrari, Anna Pulcini, Bruno Crimaldi, Antonio Andreottola, domiciliata in Napoli, piazza Municipio, Palazzo San Giacomo, presso gli uffici dell’Avvocatura comunale;
ad opponendum:
Manfredi Nappi, rappresentato e difeso dall’avvocato Alberto Saggiomo, con domicilio eletto in Napoli, piazzetta Terracina n.1;

per l’annullamento

previa sospensione dell’efficacia,

del provvedimento del Prefetto di Napoli emesso in data 1.10.2014 prot.n. 87831, di accertamento costitutivo della sussistenza della causa di sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco del Comune di Napoli.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’Interno e della Prefettura di Napoli, nonché del Comune di Napoli e di Manfredi Nappi;

Vista la domanda di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, presentata in via incidentale dalla parte ricorrente;

Visto l’art. 55 cod. proc. amm.;

Visti tutti gli atti della causa;

Ritenuta la propria giurisdizione e competenza;

Data per letta nella camera di consiglio del 22 ottobre 2014 la relazione del consigliere Paolo Corciulo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Con provvedimento n. 87831 del 1° ottobre 2014 il Prefetto della Provincia di Napoli ai sensi dell’art.11, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 ha dichiarato di aver accertato nei confronti del Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, la sussistenza della causa di sospensione dalla carica di cui al medesimo art. 11, primo comma, lettera a) del medesimo decreto legislativo.

Nel decreto prefettizio si rappresenta che con sentenza n. 3928/12 Reg. Gen. la Seconda Sezione del Tribunale di Roma ha condannato in primo grado il predetto Sindaco di Napoli alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione ed all’interdizione dai pubblici uffici per anni uno, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per i delitti ascritti ai capi A, B, C,D, E, F, G ed H della rubrica, che, dal decreto che dispone il giudizio n. 23078/09/GIP del 21 gennaio 2012, risultavano essere reati di cui all’art. 323 c.p.

Trattandosi di fattispecie delittuosa per cui è prevista la sospensione di diritto dalle cariche elettive nei confronti di chi abbia riportato condanna, omessa la garanzia partecipativa di cui all’art 7 della legge 7 agosto 1990 n. 241, per esigenze di celerità ed attesa la natura vincolata del potere, il Prefetto di Napoli ha notificato all’organo che aveva proceduto alla convalida dell’elezione l’avvenuto accertamento dei presupposti di legge per la sospensione del Sindaco dalla carica.

Con ricorso ritualmente notificato e depositato il giorno 8 ottobre 2014, il dottor Luigi De Magistris ha impugnato innanzi a questo Tribunale il provvedimento prefettizio, chiedendone l’annullamento, previa concessione di idonee misure cautelari.

Si sono costituiti in giudizio il Prefetto di Napoli, che, oltre a svolgere difese nel merito della controversia, ha eccepito il difetto di giurisdizione amministrativa, assumendo trattarsi di questioni inerenti alla tutela di un diritto soggettivo la cui lesione sarebbe direttamente riconducibile alla legge.

Si è costituito in giudizio anche il Comune di Napoli. sostenendo le ragioni di parte ricorrente.

Ha spiegato altresì intervento ad opponendum il signor Manfredi Nappi, in qualità di cittadino elettore.

Alla camera di consiglio del 22 ottobre 2014, all’esito della discussione, la causa è stata trattenuta per la decisione.

Deve essere preliminarmente esaminata l’eccezione di difetto di giurisdizione amministrativa sollevata dalla difesa erariale, secondo la quale la controversia avrebbe ad oggetto la tutela del diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51 della Costituzione, di guisa che ogni questione di eleggibilità e decadenza – di cui la sospensione costituirebbe fattispecie connessa – rientrerebbe nella cognizione del giudice civile ai sensi degli artt. 9 bis e 82 del d.p.r.16 maggio 1960 n. 570, ov’anche la limitazione al relativo esercizio fosse riconducibile all’adozione di un provvedimento amministrativo.

L’eccezione è infondata.

Osserva il Collegio che, esclusa la configurabilità nell’ordinamento di un regime eccezionale di favor per i diritti di elettorato passivo, tali da renderli impermeabili rispetto agli effetti di un’azione amministrativa autoritativa idonea a conformarli – tanto, anche nella scia dell’inconfigurabilità generale di diritti soggettivi resistenti – ai fini della verifica della giurisdizione occorre guardare alla struttura della fattispecie normativa e, in particolare, all’intensità che la legge nel caso di specie riconosce all’intermediazione provvedimentale; ad avviso del Collegio, non si tratta di verificare se l’effetto compressivo del diritto di elettorato passivo sia o meno conseguenza di una scelta discrezionale del Prefetto e nemmeno se l’attività di accertamento a questo richiesta circa la sussistenza dei presupposti sia connotata da profili tecnico-discrezionali, dovendosi invece accertare se l’effetto sospensivo si determini soltanto una volta emanato il decreto prefettizio. Al quesito non può che rendersi risposta positiva; invero, che il provvedimento giudiziario di condanna penale del titolare della carica sia condizione necessaria, ma non sufficiente per la limitazione del diritto di elettorato passivo trova conferma nella stessa costruzione della fattispecie generale ed astratta in cui si affida al Prefetto, quindi ad un organo distinto da quello dell’ente di appartenenza del titolare della carica, la verifica esterna delle condizioni ostative al mantenimento della stessa, e quindi il compimento di un’indefettibile presupposta attività di verifica e di controllo i cui esiti convergono in un atto di natura provvedimentale che, integrando il precetto normativo, ne determina l’applicazione al caso concreto, così consentendo la produzione dell’effetto sospensivo; e poiché, secondo principi ormai da tempo consolidati, la giurisdizione amministrativa generale di legittimità si radica in funzione del solo fatto dell’immanenza di un potere autoritativo il cui esercizio la legge richiede per il prodursi dell’effetto tipico considerato, senza, cioè, che a tal fine assumano decisivo rilievo anche sue possibili caratteristiche intrinseche, la posizione giuridica soggettiva del ricorrente non può che essere quella “naturale” di interesse legittimo, la cui cognizione appartiene a questo Tribunale, anche dal punto di vista della competenza territoriale.

Passando al merito, va rilevato che ,a sostegno dell’impugnazione, il ricorrente ha proposto sette mezzi di censura, i primi tre avverso l’atto prefettizio di accertamento, gli altri volti a prospettare questioni di legittimità costituzionale della normativa applicata.

Con il primo motivo di ricorso è stato dedotto che la sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco sarebbe illegittima, in quanto non fondata su un provvedimento giudiziario, come invece previsto dall’art.11, comma quinto del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235; invero, al momento in cui ha provveduto, il Prefetto di Napoli non avrebbe potuto che fare riferimento ad un dispositivo di sentenza, atto che non figura tra i provvedimenti giudiziari che l’art.125 c.p.p. circoscrive alle sole categorie della sentenza, dell’ordinanza e del decreto; d’altronde, nel dispositivo non sono specificati i capi di imputazione, tanto è vero che il Prefetto, per accertare la sussistenza di quelle imputazioni ai sensi dell’art. 323 c.p. la cui condanna è stata causa di sospensione, ha dovuto richiamare il decreto che dispone il giudizio, atto ben distinto dalla sentenza. Rileva poi il ricorrente che la questione non sarebbe di ordine meramente formale, dal momento che la conformazione strutturale e la caratterizzazione funzionale del procedimento disciplinato dall’art.11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 tendono al raggiungimento di un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti di elettorato attivo e passivo e la salvaguardia di valori costituzionali volti ad assicurare l’idoneità morale dei pubblici amministratori, proprio attraverso l’emanazione di una sentenza, la pubblicazione della cui motivazione costituisce il primo momento dal quale sarebbe possibile per l’autorità competente verificare la sussistenza della causa di sospensione dalla carica pubblica.

Con la seconda censura è stata contestata la carenza di motivazione dell’atto impugnato, dal momento che le cause di sospensione sono state rintracciate in un atto diverso dalla sentenza di condanna, come invece previsto dalla norma.

Infine, sul presupposto della fondatezza dei primi due motivi di impugnazione, è stata lamentata l’intempestività dell’accertamento della causa di sospensione, la cui celerità si colora di illegittimità alla luce del fatto che il Prefetto si sarebbe riferito al solo dispositivo, senza attendere anche la pubblicazione della motivazione della decisione del Giudice penale.

Con il quarto motivo è stato dedotto che la sospensione del ricorrente dalla carica di Sindaco di Napoli sarebbe conseguenza di un’interpretazione retroattiva degli artt. 10, comma 1, lettera c) e 11, comma 1, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 e quindi non conforme ai diritti di elettorato ed ai principi di cui agli artt. 2, 51 e 97 della Costituzione.

Al riguardo, il ricorrente ha evidenziato che al tempo in cui aveva deciso di candidarsi e fino alla sua proclamazione a Sindaco, avvenuta il 1° giugno 2011, non figurava tra le cause di incandidabilità e di sospensione da tale carica l’aver riportato una condanna per il delitto di cui all’art. 323 c.p. Solo con l’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia dal 5 gennaio 2013, nell’ordinamento è stata introdotta, come causa ostativa la condanna anche per tale fattispecie delittuosa; e poiché costituisce principio generale dell’ordinamento quello di irretroattività della legge, altra sarebbe la disciplina legislativa applicabile al tempo della candidatura del ricorrente e differenti i requisiti prescritti per l’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive cui si riferisce l’art. 51 della Carta.

Sulla base dell’appartenenza del diritto di elettorato passivo alla sfera dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione, è stato altresì rilevato come ogni operazione interpretativa debba ispirarsi ad un regime di favor per chi intenda accedere a cariche pubbliche ed elettive; del resto, non potrebbe negarsi rilevanza alla situazione di chi, intenzionato a candidarsi in una competizione elettorale, debba essere consapevole fin da tale momento delle condizioni ostative alla nomina o al mantenimento della carica; in altre parole, un’interpretazione della lettera della legge conforme alla Costituzione dovrebbe essere nel senso non già di limitarne l’applicazione a sentenze di condanna che sopravvengano rispetto alla candidatura, ma di ritenere irrilevanti quelle riportate per fattispecie delittuose che in quel momento storico non costituivano cause di incandidabilità o sospensione; pertanto, una sopravvenienza incidente sulla candidatura o sul mantenimento della carica è costituzionalmente legittima, solo se riferita al suo presupposto fattuale, inteso come sentenza di condanna, e non anche all’applicabilità della previsione normativa generale ed astratta, stante il principio generale di irretroattività della legge.

Diversamente opinando, il ricorrente ha chiesto trasmettersi gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di costituzionalità in relazione agli artt. 2, 51 e 97 della Costituzione da parte della norma legislativa applicata al caso esame.

Inoltre, l’interpretazione della norma legislativa che regge l’adozione del provvedimento prefettizio impugnato si rivelerebbe anche in contrasto il diritto di elettorato attivo, potendo determinare un’alterazione dei risultati del procedimento elettorale, e, quindi, della libera espressione di voto, principio consacrato dall’art.3 del Protocollo Addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali e recepito nell’ordinamento interno attraverso la valvola di cui all’art. 117 della Costituzione; invero, la modifica dei requisiti di candidabilità dell’eletto successivamente all’espressione del voto finisce per vanificare la volontà espressa dal corpo elettorale eliminandone gli effetti per cause irrilevanti al momento in cui la scelta elettorale si era manifestata in favore di determinati candidati, in seguito dichiarati non più idonei. Anche in questo caso, se condivisa dal giudice adito l’interpretazione della legge fatta propria nel provvedimento impugnato e ove non ritenuta la stessa disapplicabile sebbene in contrasto con la CEDU, è chiesta la sottoposizione all’esame della Corte Costituzionale della questione di compatibilità costituzionale dell’art.10, comma 1, lettera c) e 11, comma, 1 lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 con l’art. 117 della Carta.

Con la quinta censura vengono sollevati dubbi di costituzionalità del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sotto il profilo della ragionevolezza e proporzionalità. Al riguardo, ha osservato il ricorrente che la disciplina legislativa previgente – segnatamente, l’art. 15 della legge 19 marzo 1990 n. 55 e successivamente gli artt. 58 e 59 del d.lgs. 8 agosto 2000 n. 267 – aveva raggiunto un apprezzabile punto di equilibrio tra il diritto di elettorato attivo e passivo e le esigenze di tutela dell’imparzialità e del buon andamento degli uffici pubblici, ove confliggenti in relazione ad un determinato soggetto; a tal fine, infatti, erano state individuate specifiche fattispecie di reato che, in considerazione del loro oggettivo indice di pericolosità, ben avrebbero potuto giustificare la cedevolezza dei richiamati diritti di elettorato, nel caso in cui una sentenza di condanna divenuta definitiva fosse stata pronunciata nei confronti di un candidato, anche dopo la sua elezione. Ancora, la medesima disciplina legislativa, nel porre il divieto di candidarsi per le descritte ipotesi, aveva anche proporzionalmente calibrato la conseguenze dell’intervento di una sentenza di condanna nei confronti di chi fosse divenuto pubblico amministratore, disponendo che la misura cautelare della sospensione operasse nei casi di reati più gravi fin dalla condanna di primo grado, mentre per fattispecie delittuose minori occorreva attendere la pronuncia di secondo grado; in altri termini, si rapportava l’astratta gravità del titolo di reato al maggiore – e, quindi, presumibilmente più affidabile – livello di stadiazione dell’accertamento processuale.

Ebbene, l’attuale disciplina legislativa, applicata al ricorrente non solo avrebbe aggravato tale regime introducendo nuove figure delittuose ritenute sintomatiche di esposizione a pericolo dei valori costituzionali che presidiano la qualità dell’organizzazione e dell’azione dei pubblici uffici, quali il delitto di abuso d’ufficio, di cui all’art. 323 c.p., ma avrebbe anche eliminato, specificamente sotto il profilo della proporzionalità, la distinzione tra cause di sospensione collegate a sentenze non definitive di primo e secondo grado.

Tale inasprimento delle cause ostative all’ottenimento ed alla conservazione delle cariche pubbliche eccederebbe, a giudizio del ricorrente, i precedenti limiti di compatibilità con i diritti di elettorato attivo e passivo già ritenuti conformi a Costituzionale da parte della Consulta nella sentenza n. 25 del 2002.

Con la sesta censura è stata dedotta l’incostituzionalità degli artt. 11, comma primo, lettera a) e 10, comma 1, lettera c) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 per violazione dell’art. 76 della Costituzione; invero, la legge 6 novembre 2012 n. 190, all’art. 1, comma 64, nell’affidare al Governo il compito di procedere al riordino ed all’armonizzazione della normativa in materia di incandidabilità alle cariche indicate nel comma 63, stabiliva tra i principi e criteri di direttivi per il legislatore delegato quello di disciplinare ipotesi di sospensione e decadenza di diritto in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica; l’aver il d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 previsto cause di sospensione dalla carica anche per l’ipotesi di sentenza di condanna non definitiva costituiva un eccesso di delega legislativa; e di limitare la sospensione dalla carica nei soli di casi di sentenza definitiva sarebbe stata, a giudizio del ricorrente, anche l’effettiva volontà del legislatore delegante, come si evincerebbe dalla documentazione degli atti preparatori alla legge delega 6 novembre 2012 n. 190; in particolare, in caso di condanna definitiva, mentre per le cariche non elettive era stata proposta la decadenza tout court, per quelle elettive, quale quella di Sindaco, la misura applicabile sarebbe stata la sospensione, volendosi, più limitatamente, circoscrivere l’effetto inibitorio ad un temporaneo allontanamento dalla carica, senza con ciò anche determinare lo scioglimento dell’assembla, come accadrebbe in caso di decadenza.

Il ricorrente ha anche esaminato la possibilità di pervenire ad un’interpretazione conforme a Costituzione della legge delegata, sebbene escludendo tale eventualità proprio in ragione della chiara formulazione del dictum normativo.

A tal proposito, non si ritiene accettabile il presupposto per cui la sospensione sarebbe misura cautelare rispetto alla successiva decadenza, configurandosene la funzione anticipatoria rispetto all’ipotesi di condanna definitiva; invero, nessun collegamento vi sarebbe nella legge delega tra durata della sospensione ed esito del giudizio di appello in sede penale; sospensione che, in caso di sentenza definitiva, si giustificherebbe non solo con le richiamate esigenze di conservazione della volontà elettorale, almeno per il periodo successivo alla scadenza della misura cautelare, ma anche con esigenze di proporzionalità riconducibili alla circostanza che l’ipotesi della condanna per il delitto di abuso d’ufficio, fattispecie indubbiamente di minore gravità rispetto ad altre previste dalla legge delegata, mai era stata in precedente presa in considerazione dal legislatore come causa ostativa all’accesso ed alla conservazione di una carica pubblica.

Pertanto, l’inconfigurabilità di un’interpretazione dell’art.11, primo comma lettera a) e dell’art. 10, primo comma, lettera c) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che possa rendere tali disposizioni conformi ai principi della legge delega, impone la devoluzione della questione alla Corte Costituzionale.

Con la settima ed ultima censura è stato denunciata la mancata copertura di delega legislativa per l’introduzione dell’ipotesi di condanna per il delitto di cui all’art. 323 c.p. quale causa di sospensione e decadenza dalla carica di Sindaco; invero, la legge 6 novembre 2012 n. 190 all’art. 1, comma 64, lettera h) aveva consentito al legislatore delegato di individuare ulteriori ipotesi di incandidabilità per tale carica, ma solo per delitti di grave allarme sociale, ossia quelli di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p.; il ricorrente ha così evidenziato che se la delega legislativa era stata correttamente esercitata con l’art. 10, comma 1, lettera b) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, altrettanto non poteva ritenersi per la norma di cui alla successiva lettera c), non figurando il delitto di abuso d’ufficio tra le fattispecie indicate dall’art. 51 c.p.p.

In disparte i primi tre motivi di impugnazione, che hanno ad oggetto vizi inerenti esclusivamente all’impugnato provvedimento prefettizio di sospensione, occorre preliminarmente esaminare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati da parte ricorrente.

Invero, è manifesta la pregiudizialità logica che impone al giudice adito di anteporre la verifica della rilevanza e non manifesta infondatezza di questioni di legittimità costituzionale degli artt.10 e 11 del d.lgs. 31dicembre 2012 n. 235, che ove fondate, si rivelerebbero decisive ai fini dell’esercizio stesso del potere di sospensione, a prescindere, cioè, dal positivo accertamento di condizioni patologiche direttamente ascrivibili al decreto prefettizio di sospensione, siccome sanabili e comunque superabili, una volta avvenuto il deposito della motivazione della sentenza del giudice penale.

Innanzitutto, si evidenzia che tutte le questioni di costituzionalità proposte nei motivi quarto, quinto, sesto e settimo del ricorso assumono carattere di rilevanza per la definizione nel merito della controversia; invero, risolvendosi in distinti ed autonomi mezzi di impugnazione, ciascuno idoneo, ove ritenuto fondato, a determinare l’illegittimità dell’impugnato provvedimento di sospensione, e quindi il suo annullamento, degli stessi occorre procedere ad una compiuta delibazione.

Deve essere ritenuta manifestamente infondata la questione proposta con il quinto motivo.

Invero, non può essere sufficiente a provocare un incidente di costituzionalità il mero aggravamento da parte del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 delle condizioni e dei presupposti per l’accesso e per la conservazione delle cariche pubbliche elettive, dal momento che il ricorso alla Corte Costituzionale si giustifica in ragione della denuncia di uno specifico ed oggettivo contrasto con principi e valori della Carta da parte del potere legislativo statale o regionale, senza che si possa risolvere, come proposto nel caso di specie, in una generica richiesta di verifica della tenuta costituzionale della norma denunciata, per il solo fatto che abbia modificato in senso restrittivo il regime giuridico previgente; d’altronde, senza entrare nel merito della discrezionalità legislativa, è sufficiente osservare che, sotto il profilo della ragionevolezza, l’elevazione della soglia di protezione in materia di accesso alle cariche pubbliche non confligge con i valori costituzionali di cui all’art. 51 della Carta, ove sia giustificata dall’esigenza di allontanare da tali munera chi sia reso responsabile anche di delitti contro l’amministrazione pubblica, fatti il cui verificarsi è stato accertato in sede giudiziaria con sentenza definitiva, ai fini della decadenza, o non definitiva ai fini della sospensione cautelare dalla carica. Quanto, poi, alla violazione del principio di proporzionalità, la questione di costituzionalità è manifestamente infondata, dal momento che si pretende di qualificare la gravità del fatto ostativo alla sola qualificazione operatane dalla norma penale, mentre rientra nella piena discrezionalità del legislatore individuare, quali causa di indegnità morale, fattispecie di reato che sebbene, aventi pena edittale diversa, ai fini del venir meno delle condizioni soggettive di accesso e conservazione della carica, presentano una non dissimile sintomaticità indiziaria.

Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata nella sesta censura è manifestamente infondata.

Al riguardo, non possono che essere condivise le considerazioni espresse nella sentenza 14 febbraio 2014 n. 730 della III Sezione del Consiglio di Stato; investito della questione, quel Collegio ha superato la formale contraddizione esistente nell’art.1, comma 64, lettera m) della legge 6 novembre 2012 n. 190, accedendo ad un’interpretazione logico sistematica del dato normativo letterale, rendendone coerente il contenuto con il principio di cui all’art. 76 della Costituzione.

Innanzitutto, anche in ragione di quanto si andrà ad esporre nel prosieguo, è ampiamente condivisibile l’assunto per cui gli istituti della sospensione e della decadenza costituiscono species di un più ampio genus, costituito dalle misure inibitorie dell’accesso e della conservazione della carica pubblica; altro non è dato evincere dal dato normativo attuale che, a prescindere dai lavori preparatori, costituisce senza dubbio l’effettiva ultima volontà del legislatore, ratione temporis. E se la sospensione, per sua natura, non può che essere misura anticipatoria, la sua stessa strumentalità non può difettare di un istituto di cui costituisce complemento e che ne è volto a confermare gli effetti sostanziali, tendenzialmente senza soluzione di continuità, effetti in un primo momento inevitabilmente temporanei, proprio per la natura strumentale della sua intima funzione. Né valga obiettare che nell’ordinamento sono presenti anche fattispecie di sospensione autonome, cioè che risolvono nella loro temporanea efficacia la ratio legis; invero, nel caso di specie, tale soluzione interpretativa non si rivela percorribile, in ragione del dato letterale della norma che rivela senz’altro la volontà del legislatore di collegare funzionalmente entrambi gli istituti ad un unico presupposto, ossia l’esistenza di una condanna penale per determinate categorie di reati.

Quanto alla prospettata lettura del dato normativo tale da esigere una condanna definitiva come presupposto per l’operatività sia della sospensione che della decadenza, oltre a richiamare quanto ritenuto dal Consiglio di Stato riguardo al principio della continenza del primo istituto nel secondo, per effetto del richiamato vincolo di strumentalità, va evidenziato che la volontà del legislatore delegante, quale emerge dall’art. comma 64, lettera g) della legge 6 novembre 2012 n. 190, è stata nel senso di affidare il compito di operare una ricognizione nella normativa vigente in materia di incandidabilità, limitando l’introduzione di una vera e propria novella ai soli casi di cui alla successiva lettera h), tra cui non figurano interventi sull’istituto della sospensione come fino a quel momento disciplinata, cioè come misura temporanea e strumentale rispetto alla decadenza (art.15 legge 19 marzo 1990 n.55, artt. 58 e 58 d.lgs. 8 agosto 2000 n. 267).

Ne consegue che del dato normativo non può che offrirsi un’interpretazione che lo renda riferibile ad una sentenza di condanna “che sia divenuta definitiva” rispetto all’applicazione della decadenza dalla carica, intesa come misura finale, di cui, pertanto, la sospensione costituisce effetto inibitorio di stadiazione che, in quanto tale, non può che riferirsi a presupposti storicamente antecedenti rispetto alla definitività della pronuncia del giudice penale.

In tale prospettiva non può condividersi l’assunto di parte ricorrente che, al fine di configurare l’operatività della sospensione come istituto distinto ed alternativo rispetto alla decadenza, e quindi anch’esso fondato sul presupposto di una sentenza penale di condanna definitiva, afferma che non esisterebbero collegamenti rispetto all’esito del giudizio penale d’appello sulla sentenza di primo grado.

Invero, che sospensione e decadenza non siano in rapporto parallelo di alternatività, ma di omogenea relazione di stretta consecutività è confermato dall’art.11, quarto comma del d.Lgs 31 dicembre 2012 n. 235 che, in caso di rigetto dell’appello, prevede un ulteriore periodo di sospensione; nemmeno può essere negata l’interferenza esistente tra progressione del processo penale e ricadute sulla attuale conservazione della carica pubblica, come risulta confermato dai successivi commi sesto e settimo della medesima disposizione, il primo dei quali disciplina la cessazione della sospensione al venir meno di una misura coercitiva emessa nei confronti dell’interessato o sentenza anche non definitiva favorevole, il secondo che stabilizza gli effetti inibitori nella decadenza al passaggio in giudicato della sentenza; precisazione che sarebbe stata pleonastica, ossia iterativa della già prevista natura definitiva della condanna, ove ritenuta non di natura procedimentale, cioè riferita alla mutazione in decadenza di una precedente sospensione dalla carica.

Manifestamente infondata è anche la questione di legittimità costituzionale proposta nel settimo motivo di ricorso, per eccesso di delega relativamente all’art. 1, comma 64, lettera h) della legge 6 novembre 2012 n. 190 che, per le cariche di cui alla precedente lettera g) – tra cui quella di Sindaco – consentiva al legislatore delegato di introdurre ulteriori ipotesi di incandidabilità, ma solo per delitti di grave allarme sociale. A giudizio del ricorrente, tale categoria di reati si identificherebbe con le sole fattispecie di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ipotesi per le quali, coerentemente con la legge delega, in caso di condanna, il d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 aveva previsto agli artt. 10, primo comma lettere a) e b) e 11, primo comma, lettera a), la decadenza e la sospensione di diritto dalla carica pubblica. Non figurando in tale categoria anche il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., la sua assunzione come fattispecie di decadenza e di sospensione in caso di condanna penale eccederebbe i limiti posti dal legislatore delegante.

Osserva il Collegio che nessun utile riferimento di diritto positivo esiste nel senso di limitare i delitti di grave allarme sociale di cui alla legge delega alle sole fattispecie di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater del codice di procedura penale; pertanto, nel sottenderne l’ampia discrezionalità, la legge di delegazione consente al legislatore delegato di ricondurre alla categoria dei delitti di grave allarme sociale, non solo le fattispecie associative finalizzate al traffico di sostanze stupefacenti, armi, criminalità organizzata e terrorismo – e tutti quelli a cui si riconduce la competenza del procuratore della Repubblica distrettuale – ma anche differenti ipotesi delittuose, la cui commissione si ritiene idonea a destare preoccupazione nella generalità della popolazione, costituendo manifestazione o, comunque, sintomo di mancato o cattivo funzionamento di settori nevralgici della vita sociale; e non appare irragionevole l’aver compreso in tale categoria anche fattispecie di delitti contro la pubblica amministrazione connotati da una certa gravità, proprio nell’ottica del riordino della materia dell’incandidabilità, a cui sottendono obiettivi di riassetto organizzativo e di moralizzazione della amministrazione pubblica voluti dalla stessa legge 6 novembre 2012 n. 190; d’altronde, l’accostamento tra delitti rientranti nella categoria di cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p. ed ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione non è soluzione nuova nella legislazione interna, essendo sufficiente il rinvio alla disciplina di cui al d.p.r. 6 settembre 2011 n. 159 in materia di antimafia che tende ad esaltare la stretta correlazione tra criminalità organizzata e cattiva amministrazione ai fini della rilevazione degli elementi indiziari necessari per l’applicazione di misure amministrative di prevenzione.

Non manifestamente infondata è invece la questione di legittimità costituzionale proposta nel quarto motivo di ricorso, relativamente all’efficacia retroattiva della disposizione normativa di cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235.

Va premesso che, in assenza di una normativa transitoria o comunque di disposizioni specifiche al riguardo, occorre procedere nell’indagine facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento.

A tal proposito, il principio di irretroattività è sancito nell’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale che recita “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo” e trova copertura costituzionale, attraverso il rafforzamento del divieto da parte dell’art. 25, secondo comma della Carta, per le leggi “punitive”, identificate dalla giurisprudenza costituzionale in quelle in materia penale.

Nella prospettazione del ricorrente la violazione del suddetto principio garantistico riposerebbe sulla circostanza per cui una lettura costituzionalmente orientata dal dato normativo esigerebbe che di epoca successiva all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 dovrebbe essere non solo la sentenza, come è incontestato nel caso in esame, ma anche il fatto storico qualificato come delitto che ne costituisce la res iudicanda.

Il ricorrente ha ritenuto la violazione del principio di irretroattività, sia con riferimento alla sua qualità di soggetto candidato, sia come incidente sulla sua attuale carica di Sindaco, la cui sospensione dalle funzioni sarebbe da qualificarsi come incandidabilità sopravvenuta.

Sotto il primo profilo è stato obiettato che la rilevanza riconosciuta alla pendenza di un procedimento penale all’epoca della candidatura, integrata attraverso la successiva sentenza di condanna, avrebbe inciso sulla condizione di soggetto candidabile del ricorrente, illo tempore per nulla esposta al rischio di una futura sospensione o decadenza per effetto di pronunce sfavorevoli per il delitto di cui all’art. 323 c.p.; allo stesso, modo ne sarebbe risultata alterata anche la genuinità della competizione elettorale, essendosi il corpo elettorale espresso in favore di chi all’epoca sapeva che non sarebbe mai stato sospeso o dichiarato decaduto a seguito di una futura condanna per un delitto che all’epoca mai avrebbe inciso sulla sua qualità di Sindaco.

La tesi non convince.

Va premesso che costituisce principio generale dell’ordinamento quello per cui una legge successiva può incidere su precedenti posizioni giuridiche, ma entro il limite della salvaguardia dei diritti quesiti e dei rapporti esauriti. Trattasi di un corollario del principio generale di irretroattività, nel senso che l’ordinamento pone un limite alla possibilità di incidenza sfavorevole di una nuova normativa che, sebbene volta a disporre per il tempo futuro, in coerenza con l’art.11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale, finisce comunque per intervenire su posizioni giuridiche durevoli o non compiutamente definite, insidiando quel principio di affidamento dei cittadini nei confronti del quale nemmeno il legislatore deve mostrarsi insensibile. Pertanto, non sarebbe possibile ad una legge sopravvenuta sopprimere e nemmeno limitare posizioni giuridiche consolidate, la cui stabilità e definitività costituisce condizione implicita di irretroattività.

Ai fini del presente giudizio, la presenza di diritti quesiti e rapporti esauriti in capo al ricorrente va accertata in relazione al rapporto esistente tra soggetto e procedimento elettorale – quest’ultimo da intendersi in senso ampio, cioè comprensivo anche delle fasi, e relativi diritti, riconducibili alle attività preparatorie per l’accesso alla competizione elettorale – ed in particolare alla sussistenza di una fluente ed omogenea relazione di tipo endoprocedimentale tra i suoi atti, oppure al rinvenimento al suo interno di posizioni differenziate e parzialmente autonome in capo al soggetto che vi partecipa, tale da consentire la configurazione di status e qualità personali la cui rilevanza giuridica non sia immanente, ma storicamente collocabile solo in alcune fasi del procedimento; in altri termini, si tratta di verificare la percorribilità giuridica in senso inverso della sequenza procedimentale tipica (recte della relazione atto presupposto/atto consequenziale), al fine di verificare, se, contrariamente a quanto accade nella dinamica ordinaria, che trasmette a valle tutta la funzione esercitata concentrandola nel provvedimento, anche nella prospettiva del soggetto destinatario del potere, nel caso del procedimento elettorale esistano delle posizioni preparatorie ed intermedie che, nonostante l’evoluzione del procedimento, conservino autonoma rilevanza giuridica, sganciandosi dalla produzione degli effetti finali, quantunque favorevoli. In altri termini, occorre chiedersi se, rispetto alla conclusione del procedimento elettorale in senso favorevole ad un candidato, questi conservi ancora, come giuridicamente rilevante, lo status di soggetto candidabile.

Al quesito deve rendersi risposta negativa, dal momento che la qualità di soggetto candidabile è destinata ad esaurire la sua funzione tipica una volta conclusosi il procedimento elettorale, al cui esito potrà seguire lo status di candidato non eletto o di eletto e, in quest’ultimo caso, la nomina; atteso il rapporto di consecutività che caratterizza il procedimento, e nella specie quello elettorale, anche la posizione soggettiva dell’interlocutore del potere evolve e si modifica, non restando più la medesima; inoltre, la progressione del procedimento elettorale, ma soprattutto la sua conclusione, finisce per rendere la posizione di semplice soggetto candidabile non solo superata, ma anche incompatibile con quella di eletto, trattandosi, in fondo, della medesima posizione vista nella prospettiva del suo divenire; invero, la qualità di candidato finisce per rifluire completamente nello status di eletto, esaurendo così completamente ogni ulteriore ed autonoma funzione.

A ben vedere, si tratta dell’applicazione del generale principio procedimentale del tempus regit actum che riconosce giuridica rilevanza alle sole posizioni attuali, concorrenti con l’evoluzione del dispiegarsi della funzione esercitata.

Di tali coordinate è stata fatta puntuale applicazione da parte del d.lgs. 31 dicembre 2014 n. 235 che distingue tra cause di incandidabilità da un lato e cause di decadenza e sospensione dalla carica dall’altro, non solo inquadrandone l’efficacia rispetto alla specifica fase storica del procedimento elettorale su cui vanno ad incidere, ma senza neanche dare vita tra queste a commistioni o sovrapposizioni di sorta. Nel caso di specie, il provvedimento prefettizio impugnato costituisce espressione del potere di rilevazione di una causa ostativa alla prosecuzione dell’esercizio della carica di Sindaco, senza alcuna riferibilità anche alla presupposta e ormai superata qualità di candidato del ricorrente, la cui funzione ha da tempo esaurito i suoi effetti, evolutisi e confluiti nell’esito a lui favorevole della competizione elettorale.

Dubbi di legittimità costituzionale sorgono, invece, riguardo agli artt.11, primo comma, lettera a) e 10, primo comma, lettera c), nella parte in cui, nel prevedere quale causa di sospensione – oltre che di decadenza e di incandidabilità – la condanna non definitiva per alcuni delitti, tra cui quello di cui all’art. 323 c.p., attraverso il provvedimento prefettizio impugnato le predette disposizioni normative sono state applicate retroattivamente al ricorrente quale Sindaco in carica del Comune di Napoli.

Non ignora il Collegio l’esistenza dei recenti arresti nella giurisprudenza amministrativa di legittimità che hanno escluso la retroattività delle previsioni normative de quibus (Consiglio di Stato V Sezione 6 febbraio 2013 n. 695; Consiglio di Stato V Sezione, 29 ottobre 2013 n. 5222; TAR Lazio II bis, 8 ottobre 2013 n. 8696), ritenendo applicabili le cause ostative anche laddove la sentenza di condanna penale irrevocabile sia intervenuta in un tempo antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, ossia il 5 gennaio 2013.

In particolare, nel richiamare specifici orientamenti della Corte Costituzionale in materia è stato evidenziato che «la condanna penale irrevocabile é stata presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui é ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive: la condanna stessa viene, cioè, configurata quale “requisito negativo” ai fini della capacità di assumere e di mantenere le cariche medesime» (Corte Costituzionale 31 marzo 1994 n. 118); né il divieto di applicazione retroattiva potrebbe trovare copertura costituzionale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Carta, attraverso la qualificazione in termini sanzionatori o comunque punitivi nelle cause di incandidabilità, sospensione e decadenza previste dal d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, atteso che secondo costante giurisprudenza costituzionale, l’invocato principio si riferisce alle sole sanzioni penali (Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118, 14 luglio 1988 n. 823, 3 giugno 1992 n. 250; 14 aprile 1988 n. 447) e, a giudizio del Collegio, all’istituto della sospensione di cui all’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, sebbene difficilmente possa essere negata efficacia sanzionatoria, non può essere riconosciuta anche natura penale.

Inoltre, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che non costituisce irragionevole limitazione del diritto di elettorato di cui all’art. 51 della Costituzione l’aver attribuito immediata operatività «all’elemento della condanna irrevocabile per determinati gravi delitti una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame, l’incidenza negativa della disciplina medesima anche sul mantenimento delle cariche elettive in corso al momento della sua entrata in vigore»(Corte Costituzionale, 31 marzo 1994 n. 118).

Osserva il Collegio che l’interpretazione fatta propria nei richiamati arresti non autorizza a ritenere esclusa l’efficacia retroattiva della norma, ossia che essa nei casi descritti non disponga per l’avvenire, ma giustifica solo il superamento di tale limite, perché dal legislatore è ritenuto prevalente l’interesse alla salvaguardia della moralità dell’organizzazione degli organi di governo degli apparati pubblici.

In tal modo, i principi espressi nella citate pronunce non consentono di risolvere in via interpretativa anche i pregiudiziali problemi di compatibilità costituzionale della normativa applicata al caso concreto, dal momento che la vicenda sottoposta all’esame del Collegio riguarda un provvedimento di sospensione adottato a seguito e per effetto di una condanna penale non definitiva, non essendosi, quindi, in presenza di una pronuncia irrevocabile come, invece, nei casi esaminati nei citati precedenti giurisprudenziali; e che si tratti di una situazione del tutto diversa si evince, non solo dai differenti effetti che conseguono, anche dal punto di vista della disciplina penale, all’emanazione di una sentenza di primo grado rispetto alla sua successiva condizione di irrevocabilità, ma anche dal fatto che una lettura costituzionalmente orientata del dato normativo non autorizza l’interprete a presumere la sussistenza di una situazione di indegnità morale che legittimi l’inibizione dell’accesso ad una carica pubblica o la sua perdita, e ciò superando il divieto di retroattività, anche nel diverso caso in cui si sia in presenza di una sentenza non definitiva, laddove si osservi pure che quest’ultima interviene come prima statuizione nell’ambito di un modello verticale del processo penale che consta, nella sua dinamica ordinaria, di non meno di tre gradi progressivi di giudizio.

I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 sulla violazione del divieto di retroattività ove sia una sentenza non passata in cosa giudicata a determinare la sospensione dalla carica, si fondano su due presupposti.

Innanzitutto, vi è la natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione.

Come già rilevato, non è intendimento di questo giudice disallinearsi dagli approdi a cui è giunta la giurisprudenza di legittimità nella parte in cui ha individuato la ratio legis nell’esigenza, fortemente sentita, di preservare, anche cautelativamente, l’amministrazione pubblica, ai vari livelli considerati, dalla presenza e partecipazione di chi si sia reso moralmente indegno (Corte Costituzionale 29 ottobre 1992 n. 407), sebbene ciò avvenga – non può negarsi – in base ad una presunzione assoluta di inidoneità, in ragione del solo titolo del reato, senza alcuna valutazione del fatto concreto giudicato, nemmeno dal punto di vista dell’esame delle considerazioni poste dal giudice penale a fondamento della condanna; scelta che, in verità, non consentirebbe di assolvere la soluzione legislativa adottata da dubbi di legittimità costituzionale, avuto riguardo all’omessa ricerca di un punto di equilibrio sia rispetto al diritto di elettorato, attivo e passivo, sia rispetto all’esigenza concreta ed effettiva di allontanare chi sia “moralmente indegno”.

Su un distinto piano, s’intende rilevare che riconoscere natura sanzionatoria, e comunque afflittiva, agli istituti dell’incandidabilità, sospensione e decadenza non significa affatto negare l’esistenza di ulteriori finalità, anche principali, che la disciplina legislativa in esame pone a fondamento della propria giuridica esistenza; d’altronde, non sono di certo sconosciuti all’ordinamento giuridico poteri di regolazione, anche non normativi, che, implicando la valutazione di diversi interessi intercettati, impongono al titolare di perseguire la finalità avuta di mira, tuttavia modulandola con la necessità, imposta, di tutelare posizioni con questa interferenti; tutela che può risolversi attraverso la previsione di garanzie di tipo partecipativo o con connotazioni specifiche del precetto sostanziale da applicarsi che tenga conto – in ciò limitandosi – di specifiche prerogative del destinatario del potere.

Da tale punto di vista, l’esigenza di immunizzare l’amministrazione pubblica al fine di preservarne l’imparzialità attraverso istituiti quali l’incandidabilità, la sospensione o la decadenza da cariche, reca in sé l’immanenza di un conflitto, imponendo il sacrificio del diritto di chi a quella carica aspira o ne è stato investito.

E se attraverso l’automatica operatività della causa limitativa il legislatore ha, di fatto, inteso azzerare il confronto procedimentale, non può spingersi la sua discrezionalità fino al punto di negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta.

A ben vedere, che si tratti di misure afflittive è aspetto che non ha ignorato nemmeno il legislatore delegato che nell’art. 15, secondo comma, nel prevedere l’autonomia degli effetti dell’incandidabilità rispetto all’interdizione temporanea dai pubblici uffici, mostra di averne assimilato l’identità quoad effectum ed ancora nel comma successivo in cui ne ammette l’estinzione a seguito di riabilitazione in sede penale, come remissione degli effetti di un regime indiscutibilmente sanzionatorio.

Il secondo presupposto, cui in parte si è già accennato, è costituito dall’efficacia retroattiva dell’istituto della sospensione dalla carica, applicato in presenza di una condanna penale non definitiva.

In disparte la possibilità per il legislatore di dare giuridica rilevanza a fini sanzionatori a fatti accaduti in un tempo anteriore rispetto all’entrata in vigore della legge che li qualifica, è certo che la sospensione di un amministratore da una carica per un fatto storicamente anteriore rispetto alla sua elezione, così come anteriore ne è il provvedimento giudiziario che a questo dà a tal fine rilevanza, costituisce, oggettivamente, applicazione retroattiva della norma.

Ebbene, ritiene il Collegio che l’applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria, anche di natura non penale ai sensi dell’art. 25, secondo comma della Costituzione, urta con la pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti, tutte le volte in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di esercizio di quel diritto; pertanto, ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria; di conseguenza, essendo il divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale, uno dei principi su cui si fonda l’efficacia della legge nel tempo, la sua violazione è anche violazione del diritto che la Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e proteggere.

In questo senso, l’art. 51 della Costituzione nell’affidare alla legge l’individuazione dei requisiti per l’accesso alle cariche pubbliche, quindi la disciplina positiva per l’esercizio del diritto di elettorato passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente.

Si aggiunge che la forza di tale assunto s’intensifica, tenuto conto del primo dei citati postulati, ossia la natura sanzionatoria delle cause ostative di cui al d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 – tra cui figura la sospensione dalla carica applicata al ricorrente – attesa l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali.

Ora, anche per l’assenza di una norma transitoria, non è possibile in via interpretativa al giudice del merito risolvere la questione della legittimità costituzionale del superamento del limite costituito dal divieto di retroattività della legge anche nell’ipotesi in cui la sospensione dalla carica sia prevista in caso di condanna non definitiva; il dubbio di compatibilità costituzionale concerne la sussistenza di un eccessivo sbilanciamento in favore della previsione normativa di tale misura cautelativa di salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto all’ampio favor da riconoscersi alle facoltà di pieno esercizio del diritto soggettivo di elettorato passivo di cui all’art. 51, primo comma della Costituzione, da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma.

Conclusivamente, il Collegio ritiene necessario sottoporre alla Corte Costituzionale questione incidentale di legittimità costituzionale, rilevante ai fini della definizione del giudizio a quo, dell’art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, in relazione all’art.10, primo comma lettera c) del medesimo decreto legislativo perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione.

Ai sensi dell’art.23, secondo comma della legge 11 marzo 1953 n. 87 il giudizio è sospeso fino alla definizione dell’incidente di costituzionalità.

Ai sensi dell’art.23, quarto comma della legge 11 marzo 1953 n. 87 la presente ordinanza sarà notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Quanto all’istanza cautelare proposta dal ricorrente, ai fini della cui compiuta delibazione la questione di legittimità costituzionale sollevata anche assume piena rilevanza, al fine di conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; art. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), il Collegio ritiene di concedere una misura cautelare “interinale” (sentenze n. 444 del 1990, n. 367 del 1991; n. 30 e n. 359 del 1995; n. 183 del 1997, n. 4 del 2000; ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194 del 2006), fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale (Consiglio di Stato 26 ottobre 2011, ordinanza n. 4713); a tal fine, sussistendo, allo stato, il fumus boni iuris relativamente al quarto motivo di ricorso, essendo l’impugnato provvedimento prefettizio di sospensione fondato su un’interpretazione dell’art.11 del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235 che si pone in contrasto con le richiamate norme costituzionali, nonchè un pregiudizio grave ed irreparabile per le ragioni del ricorrente, ascrivibile all’irrecuperabilità del tempo di mancato esercizio della sua funzione di Sindaco di Napoli, deve essere disposta la sospensione del provvedimento prefettizio impugnato fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale.

Le spese della fase cautelare del presente giudizio saranno regolate all’esito della camera di consiglio successiva alla risoluzione dell’incidente di costituzionalità

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione Prima)

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012 n. 235, in relazione all’art.10, primo comma lettera c) del medesimo decreto legislativo perché la sua applicazione retroattiva si pone in contrasto con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione, per le ragioni esposte in motivazione.

Accoglie provvisoriamente la domanda cautelare e sospende provvisoriamente gli effetti dell’impugnato provvedimento prefettizio fino alla camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare successiva alla definizione della questione di legittimità costituzionale.

Spese della presente fase da regolarsi alla pronuncia definitiva del giudizio cautelare.

Dispone la sospensione del presente giudizio e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del Tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 22 ottobre 2014 con l’intervento dei magistrati:

Cesare Mastrocola, Presidente

Paolo Corciulo, Consigliere, Estensore

Carlo Dell’Olio, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 30/10/2014

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

Redazione

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