Il giudice sottoposto a procedimento disciplinare

Gli extracomunitari che vendono Cd riprodotti illegalmente non sono punibili sotto il profilo penale. Era il contenuto di una sentenza emessa circa un anno fa (15 febbraio 2001) dal Tribunale di Roma.

Il giudice, Dott. Francione, motivò la sua decisione affermando innanzitutto che in questi casi la norma penale è desueta di fatto per l’abitudine di molte persone, di tutti i ceti sociali, di ricorrere all’acquisto dei cd o di effettuare il download della musica preferita da Internet, anche grazie alla diffusione a livello mondiale di network come Napster che, con forme ben più vistose di lesione del copyright, permettono tali fenomeni di massa.

Inoltre considerò, da un lato che i quattro senegalesi per i quali era stata chiesta la condanna erano in condizioni di tale indigenza da far scattare la non punibilità; dall’altro che il danno sociale che essi provocarono fu minimo.

Orbene, qualche giorno fa il ministro della giustizia Castelli ha deferito al Csm il giudice Francione, giudicando abnorme la motivazione della sentenza.

Riportiamo qui di seguito il testo dell’innovativa sentenza:

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Tribunale di Roma

Sentenza del 15 febbraio 2001

(…)

MOTIVI DELLA DECISIONE

Tizio, colto in possesso di cd sprovvisti di contrassegno SIAE e abusivamente duplicati, è stato tratto a giudizio, chiamato a rispondere dei reati di cui alla rubrica.

All’esito dell’odierno dibattimento ritiene il Tribunale di dover adottare la seguente decisione.

In via preliminare il Giudice, dopo aver accertato che non risultano nelle carte del P. M. atti tendenti a dimostrare che il prevenuto straniero abbia altre forme di sostentamento oltre quella illecita rilevata, invitava le parti a svolgere i loro rilievi, considerando che ricorresse un caso di obbligo di immediata declaratoria di causa di non punibilità ex art. 129 c.p.p. per aver l’imputato agito in stato di necessità essendo mosso nella sua azione di venditore di cd contraffatti dalla necessità di salvare se stesso dal pericolo attuale di un danno grave alla salute e alla vita rappresentato dal bisogno alimentare non altrimenti soddisfatto.

Essendosi opposto il P. M. per la declaratoria de quo e avendo la difesa concordato, il Giudice si ritirava in Camera di Consiglio per la decisione, rilevando la sussistenza dell’esimente ex art. 54 c.p. [1] sulla base delle seguenti considerazioni.

In via preliminare va notato che la vecchia giurisprudenza secondo cui l’onere della prova incombeva all’imputato risulta superata dal nuovo 111 della Cost. e dal giusto processo instaurando per il quale, nella paritaria posizione delle parti, è compito del giudice, in un rinnovato spirito del favor rei, valutare anche d’ufficio già a monte qualunque elemento possa escludere la responsabilità del prevenuto.

Nel merito valga quanto segue.

La consuetudine è una manifestazione della vita sociale che si concreta in un’attività costante ed uniforme dello Stato-comunità (Tesauro). Ad essa può essere attribuita funzione di mezzo d’interpretazione di principi e norme (consuetudine interpretativa) ma anche di fatto idonea a disapplicare la norma scritta(consuetudine abrogativa).

Il nostro ordinamento considera contra legem la consuetudine abrogativa perché contraria al dettato dell’art. 8 delle preleggi che comporta l’applicabilità della consuetudine(usi) solo se richiamata da leggi e regolamenti.

Nessuna norma, invece, vieta la consuetudine interpretativa che anzi il magistrato penale applica continuamente come nei processi indiziari ad esempio, quando tenda a trarre conclusioni da comportamenti umani logici e regolari individuati in un ambiente con un determinato background socioculturale.

Anche la legge penale va interpreta alla luce del mondo concreto in cui si sviluppa, con tensione dinamica e non statica ad evitare una discrasia tra il dover essere normativo e quello reale. "La dottrina – come leggiamo in Antolisei – è concorde nell’attribuire alla consuetudine la più grande importanza nell’interpretazione della legge, specie nei riguardi dei fatti che sono valutati in diverso modo nei vari ambienti sociali" (F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale – Giuffrè Milano, 1969, p. 51-52, in cui si cita il Codex iuris canonici <ca. 29>: Consuetudo est optima legum interpres). Secondo Antolisei è addirittura da ammettersi la consuetudine integratrice o praeter legem che sorga per integrare i precetti della legge qualora essa non si risolva in danno dell’imputato (F. Antolisei, ibid.).

La legge e la giustizia vanno applicate in nome del popolo ad esso spettando la sovranità (art. 1 della Cost.) e il metro di questa sintonia è proprio la rispondenza piena del popolo alle leggi penali emanate dal Parlamento, il quale può andare "controcorrente" quando contraddica lo spirito del comune sentire della popolazione che ad esso ha dato mandato, incorrendo in tal maniera di fatto nella disapplicazione della norma scritta.

Nel caso di specie la norma repressiva di base, la protezione penalistica – e non meramente civilistica del diritto d’autore – è desueta di fatto per l’abitudine di molte persone di tutti i ceti sociali, che, in diuturnitas, ricorrono all’acquisto di cd per strada o li scaricano da Internet. Anche grossi network come Napster si sono mossi da tempo in senso anti-copyright e hanno permesso copie di massa dell’arte musicale.

Fenomeno appena sfiorato dalle recenti sentenze degli USA che si sono espresse nel senso di regolamentare la materia della riproduzione di massa, ma con un pagamento ridottissimo in un nuovo mercato dove il guadagno dei produttori è quantificato su "minimi diffusissimi". In linea con questa strategia si è espresso recentemente il Parlamento europeo con la direttiva per "la protezione del diritto d’autore nella società dell’informatica" avanzando al più l’ipotesi di un equo compenso per gli autori per la diffusione globale della loro opera.

Il fatto è che la strategia del regalo è uno dei punti centrali nel mondo digitale, tanto che si parla di free economy, economia del gratis appunto, o di gift economy, economia del regalo. "Nell’età dell’accesso si passa da relazioni di proprietà a relazioni di accesso. Quello di proprietà privata è un concetto troppo ingombrante per questa nuova fase storica dominata dall’ipercapitalismo e dal commercio elettronico, nella quale le attività economiche sono talmente rapide che il possesso diventa una realtà ormai superata"(Vedi New economy in http://mediamente.rai.it/biblioteca).

Anche la New Economy depone, dunque, nel senso dell’arte a diffusione gratuita o a bassissimo prezzo, per rendere effettivo il principio costituzionale dell’arte e la scienza libere (art. 33 della Cost.) e quindi usufruibili da tutti, cosa non assicurata dalle attuali oligarchie produttive d’arte che impongono prezzi alti, contrari a un’economia umanistica, con economia anzi diseducativa per i giovani spesso privi del denaro necessario per acquistare i loro prodotti preferiti e spinti, quindi, a ricorrere in rete e fuori a forme diffuse di "pirateria" riequilibratrice.

L’azione degli oligopoli produttivi appare quindi in contrasto con l’art. 41 della Cost. secondo cui l’iniziativa economica privata libera "non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Solo un’arte a portata di tasca di tutti i cittadini e soprattutto dei giovani può essere a livello produttivo umanitaria e sociale come richiesto dalla Costituzione, per far sì che davvero tutti possano godere dei prodotti artistici.

In definitiva, se compito dello Stato ex art. 2 della Costituzione è rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono al libero ed egualitario sviluppo della comunità, risulta la normativa penalistica a favore del copyright tendenzialmente abrogata di fatto ad opera dello stesso popolo per desuetudine, con azione naturale tendente a calmierare le sproporzioni economiche del mercato capitalistico in materia.

Tale consuetudine non è quella abrogativa canonica ex lege ma di fatto incide sull’interpretazione della norma penalistica, quanto meno nel senso di far percepire al giudice quanto possa essere ridotta la forza cogente di una norma espressa, imposta ma non accettata dalla maggioranza del consesso sociale. Nel contempo permette di rilevare come ai fini dell’enunciando stato di necessità il fatto del vendere cassette per sopravvivere è più che proporzionato al pericolo connesso alla lesione del copyright (art. 54 ult. Parte co. 1).

L’azione di depenalizzazione strisciante e non legalizzata del fenomeno trova appiglio de iure condendo nei lavori della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale (istituita con d.m. 10 ottobre 1998) che nel progetto preliminare di riforma del codice penale avanza il principio della necessaria offensività del fatto, e soprattutto, quello della sua irrilevanza penale.

La Commissione ha preso innanzitutto atto del fatto "che il principio di necessaria offensività costituisce ormai connotato pressoché costante dei più recenti progetti riformatori. Esso ha trovato ingresso nello schema di legge-delega Pagliaro, che in uno dei primi articoli, collocato non a caso subito dopo la enunciazione del principio di legalità, invita a "prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da limitare la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico" (art. 4 comma 1). Ed è stato enunciato a tutto campo nel Progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione Bicamerale: "non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività".

La Commissione ritiene che, al di là delle opinioni specifiche di ciascuno sulle modalità di inserimento di tale principio nel codice, le posizioni sopra enunciate esprimano la esigenza insopprimibile di ancorare, anche visivamente, la responsabilità penale alla offesa reale dell’interesse protetto, nel quadro di un diritto penale specificamente finalizzato a proteggere i (più rilevanti) beni giuridici".

Anche sul campo della concreta offensività la New economy ha dimostrato come addirittura la diffusione gratuita delle opere artistiche acceleri paradossalmente la vendita anche degli altri prodotti smistati nei canali ufficiali, e se ciò vale nello spazio virtuale di Internet deve valere anche nello spazio materiale con vendita massiccia di prodotti-copia che alimentano l’immagine e la vendita dello stesso prodotto smistato in via "legale".

Naturalmente in questa sede la depenalizzazione in re, per mancanza di una reale offesa al copyright (tutelabile al più civilmente ma non penalmente), non può essere ancora invocata e lo si potrà probabilmente con la riforma del codice penale, ma il dato acquista rilievo di fatto ai fini di stabilire la proporzione dell’azione svolta dai venditori di cd con l’offesa arrecata ai diritti d’autore.

In tema di stato di necessità, a fronte dei dubbi interpretativi suscitati dall’espressione "danno grave alla persona", ancora la Commissione succitata ci illumina avendo proposto di "chiarire quali beni siano effettivamente "salvabili" (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra considerare rilevanti agli effetti della esimente tutti gli interessi personali propri o altrui, siano essi oggetto di pericolo di un danno grave o non grave, attengano alla integrità fisica o a quella morale della persona, compensando tuttavia questo ampliamento con una drastica delimitazione della scriminante sul terreno della proporzione)".

Quanto ai venditori di cd per strada è fatto notorio che trattasi di soggetti privi di lavoro, in condizioni spesso di schiacciante subordinazione. Notoria non egent probatione, i fatti notori non richiedono prova dal momento che la nozione di fatto de quo rientra nella comune esperienza. Si aggiunga che dalle carte processuali non emergono elementi per dedurre che il prevenuto avesse altre forme di sussistenza e si può, quindi, presumere che la vendita del prevenuto oggi incriminato sia fatta esclusivamente per il proprio sostentamento vitale.

Nel caso di specie è innegabile che il venditore di cd è un extracomunitario che agisce spinto dal bisogno di alimentarsi. Una vecchia giurisprudenza escludeva lo stato di necessità per chi agisca spinto da necessità attinenti all’alimentazione "poiché la moderna organizzazione sociale, venendo incontro con diversi mezzi ed istituti agli indigenti, agli inabili al lavoro e ai bisognosi in genere, elimina per costoro il pericolo di restare privi di quanto occorre per […] il loro sostentamento quotidiano" (Cass. Sez. III 24 maggio 1961, P. M. c. De Leo, Giust. pen. 1962, II 81, m. 68).

Trattasi di giurisprudenza riferentesi a un contesto sociale diverso da quello attuale dove l’entrata in massa di extracomunitari rende praticamente impossibile predicare l’esistenza di organizzazioni atte ad accoglierli e a nutrirli in massa. E quindi più che mai si pone il problema di affrontare modi e forme del loro sostentamento, rendendosi necessario ampliare il concetto di stato di bisogno quando vengano da essi commesse infrazioni minime al consesso sociale, soprattutto in materie ai limiti del danno puramente civile, ove questo stesso mai esista. Ciò è tanto più vero ove si pensi che il fondamento della scriminante è stato colto nell’istinto della conservazione, incoercibile nell’uomo (Maggiore, Diritto Penale, Parte generale, 5a ed., Bologna 1951, p. 319).

Tale inquadramento risponde anche a principi fondamentali garantiti dalla Costituzione come i diritti inviolabili dell’uomo(art. 2 della Cost.), in cui è da ricomprendersi il diritto a nutrirsi, e il diritto alla salute (art. 32 della Cost.) compromesso naturalmente in chi, non riuscendo a procurarsi un lavoro normale suo malgrado, non abbia i mezzi minimi per il suo sostentamento alimentare. Le norme costituzionali testé citate rendono anche edotti della gravità del danno (attuale e continuato) derivante alla persona dalla mancanza assoluta di mezzi per sostentarsi, altro requisito richiesto dalla giurisprudenza costante (Cass. sez. III, 4 dicembre 1981, n. 10772) per potersi configurare lo stato di necessità da mettere in rapporto col danno in concreto arrecato.

In conclusione, tenendo anche conto che ex art. 4 della Cost. è compito dello Stato garantire il diritto al lavoro e promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto, non c’è fine di lucro illecito "penalmente" in chi venda per strada cd a prezzo ridotto (in linea con la New Economy) al fine di procurarsi da mangiare, con azione accettata e condivisa dalla maggioranza del consesso sociale. Quell’azione, formalmente contra legem, è scriminata da uno stato di necessità (art. 54 c.p.) connesso alla sopravvivenza degli extracomunitari entrati nel nostro paese senza alcuna regolamentazione lavorativa, essendo la loro attività di venditori operanti per sopravvivere assolutamente necessaria per sopravvivere e proporzionata al pericolo di danno(minimo se non inesistente visto il numero modesto di cassette contra legem trovate) arrecato ai produttori.

Necessitas non habet legem, quindi. Difetta l’antigiuridicità del comportamento incriminato per mancanza del danno sociale rilevante ai fini penalistici, anche se non si può escludere un risarcimento civilistico alla SIAE ex art. 2045 c.c. da coltivare e realizzare eventualmente in sede civile.

Si ordinerà confisca e distruzione del materiale in sequestro.

P.Q.M.

visto l’art. 530 c.p.p.

assolve Tizio dai reati ascrittigli perché i fatti non costituiscono reato per aver agito in stato di necessità ex art. 54 c.p.;

Ordina confisca e distruzione del materiale in sequestro.

Così deciso in Roma il 15.2.2001

(Estensore: G. Francione)

Redazione

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