Tar Lazio Roma n. 398/2002

"La recente caduta della preclusione di principio alla risarcibilità dell’interesse legittimo (Cass. Civ., SS.UU., n. 500 del 1999) già suggerisce, di per sé, un ripensamento del tradizionale divieto di integrazione della motivazione e, più in generale, di interventi di sanatoria in pendenza del giudizio".

"Una rimeditazione dei precedenti indirizzi sembra imporsi a maggior ragione nella nuova ottica, ormai doverosa, del giudizio c.d. sul rapporto, modello processuale la cui introduzione, già richiesta dal superamento del dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo, ha ricevuto una decisiva conferma nelle previsioni della legge n. 205 del 2000".

"La legge n. 205 del 2000, invero, modificando l’art. 21 della legge n. 10341971, ha previsto in termini generali che "Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti". Questa innovazione, che permette di far confluire all’interno del giudizio tutti gli atti connessi al suo "oggetto", non va vista soltanto come uno strumento di economia processuale".

T.A.R. Lazio, Sezione I,

Sentenza 16 gennaio 2002 n. 398

sul ricorso n. 88512001 Reg. Gen., proposto: soc. ESSO Italiana s.r.l., in persona del suo legale rappresentante p.t. dott. Gian Maria Paolo Sorrenti, rappresentata e difesa dall’avv. Gian Paolo Zanchini

c o n t r o

l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato;

il Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato, in persona del legale rappresentante p.t.,

per l’annullamento:

– della deliberazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato adottata nell’adunanza del 27 giugno del 2001, comunicata il successivo 97, con la quale la soc. Esso era stata diffidata dal diffondere un messaggio pubblicitario relativo a sconti praticati sui prezzi del carburante, precedentemente esposto presso le stazioni di servizio di alcune province, in quanto ritenuto ingannevole ai sensi del d.lgs. n. 74 del 1992;

– in quanto necessario, del decreto del Ministro dell’Industria n. 236 del 7101999 (in realtà del 3091999) con il quale era stata vietata l’esposizione, presso gli impianti di distribuzione di carburanti, dei “prezzi consigliati”, con tutti gli atti prodromici, connessi e conseguenziali;

nonché

– dell’ulteriore deliberazione dell’Autorità Garante assunta in data 2092001 e comunicata il successivo giorno 25, integrativa della precedente, impugnata mediante motivi aggiunti di ricorso.

VISTO il ricorso ed i relativi allegati;

VISTI gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità intimata ;

VISTE le memorie presentate dalle parti costituite a sostegno delle rispettive difese;

VISTI gli atti tutti di causa, ed in particolare i motivi aggiunti di ricorso notificati dalla ricorrente;

UDITI alla pubblica udienza del 7112001 il relatore ed altresì gli avv.ti Zanchini e Sclafani;

RITENUTO e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con richieste di intervento del Sindacato Provinciale F.I.G.I.S.C. -Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali di Carburanti- nonché del Comando di Polizia Municipale di Jesi veniva segnalata all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la sospetta ingannevolezza, ai sensi del d.lgs. n. 74 del 1992, di un messaggio pubblicitario costituito da un cartello relativo agli sconti praticati sui prezzi dei carburanti, esposto nei mesi di settembre-novembre del 2000 presso alcuni punti vendita della società Esso Italiana nelle province di Treviso, Ancona e Venezia.

All’esito della conseguente istruttoria l’Autorità dichiarava, con deliberazione del 2762001, che la fattispecie segnalata costituiva effettivamente una pubblicità ingannevole, e ne inibiva l’ulteriore diffusione.

Avverso tale provvedimento, comunicato il successivo 972001, insorgeva, quindi, la società Esso con gravame notificato in data 1872001 e ritualmente depositato, deducendo mezzi d’impugnativa così rubricati:

violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2°, del decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74 e dell’art. 2 del regolamento sulle procedure istruttorie (d.p.r. 10 ottobre 1996 n. 627); eccesso di potere per carenza dei presupposti, sviamento e travisamento; difetto di motivazione: motivo con il quale si denunziava che nessuno dei richiedenti l’intervento dell’Autorità era legittimato a tanto;

violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2°, del decreto legislativo 25 gennaio 1992 n. 74; eccesso di potere per travisamento dei fatti, manifesta illogicità e ingiustizia, errore nei presupposti e carenza istruttoria: censura con la quale si assumeva che il messaggio pubblicitario forniva ai consumatori elementi idonei ad apprezzare l’effettiva entità dello sconto praticato;

ulteriore violazione della normativa richiamata; eccesso di potere per carenza istruttoria, contraddittorietà, ingiustizia, incoerenza; violazione dei principi dell’affidamento nonché del giusto procedimento, con riferimento ai precedenti due provvedimenti che erano già stati adottati dall’Autorità Garante in ordine ad analoghi messaggi pubblicitari della ricorrente;

eccesso di potere per incoerenza e disparità di trattamento; difetto di motivazione; ulteriore violazione della normativa richiamata, per avere l’Autorità sanzionato nello stesso modo comportamenti differenziati tenuti dalle varie società petrolifere.

La ricorrente, inoltre, per l’eventualità che si potesse far risalire l’ingannevolezza del suo messaggio al divieto, stabilito dal decreto del Ministro dell’Industria n. 236 del 3091999, di esporre presso gli impianti di distribuzione di carburanti i “prezzi consigliati”, deduceva avverso tale provvedimento i seguenti, ulteriori motivi:

violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.p.r. 3031968 n. 626, nonché dell’art. 1, comma 21°, della legge 24121993 n. 357; incompetenza assoluta; carenza dei presupposti e travisamento, nonché sviamento; difetto di motivazione: motivo diretto a sostenere l’assoluta incompetenza del Ministero emanante ad ingerirsi nella materia;

violazione delle delibere C.I.P.E. 2431986 e 1341984, nonché del decreto M.I.C.A. 751994; incompetenza; eccesso di potere per incoerenza, contraddittorietà, carenza dei presupposti; difetto di motivazione.

La domanda cautelare proposta dalla società ricorrente, respinta in primo grado, veniva parzialmente accolta in appello, sotto il profilo della omessa puntuale indicazione, da parte dell’Autorità, delle modifiche da apportare al messaggio pubblicitario al fine di eliminare la sua ingannevolezza.

A seguito di tanto, l’Autorità Garante assumeva in data 2092001 una ulteriore deliberazione, integrativa della precedente, nel senso indicato dall’ordinanza del Giudice d’Appello.

Avverso questo nuovo provvedimento la ricorrente proponeva, con atto notificato il successivo giorno 1610, i seguenti, ulteriori motivi di ricorso:

violazione dei principi generali in tema di motivazione degli atti amministrativi, del principio del contraddittorio, del principio del giusto procedimento; violazione dell’art. 97 Cost. nonché del d.lgs. 2511992 n. 74 e del relativo regolamento (d.p.r. n. 6271996); eccesso di potere per carenza dei presupposti, sviamento e travisamento, sull’assunto di fondo della insussistenza di un potere dell’Autorità di integrare la motivazione di un proprio precedente provvedimento;

violazione dell’art. 6 del d.p.r. n. 627 del 1996; eccesso di potere per carenza dei presupposti, sviamento e travisamento; difetto di motivazione, motivo facente leva sulla tardività del nuovo provvedimento, in quanto emesso dopo lo spirare del termine perentorio per la conclusione del precedente procedimento;

eccesso di potere per sviamento, travisamento, illogicità, ingiustizia ed incoerenza; difetto di motivazione; disparità di trattamento: doglianza intesa a contestare il contenuto sostanziale del nuovo provvedimento.

Con memoria depositata il 31102001, infine, la ricorrente illustrava e sviluppava ulteriormente le proprie ragioni, insistendo per l’annullamento dei provvedimenti impugnati.

Si costituiva in giudizio in resistenza al ricorso per l’Autorità l’Avvocatura Generale dello Stato, che con due successive memorie deduceva l’infondatezza di tutte le doglianze avversarie e l’inammissibilità dei motivi aggiunti per carenza di interesse, concludendo per la reiezione dell’impugnativa.

Alla pubblica udienza del 7112001 il ricorso è stato trattenuto in decisione.

D I R I T T O

Uno solo dei motivi dedotti mediante il ricorso in esame risulta fondato: al relativo vizio, però, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha posto rimedio mediante il suo provvedimento integrativo assunto in data 2092001, il quale si rivela immune dalle censure rivoltegli mediante i motivi aggiunti della soc. Esso Italiana. In definitiva, quindi, il ricorso è in parte infondato ed in parte improcedibile, nei termini che verranno di seguito meglio indicati.

1 Infondato è il primo mezzo d’impugnativa, con il quale viene assunto che nessuno dei soggetti che avevano richiesto l’intervento dell’Autorità Garante in merito al messaggio pubblicitario della ricorrente fosse legittimato a farlo.

La disciplina vigente in materia di pubblicità ingannevole, come è noto, non accorda all’Autorità il potere di agire d’ufficio, ma subordina la sua attivazione alla condizione che il suo intervento abbia formato oggetto di una formale richiesta da parte di alcune determinate categorie di soggetti: “I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali” (art. 7, comma 2°, d.lgs. 2511992 n. 74; art. 2, comma 1°, d.P.R. 10101996 n. 627).

La ricorrente dubita che nelle categorie testé indicate rientrino il Sindacato Provinciale F.I.G.I.S.C. -Federazione Italiana Gestori Impianti Stradali di Carburanti- ed il Comando di Polizia Municipale di Jesi.

Con riferimento alla F.I.G.I.S.C., in particolare, si sostiene nel ricorso che tale associazione di categoria non potrebbe essere riconosciuta né come “consumatore” né come “concorrente”. Il sindacato, si dice, per sua natura “non compra né vende carburanti, non subisce quindi alcun pregiudizio al proprio comportamento economico come consumatore; né, come concorrente, tratta prodotti identici o succedanei o fungibili”.

Una contestazione siffatta è stata già formulata nell’ambito di un precedente procedimento a carico della ricorrente e dinanzi alla medesima Autorità (all. n. 8 al ricorso), la quale ha ritenuto di poter superare la questione nel senso che alla menzionata Federazione potesse guardarsi come ad una “associazione di concorrenti”.

Ad avviso della Sezione questa conclusione è esatta.

Contrariamente a quanto deduce la ricorrente, infatti, la F.I.G.I.S.C., associazione di gestori di impianti stradali di carburanti, può ben essere considerata come un’associazione di soggetti che, per il fatto di comprare e di vendere carburanti, sono concorrenti degli esercenti nei confronti dei quali la segnalazione è stata effettuata, atteso che trattano prodotti e servizi identici a quelli da loro intermediati.

Né giova alla ricorrente il fatto che dell’associazione di categoria denunziante potrebbero fare parte, eventualmente, anche quei gestori che hanno contribuito alla diffusione dei messaggi pubblicitari che hanno formato oggetto di segnalazione nella fattispecie. E’ vero che la legge attribuisce la legittimazione in discorso -tra gli altri- alle associazioni ed organizzazioni dei “concorrenti”: poiché, però, è difficile immaginare l’esistenza di organizzazioni di categoria che siano istituzionalmente chiuse alla partecipazione proprio del singolo che, in concreto, dovrebbe essere sottoposto a procedimento in veste di operatore pubblicitario responsabile ai sensi del d.lgs. n. 741992, se ne desume che, per dare un senso effettivo alla disposizione, la legittimazione di cui la stessa si occupa può essere senz’altro imputata alle associazioni della categoria interessata, senza che a ciò osti la eventuale appartenenza ad esse anche dei soggetti il cui messaggio dovrebbe essere assoggettato a procedimento.

L’avvenuto riconoscimento della legittimazione della F.I.G.I.S.C. a promuovere l’intervento dell’Autorità sarebbe già sufficiente a fondare il provvedimento impugnato sotto il profilo in contestazione, esonerando la Sezione dallo svolgere analoga verifica sulla legittimazione del secondo soggetto denunziante, la Polizia Municipale di Jesi. Solo per completezza, perciò, si fa notare che l’art. 23 del vigente Codice della Strada fa divieto di collocare, lungo le strade o in vista di esse, impianti di pubblicità che possano distrarre l’attenzione degli utenti della strada con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione, norma dalla quale si evince che non esulava dai “compiti istituzionali” della Polizia Municipale la segnalazione a carico del messaggio investito dal provvedimento in epigrafe, in quanto la insufficiente chiarezza della relativa pubblicità -che verrà messa in luce al paragr. 2- poteva tradursi in un fattore di possibile sviamento della concentrazione dei conducenti.

2 Parimenti infondato è il successivo mezzo d’impugnativa, inteso a contrastare il giudizio dell’Autorità circa l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario formante oggetto del provvedimento.

2a Giova premettere al riguardo che il messaggio della ricorrente contiene, oltre agli importi dei prezzi praticati per ciascuna tipologia di carburante, ed ancor prima di essi, la scritta “INCLUSO SCONTO SELF-SERVICE –40”, e, di seguito, ma con caratteri più ridotti, la precisazione “verso i prezzi consigliati dalla Esso”.

2b Ebbene, il ragionamento seguito dall’Autorità Garante è stato in sintesi il seguente.

I messaggi che siano incentrati su di un elemento determinante ai fini della scelta del consumatore, qual è, nel mercato dei carburanti, il prezzo, devono porre il potenziale acquirente in condizione di avere chiara ed immediata contezza di tale elemento. E questo a maggior ragione deve valere per la pubblicità esposta presso i distributori di carburante, dato che le peculiari modalità della percezione che è possibile normalmente avere di essa (c.d. messaggi “transit”) impediscono ai consumatori di dedicarsi ad elaborate analisi logico-deduttive per pervenire ad una sua retta comprensione.

Il messaggio della ricorrente è stato reputato idoneo ad indurre in errore per la sua difformità dai criteri indicati. Esso è stato ritenuto atto ad ingenerare un effetto confusorio nei suoi destinatari, per il fatto che le indicazioni di sconto da esso evidenziate sono rapportate ad una “grandezza base” di riferimento diversa dai sottostanti prezzi esposti, essendo ragguagliate al “listino prezzi gestore” (in relazione al quale lo sconto opererebbe): il punto è, però, che tale listino risulta ignoto al consumatore, e non riveste, d’altra parte, interesse alcuno ai suoi fini.

L’effetto confusorio riscontrato è poi aggravato dalla circostanza che per la gran parte dei prodotti industriali, e particolarmente nella grande distribuzione, l’indicazione pubblicitaria di un prezzo, unito ad uno sconto, ha generalmente lo scopo di comunicare al pubblico che per pervenire al prezzo finale praticato l’importo dello sconto deve essere sottratto al prezzo esposto, e non viceversa, come è stato invece costruito il messaggio in esame.

Da tutto ciò la conclusione dell’Autorità che quest’ultimo sarebbe suscettibile di trarre in errore in relazione ai prezzi dei carburanti praticati alla clientela, pregiudicando il comportamento economico dei suoi destinatari: questi potrebbero essere indotti a prescegliere i punti vendita che espongono il messaggio a causa dell’erroneo convincimento da esso ingenerato circa i prezzi ivi praticati.

2c Al ragionamento sunteggiato la ricorrente oppone che la potenziale clientela sarebbe in grado, in realtà, di conoscere i “prezzi consigliati al gestore” (vale a dire, il “listino prezzi gestore” sul quale opererebbe lo sconto), in quanto gli stessi costituirebbero elementi notori, o comunque conoscibili con un minimo di diligenza.

La Sezione, tuttavia, deve decisamente escludere la notorietà dei suddetti prezzi. Notorio, infatti, è soltanto quanto sia acquisito alla comune conoscenza: e per il consumatore non ogni informazione che sia stata assoggettata ad una qualche forma di pubblicità può essere considerata tale, ma soltanto quella che, per lo spiccato interesse collettivo rivestito e la diffusa pubblicità ricevuta, possa reputarsi penetrata nel patrimonio comune delle conoscenze dei consociati, presupposti che nel listino del quale si tratta difettano entrambi.

Quanto, poi, al rilievo della ricorrente che lo stesso listino sarebbe conoscibile, in ogni caso, con l’uso di “un minimo di diligenza”, l’incompatibilità di questo argomento con l’esigenza di immediatezza e chiarezza del messaggio pubblicitario che il provvedimento impugnato ha posto in luce esonera il Tribunale da ogni altra considerazione.

Non si può non ricordare, inoltre, che il carattere sostanzialmente ignoto del “listino prezzi gestore” è solo un aspetto del ben più ampio ragionamento che è stato sviluppato dall’Autorità, la quale ha fatto risalire l’effetto confusorio -e quindi ingannevole- colto nel messaggio proprio all’ambiguità della sua struttura logica.

Della critica di fondo mossa al proprio messaggio la ricorrente non si fa, tuttavia, adeguato carico.

Nel ricorso, difatti, si insiste nel sottolineare che il messaggio sarebbe chiaro tanto nell’indicare il prezzo finale praticato dal gestore, quanto nel precisare che lo sconto reclamizzato è incluso nel prezzo.

Il fatto è, però, che il possibile disorientamento del consumatore scaturisce dai rapporti tra le informazioni di base che il messaggio offre, quelle numeriche, sulle quali è destinata inevitabilmente a focalizzarsi l’attenzione -necessariamente sfuggente- del conducente in transitu.

La pubblicità, invero, oltre a dare la debita evidenza ai prezzi finali praticati, dà lo stesso risalto grafico ad una indicazione di sconto, potendo oggettivamente destare così nel passante l’impressione (ictu oculi) che lo sconto prospettatogli sia destinato a fare ribassare il prezzo indicato subito dopo. Solo una meditata e successiva lettura, tuttavia meramente eventuale, dell’intero testo del messaggio, può far superare una tale prima interpretazione, e guidare il consumatore alla esatta conclusione che l’indicazione di sconto evidenziatagli è dal suo punto di vista un dato privo di rilievo pratico. Non vi è chi non veda, peraltro, come siffatto più attento esame sia ben difficilmente compatibile con le esigenze di una sicura circolazione stradale.

Per quanto precede, gli argomenti svolti nel ricorso non infirmano la valutazione per cui il messaggio, nelle modalità della sua presentazione al pubblico, si presenta suscettibile di indurre in errore i suoi destinatari (gli automobilisti in transito), influenzandone il comportamento, secondo la previsione dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 1992.

Di qui l’infondatezza anche del secondo motivo di ricorso.

3 Le considerazioni appena svolte a proposito delle ragioni da cui discende l’ingannevolezza della campagna pubblicitaria persuadono della inammissibilità dei motivi introdotti avverso il decreto del Ministro dell’Industria n. 236 del 3091999 per carenza di interesse a ricorrere.

La ricorrente, come si è detto in narrativa, ha esteso la propria impugnativa a tale provvedimento per l’eventualità che “si dovesse ritenere che l’ingannevolezza del messaggio derivi dal divieto di esporre presso i punti di vendita i prezzi consigliati”, giacché da ciò deriverebbe “una situazione nella quale alla ricorrente sarebbe sostanzialmente inibito di dar luogo a qualsiasi tipo di messaggio pubblicitario delle proprie campagne sconti, se non violando il decreto M.I.C.A. 30 settembre 1999 che, appunto, inibisce l’indicazione dei prezzi consigliati”.

Da quanto si è esposto nel paragrafo precedente, però, risulta che non è stato certo il fatto della mancata esplicitazione del “prezzo consigliato” ad avere dato causa all’impugnato giudizio di ingannevolezza, così come, per converso, la suddetta esplicitazione non varrebbe (almeno di per se stessa) a sottrarre la ricorrente al detto giudizio.

Sotto altro profilo, poi, va osservato che, pur avendo i segnalanti denunziato il messaggio di cui si tratta anche per una supposta violazione del menzionato d.m., l’Autorità non ha dato per questa parte alcun seguito alle loro richieste di intervento, ma ha circoscritto inequivocabilmente le proprie valutazioni entro il perimetro dell’applicazione del d.lgs. n. 74 del 1992.

Da tutto ciò deriva che non è ravvisabile alcun interesse della ricorrente alla base dell’impugnativa del d.m. in epigrafe, la quale si rivela, di riflesso, inammissibile.

4 Destituito di fondamento è poi il quarto motivo di ricorso, con il quale si ascrivono al provvedimento dell’Autorità Garante i vizi di incoerenza e disparità di trattamento, assumendosi che essa avrebbe sanzionato nella stessa maniera comportamenti diversi tra loro delle varie società petrolifere.

Ci si duole, precisamente, che siano stati ritenuti parimenti ingannevoli sia messaggi privi dell’indicazione del prezzo finale alla pompa (Agip, Tamoil e Q8), sia la pubblicità della ricorrente, la quale, come si è visto, tale indicazione recava.

A questo rilievo si deve obiettare che appare perfettamente logico che l’estremo della idoneità di una pubblicità ad indurre in errore il pubblico, il quale rappresenta l’ ubi consistam dell’ingannevolezza ai sensi del d.lgs. n. 741992, possa essere rinvenuto in messaggi anche radicalmente diversi tra loro nell’impostazione strutturale e nei contenuti linguistici. Un giudizio di ingannevolezza, di conseguenza, può ben colpire fattispecie di comunicazione pubblicitaria anche fortemente differenziate, purché tutte accomunate dalla suddetta attitudine decettiva, senza che ciò possa dare adito a vizi di incoerenza o disparità di trattamento.

5 Un discorso più articolato merita il motivo che residua, il terzo, il quale è parzialmente fondato (sotto il profilo che verrà trattato nei paragrr. 5c e 5e).

5a Tale mezzo d’impugnativa valorizza la circostanza che il provvedimento in contestazione è il terzo adottato dall’Autorità negli ultimi due anni in merito ai messaggi pubblicitari della ricorrente.

In precedenza l’Autorità, dapprima, con il provvedimento n. 8607, aveva censurato l’assenza di indicazioni nel messaggio sul punto se lo sconto in esso esposto dovesse essere detratto, o meno, dal prezzo pubblicizzato; con il provvedimento n. 8376, poi, aveva criticato il modesto risalto grafico dato alle indicazioni “incluso” -sovrastante quella “sconto self service”- e “verso i prezzi consigliati dalla Esso”; in entrambi i casi la ricorrente riferiva di avere modificato la propria cartellonistica in ottemperanza alle indicazioni ricevute.

Secondo la ricorrente, quindi, con il suo terzo provvedimento l’Autorità era ritornata sullo stesso messaggio per rilevare un profilo già valutato, tuttavia, nei suoi precedenti interventi, ed allora rimasto incontestato, con la conseguenza che il suo potere di intervento in proposito doveva ormai ritenersi già definitivamente consumato.

Dalle circostanze esposte la ricorrente fa discendere anche la denunziata contraddittorietà ed ingiustizia della deliberazione, nonché il suo essere lesiva del legittimo affidamento ormai riposto dalla Esso sulla correttezza del messaggio.

Viene dedotto, infine, che l’Autorità aveva omesso di indicare in modo puntuale la specificazione che la società avrebbe dovuto inserire nel messaggio per eliminarne la decettività.

5b La Sezione, con riferimento a questi rilievi critici, deve in primo luogo sgombrare il campo dalla tesi della Esso secondo la quale i precedenti interventi dell’Autorità (provv.ti nn. 8607 e 8376) avevano consumato la sua potestà di controllo sull’ingannevolezza del messaggio.

La circostanza che una pubblicità sia stata sottoposta dall’operatore a modifiche tese a superare una censura di ingannevolezza non sottrae la nuova versione del messaggio ad un possibile (ulteriore) controllo di conformità ai dettami del d.lgs. n. 741992 qualora, come nella fattispecie, anche tale versione abbia formato oggetto di segnalazione ad opera di soggetti legittimati. Ogni messaggio, infatti, benché per molti aspetti simile ad una pubblicità precedente, costituisce un unicum, ed è suscettibile di autonoma valutazione (e l’ingannevolezza di una comunicazione può essere ben più propriamente apprezzata avendo riguardo a concreti casi di messaggi valutati alla prova dei fatti, piuttosto che ragionando intorno ad ipotesi astratte).

Questa possibilità di ulteriori pronunciamenti (purché, naturalmente, coerenti tra loro) da parte dell’Autorità a maggior ragione deve essere riconosciuta quando l’appunto di fondo mosso alla campagna pubblicitaria rimanga sostanzialmente inalterato da un provvedimento all’altro, e alla base dei reiterati interventi dell’Autorità vi sia, a ben vedere, il non soddisfacente superamento da parte dell’operatore dei profili di ingannevolezza addebitatigli sin dall’inizio.

La fattispecie controversa ricade proprio in questo schema. Come dovrebbe apparire chiaro da quanto esposto al paragr. 5a, difatti, il legame che ha accomunato tutti i messaggi della Esso, nella valutazione datane dall’Autorità, è sempre stato quello dell’ambiguità di fondo del rapporto tra gli “sconti” enfaticamente reclamizzati ed il prezzo finale contestualmente indicato.

Di qui la legittimità -nella prospettiva in discorso- del provvedimento del 2762001, giustificato dal persistere dell’ambiguità che già prima, ma invano, era stata contestata alla Esso.

Nei pronunciamenti fin qui espressi dall’Autorità non emergono, pertanto, neppure note di contraddittorietà. Non è esatto, in particolare, che con il provvedimento sia stato censurato un profilo che era stato favorevolmente scrutinato in precedenti occasioni. Le delibere anteriori, invero, si erano limitate a riprovare, dapprima la mancanza di precisazioni sul punto se lo sconto dovesse essere detratto dal prezzo, e indi l’insufficiente risalto dato dalla Esso alle indicazioni all’uopo introdotte, senza, però, che venisse mai “approvato” alcunché del messaggio.

5c Poco sopra è emerso il fatto che la Esso, pur avendo modificato più volte alcuni termini della sua campagna, non ha mai dissolto, in definitiva, quel velo di apparente ambiguità (circa i rapporti tra sconti e prezzi finali) che l’Autorità ha rinvenuto in essa sin dal suo primo intervento.

Si deve qui aggiungere, però, che a questo riguardo un ruolo causale non trascurabile è stato ricoperto, oggettivamente, anche dall’insufficiente grado di determinatezza delle indicazioni impartite dalla stessa Autorità con i suoi provvedimenti.

E’ sotto questo specifico profilo che le lamentele della Esso si presentano fondate: prima di illustrarlo, però, si impone una digressione.

5d Il Tribunale non ritiene in generale che, le quante volte l’Autorità Garante accerti l’ingannevolezza di una pubblicità, abbia sempre il dovere di effettuare una puntuale indicazione delle modifiche che l’operatore sarebbe tenuto ad apportare al suo messaggio, alla fine di eliminarne l’effetto decettivo.

5d1 La premessa dalla quale sembra opportuno partire, in proposito, è che la disciplina positiva non contempla un onere del genere. Nel silenzio della legge, dunque, un requisito di legittimità degli interventi dell’Autorità quale quello ipotizzato dalla ricorrente potrebbe essere considerato -se non espresso, almeno- implicito nell’ordinamento unicamente in presenza di elementi interpretativi seri, gravi e concordanti a conforto della relativa tesi.

Estremi del genere, tuttavia, non sembrano sussistere.

La disciplina in materia di pubblicità ingannevole non contiene alcuna disposizione che assegni all’Autorità compiti di collaborazione attiva con gli operatori pubblicitari.

La legge, inoltre, non assegna ad essa poteri conformativi della comunicazione pubblicitaria, ma soltanto compiti repressivi di singoli fatti concreti di comunicazione illecita. Quanto alla dichiarazione di rettifica prevista dall’articolo 7, comma 6°, del decreto legislativo n. 741992, in base alla legge questa ha la pura e specifica funzione di impedire che il messaggio già diffuso, e ritenuto illecito, continui a produrre effetti, e non anche la finalità di indirizzare l’operatore pubblicitario.

In coerenza con questi dati il fine dei provvedimenti dell’Autorità, come bene osserva la difesa erariale, non è quello di guidare l’agire dei loro destinatari verso il positivo perseguimento di un interesse pubblico, come tale determinabile da un pubblico potere, bensì, tutto all’opposto, è quello di sanzionare, all’interno di un ambito di azione istituzionalmente rimesso alla libertà di iniziativa economica e alla creatività dei privati, le fattispecie di pubblicità illecita da essi commesse.

Da tutto ciò si desume che l’ipotizzato dovere generale di indicare puntualmente le modifiche che l’operatore dovrebbe apportare al messaggio ritenuto ingannevole, oltre a non godere di un preciso fondamento normativo, non sarebbe neppure coerente con il ruolo assegnato dalla legge all’Autorità.

5d2 E’ vero, poi, che un autorevole precedente giurisprudenziale ha enunciato il dovere della resistente di formulare l’indicazione appena detta (C.d.S., VI, sent. n. 1254 del 6 marzo 2001).

Ad avviso del Tribunale, peraltro, gli argomenti che sono stati addotti dalla menzionata sentenza erano strettamente connessi alla peculiare fisionomia della fattispecie allora controversa dinanzi al Giudice di Appello. Il giudizio, infatti, verteva in tale occasione sul contenuto delle etichette apposte sulle confezioni di un prodotto, delle quali l’Autorità aveva sanzionato la laconicità sotto un certo profilo -per quanto esse non dicevano- prescrivendo la necessità di una loro integrazione senza, però, precisarne i termini.

Se per le particolari ipotesi di ingannevolezza pubblicitaria da omissione, pertanto, sembra effettivamente necessario che, come affermato dal Consiglio di Stato, l’Autorità indichi con precisione i contenuti positivi che il messaggio dovrebbe acquisire (giacché tale indicazione fa tutt’uno con l’individuazione di ciò che di ingannevole esso presenta), questa conclusione non sembra poter essere generalizzata.

5d3 In via generale, non sembra consentito spingersi oltre l’affermazione che l’Autorità ha il dovere di indicare con precisione (solo) il profilo di ingannevolezza del messaggio da essa accertato, e quindi l’oggetto della proibizione -di ulteriore diffusione- da essa impartita: dovere che vanta, esso sì, sicure basi nella teoria generale dell’atto amministrativo, nella quale è ben conosciuto il requisito della necessaria determinatezza dell’oggetto del provvedimento.

Quando l’intervento repressivo dell’Autorità lasci delle significative aree di incertezza a proposito dell’estensione del comportamento sanzionato e della correlativa sfera del messaggio pubblicitario lecito, il vizio ravvisabile in tal caso non sarebbe quello, in sé solo formale, della mancata indicazione delle modifiche da apportare per emendare il messaggio, bensì il vizio sostanziale dell’insufficiente determinatezza dell’oggetto della statuizione dell’Autorità.

Per converso, osserva il Tribunale che una precisa individuazione della nota di ingannevolezza rinvenuta nel singolo messaggio renderebbe superflua, almeno nella normalità dei casi, l’imposizione di un distinto ed ulteriore obbligo di indicare le modifiche che dovrebbero essergli apportate. Tali modifiche, invero, non potrebbero che essere individuate, almeno in via minimale, nella “amputazione” degli elementi decettivi rinvenuti nella pubblicità (sempre che scindibili dal resto del messaggio). Non senza aggiungere che le possibilità per l’operatore di conformare alla legge la propria campagna pubblicitaria sarebbero, in realtà, sulla base di partenza costituita dal detto intervento minimale, tante quante la sua libertà creativa gliene potrebbe suggerire, il che renderebbe di discutibile senso pratico il pretendere dall’Autorità l’indicazione di una particolare modifica piuttosto che di altre.

5d4 In conclusione, dunque, il problema che si agita in questa materia sembra essere uno solo, e ruotare intorno al punto per cui tutte le pronunce repressive dell’Autorità devono soddisfare il requisito della determinatezza dei profili di ingannevolezza del messaggio. Se sia stata soddisfatta questa esigenza, il destinatario saprà già quanto basta, ancorché non sia stato assistito con l’espressa indicazione del testo di particolari modifiche da apportare, per non cadere nuovamente nella stessa violazione. Se, invece, gli elementi nei quali si annida la decettività del messaggio siano rimasti nell’ombra -in tutto in parte- nel ragionamento dell’Autorità, sarà tale circostanza, allora, a viziare il provvedimento repressivo, per la carenza del requisito generale della determinatezza del suo oggetto.

Di conseguenza, ciò che si può pretendere in via generale dall’Autorità, come ha sostenuto la sua difesa, è unicamente la indicazione con sufficiente precisione del comportamento ritenuto illegittimo (e come tale lesivo dell’interesse pubblico), in modo da consentire all’operatore pubblicitario di non reiterarlo in futuro.

5e Per le ragioni esposte nel precedente paragrafo, ad avviso del Tribunale, non si può addebitare all’Autorità nella presente vicenda di non avere indicato con formula sacramentale le specificazioni che la Esso avrebbe dovuto immettere nella propria cartellonistica.

Con questo, però, non si vuole affatto dire che il provvedimento in epigrafe fosse conforme a legge dal punto di vista del requisito della determinatezza oggettiva.

Ben al contrario, infatti, una serena lettura di tale atto fa convenire con la ricorrente che lo stesso non conteneva una definizione sufficientemente precisa degli aspetti di ingannevolezza del messaggio: definizione richiesta già -come si è visto- dalle regole generali, ma imposta ancor più imperiosamente dalla circostanza che nel caso concreto veniva in rilievo il terzo intervento sulla stessa campagna pubblicitaria, il che imponeva all’Autorità di farsi carico, in un certo senso, di un onere di chiarezza supplementare.

Il provvedimento, invero, mentre descriveva in modo efficace l’effetto complessivo di ingannevolezza scaturente dal messaggio nel suo insieme, non era altrettanto puntuale nell’indicare le specifiche cause di tale risultato, con la conseguenza finale che la ricorrente, dopo ben tre provvedimenti, non era stata posta ancora in condizione di comprendere in modo definitivo in quale punto o aspetto del suo messaggio si annidasse precisamente la riscontrata ingannevolezza, e, segnatamente, se l’evidenziazione dello sconto rispetto ai prezzi consigliati fosse da considerare ingannevole in quanto tale, anche a prescindere dagli accorgimenti grafici seguiti.

Sotto il profilo così delineato (al quale ha avuto riguardo, nella sostanza, l’ordinanza cautelare del C.d.S., VI, n. 5147 del 2001) il ricorso si rivela, perciò, fondato.

6 Si deve subito anticipare, tuttavia, il fatto che l’Autorità ha posto già rimedio al vizio testé descritto, sanandolo mediante il provvedimento integrativo assunto in data 2092001 (il quale, come si vedrà, è immune dalle censure rivoltegli mediante i motivi aggiunti). Non potendo, pertanto, la deliberazione del 2762001 essere annullata, il motivo la cui fondatezza è appena emersa dovrà essere dichiarato improcedibile.

7 Restano da esaminare i motivi aggiunti introdotti dalla ricorrente.

7a Giova ricordare che, dopo l’accoglimento della domanda cautelare della Esso da parte del Giudice di Appello, motivato sotto il profilo della omessa puntuale indicazione da parte dell’Autorità delle modifiche da apportare al messaggio pubblicitario, la stessa Autorità ha subito assunto una deliberazione integrativa della precedente nel senso indicato dall’ordinanza del Consiglio di Stato.

E’ avverso questo nuovo provvedimento che la Esso ha dedotto i suoi motivi aggiunti.

7b Quanto rammentato è già sufficiente ad avviare a reiezione l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse opposta dalla difesa erariale contro i nuovi motivi.

Il provvedimento sopravvenuto dell’Autorità aveva la finalità di rimediare al vizio riscontrato dal Giudice della cautela, sanando prontamente la deliberazione sub judice e sottraendola, così, al rischio dell’annullamento giurisdizionale. Da ciò discende che i motivi aggiunti del cui esame si tratta rispondono ad un sicuro interesse del ricorrente: quello di far caducare l’atto di secondo grado dell’Amministrazione e conservare integre, per questa via, le prospettive di buon esito del ricorso principale.

7c I motivi aggiunti, benché ammissibili, sono infondati.

8 Esigenze di continuità di discorso suggeriscono di anticipare la trattazione del terzo motivo aggiunto, il quale investe il contenuto sostanziale del provvedimento sopravvenuto.

8a La nuova deliberazione dell’Autorità ha puntualizzato che per porre fine all’ingannevolezza del messaggio è necessaria “l’eliminazione dallo stesso dell’espressione ^incluso sconto self-service -40 (o -50, -60)^, seguita dall’indicazione ^verso i prezzi consigliati dalla Esso^”. E’ stato specificato, altresì, che, laddove l’operatore pubblicitario intenda promuovere sconti, egli non potrebbe in alcun caso riferirli alla grandezza base costituita dal listino suggerito al gestore (trattandosi di un parametro privo dei necessari caratteri di concretezza ed effettività), potendo, semmai, rapportarli ad altre grandezze, quali -a titolo meramente esemplificativo- “il prezzo effettivamente praticato presso lo stesso distributore per una diversa modalità di erogazione del servizio, ovvero il prezzo praticato dallo stesso distributore in altri periodi, ovvero il prezzo praticato da distributori concorrenti.”

8b Orbene, la ricorrente dedica il suo motivo aggiunto ad un’approfondita critica delle esemplificazioni sopra riportate, adducendo che esse sfuggirebbero alla logica e alla realtà del settore petrolifero.

I suoi rilievi, però, vertono su elementi -appunto- solo esemplificativi, e come tali del tutto accidentali nell’economia del provvedimento del 2092001, che rinviene il proprio contenuto essenziale, invece, altrove, vale a dire nella proposizione che esclude categoricamente per l’avvenire ogni campagna pubblicitaria di promozione di sconti riferiti ai prezzi consigliati dalla Esso (è stata questa statuizione, invero, che, integrando il provvedimento che forma oggetto del gravame principale, ha sanato il profilo di indeterminatezza emerso nel paragr. 5e).

Stante la mancanza, quindi, di critiche specificamente appuntate su tale statuizione, le doglianze della Esso contro le esemplificazioni che la contornano non risultano sorrette da alcun interesse, giacché non potrebbero condurre in alcun caso al risultato sperato della caducazione del nuovo provvedimento dell’Autorità. Qualora le dette esemplificazioni risultassero effettivamente impraticabili, come sostiene la Esso, si rivelerebbe allora valida la conclusione della resistente difesa secondo la quale, se la compagnia petrolifera non è in grado, “per ragioni fattuali o giuridiche, di esporre una credibile base di prezzo rispetto alla quale proporre lo “sconto”, è evidente che in quel settore non sarà possibile prospettare “sconti”, e non certo che ci si dovrà accontentare di comunicazioni ingannevoli”.

9 Disatteso il terzo motivo aggiunto, si impone un’analisi più approfondita per i due che lo precedono.

9a Con il primo motivo aggiunto la supposta illegittimità del provvedimento sopravvenuto viene fatta risalire al principio tradizionale che nega alla Pubblica Amministrazione autrice di un atto contro il quale penda un’impugnativa la possibilità di integrarne la motivazione; neppure nella speciale disciplina antitrus, viene soggiunto, è rinvenibile in capo all’A.G.C.M. un potere di integrazione della motivazione di un provvedimento da essa emanato.

9b La problematica così sollevata non può essere aggirata obiettando che la nuova deliberazione dell’Autorità si sarebbe limitata ad esplicitare quanto già implicito nel precedente provvedimento. Dalle considerazioni fin qui svolte (in particolare, nei paragrr. 5e ed 8a) dovrebbe emergere con evidenza il carattere innovativo del provvedimento sopravvenuto, in quanto atto integrativo della motivazione della precedente deliberazione se non anche, nella sostanza, della sua parte dispositiva.

Diversamente da quanto sostiene la resistente difesa, inoltre, il tradizionale indirizzo giurisprudenziale contrario alla possibilità di integrare la motivazione dei provvedimenti contro i quali penda un ricorso non vale solo in relazione all’ipotesi in cui le giustificazioni postume siano state fornite dalla difesa dell’Amministrazione in giudizio, ma esclude anche la legittimità di un intervento provvedimentale in autotutela che si prefigga la stessa finalità (si dice, tra l’altro, che per ragioni di logica la motivazione deve precedere, e non seguire cronologicamente, la parte dispositiva del provvedimento: v. tra le più recenti C.d.S., IV, n. 2261 del 1242001). E questo in armonia con un più vasto orientamento, sfavorevole, più ampiamente, ad ogni ipotesi di convalida, salvi i casi della ratifica dell’atto viziato da incompetenza, per i quali vi è la specifica previsione dell’art. 6 della legge n. 249 del 1831968, e dell’invalidità derivante da vizi “meramente formali” (C.d.S., IV, n. 991 del 2661998) o da talune omissioni procedimentali (C.d.S., IV, n. 571 del 651996), fattispecie derogatorie alle quali si contrapporrebbe il principio generale in base al quale non è di regola consentita la sanatoria processuale degli atti amministrativi (C.d.S., VI, n. 7578 del 2672000).

Se la questione in esame dovesse essere risolta, dunque, alla luce dei parametri del tradizionale bagaglio giurisprudenziale, sarebbe difficile negare la fondatezza di questo primo motivo aggiunto.

9c Per diverse ragioni, tuttavia, i parametri richiamati non sembrano più attuali.

9c1 In primo luogo, a voler rimanere ancorati alla logica di un modello processuale dall’oggetto strettamente impugnatorio, si può notare che la recente caduta della preclusione di principio alla risarcibilità dell’interesse legittimo (Cass. Civ., SS.UU., n. 500 del 1999) già suggerisce, di per sé, un ripensamento del tradizionale divieto di integrazione della motivazione e, più in generale, di interventi di sanatoria in pendenza del giudizio.

Una volta ammesso, infatti, che la Pubblica Amministrazione possa essere potenzialmente chiamata a rispondere in sede risarcitoria delle illegittimità dei suoi atti (ove, beninteso, sussista il concorso degli ulteriori elementi, oggettivi e soggettivi, idonei a convertirle in veri e propri “fatti illeciti”), non sembra possibile negare alla medesima, quando abbia riscontrato una ipotesi di illegittimità nel proprio operato (e benché sia pendente al riguardo un giudizio), il potere-dovere di intervenire per porvi rimedio, allo scopo di circoscrivere, così, la propria eventuale responsabilità limitando possibili danni per l’erario.

Non sembra dubbio, invero, che il principio del neminem laedere implichi, per tutti i soggetti di diritto, privati e pubblici, chiamati a rispettarlo, un onere di attivarsi per far cessare la situazione di illiceità che si sia cagionata e sia suscettibile di produrre ulteriori conseguenze pregiudizievoli, pena altrimenti la dilatazione incontrollata del danno che potrebbe dover essere risarcito.

Una volta ammessa in termini generali, pertanto, la possibilità che anche dall’esercizio delle attività provvedimentali della P.A. possano scaturire illeciti ai sensi dell’art. 2043 del cod.civ., appare conseguente ritenere che l’Amministrazione debba essere posta in condizioni tali da poter esercitare un ampio jus poenitendi in autotutela. Diversamente, verrebbe violato il principio della parità tra le parti del processo (un tempo invocato, sotto ben diverso profilo, a sostegno dell’indirizzo tradizionale), posto che la pendenza del ricorso del privato impedirebbe all’Amministrazione, pur assoggettata al principio paritario del neminem laedere, di assumere iniziative di diligenza a difesa (oltre che della legalità) dei propri interessi anche patrimoniali.

In una prospettiva più ampia va aggiunto, difatti, che, se sotto aspetti sempre più numerosi l’Amministrazione viene spogliata di sue prerogative tradizionali, astretta alle norme e ai moduli del diritto privato e progressivamente avvicinata ad un piano di parità rispetto ai consociati, essa non sembra poter continuare a rimanere, nel contempo, gravata da tutti i vincoli che erano stati concepiti in passato con la funzione di garantire i consociati che le si rapportavano in una posizione ben altrimenti connotata quanto a tutela sostanziale.

9c2 Una rimeditazione dei precedenti indirizzi sembra imporsi a maggior ragione nella nuova ottica, ormai doverosa, del giudizio c.d. sul rapporto, modello processuale la cui introduzione, già richiesta dal superamento del dogma della irrisarcibilità dell’interesse legittimo, ha ricevuto una decisiva conferma nelle previsioni della legge n. 205 del 2000.

Gli ostacoli che venivano opposti alla possibilità di interventi di sanatoria -delle varie tipologie- in pendenza di giudizio traevano origine, come è noto, più che da perplessità di diritto sostanziale, da remore legate alla struttura tradizionale del giudizio impugnatorio. Dalla circostanza, cioè, che un nuovo intervento provvedimentale dell’Amministrazione in funzione di sanatoria avrebbe stravolto la posizione di parità che compete alle parti in causa dinanzi al Giudice, ponendo autoritativamente fine, in pratica, alla controversia in atto (concentrata ratione obiecti sul primo provvedimento), e costringendo il privato a ripartire da zero con una nuova impugnativa, in una defatigante spirale che avrebbe potuto non conoscere mai fine e svuotare la garanzia giurisdizionale di ogni contenuto. Da ciò la tradizionale conclusione che iniziative di autotutela di tal fatta sarebbero state illegittime per il fatto di violare il "diritto" dell’interessato a vedere deciso il giudizio con l’annullamento del provvedimento viziato.

Le remore indicate, però, sembrano meritevoli di superamento.

La legge n. 205 del 2000, invero, modificando l’art. 21 della legge n. 10341971, ha previsto in termini generali che “Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti”.

Questa innovazione, che permette di far confluire all’interno del giudizio tutti gli atti connessi al suo “oggetto”, non va vista soltanto come uno strumento di economia processuale. La sua portata impone innanzi tutto di rivedere la tradizionale identificazione senza residui dell’oggetto del giudizio amministrativo con il singolo provvedimento impugnato. Il presupposto logico, infatti, che ha reso possibile l’estensione dell’impugnativa ai provvedimenti sopravvenuti mediante semplici motivi aggiunti all’interno del giudizio già pendente risiede in ciò, che il legislatore del 2000 ha rimodellato l’oggetto del processo amministrativo intorno alla pretesa sostanziale fatta valere dal ricorrente (in tal senso v. già C.G.A., n. 61 del 2621987 e n. 343 del 4111995, con un cospicuo orientamento dottrinale).

Ebbene, questa nuova norma comporta che l’adozione di un ulteriore provvedimento, inteso ad emendare un vizio dell’atto formante oggetto di un gravame, non pone più, oggi, automaticamente fine al relativo giudizio (strutturato, innovativamente, come giudizio sul rapporto), ma abilita semplicemente l’interessato ad integrare la sua originaria impugnativa mediante motivi aggiunti.

Non vi è più, pertanto, il pericolo che il provvedimento di autotutela con funzioni di sanatoria vanifichi il diritto costituzionale di azione e di difesa in giudizio.

D’altra parte, ove l’Amministrazione incorsa in un vizio di legittimità suscettibile di sanatoria intenda avvalersi di tale facoltà, non sembra possa esserle opposto un "diritto" dell’interessato ad ottenere invece, ad ogni costo, l’annullamento giurisdizionale del provvedimento viziato. E questo tanto più in un processo amministrativo impostato, ormai, come giudizio sulla pretesa sostanziale del ricorrente, in cui, quindi, l’accertamento istituzionalmente devoluto al Giudice deve investire, ben più che l’isolato dato della legittimità formale di un singolo provvedimento, il grado di fondatezza delle aspettative e delle correlative pretese che costituiscono la materia del singolo rapporto di diritto amministrativo.

Oggi, perciò, il ricorrente, in pendenza del giudizio, così come è in grado di beneficiare (e questo, da sempre) di un rinnovato esercizio del potere amministrativo in una direzione a lui favorevole -con l’esito di una cessazione della materia del contendere-, ben può anche, simmetricamente, essere posto di fronte ad un nuovo provvedimento diretto semplicemente ad emendare un vizio del precedente atto, non ritirandolo, quindi, ma soltanto sanandolo. Ché, del resto, se si ammette la possibilità per l’Amministrazione di un riesame della legittimità del proprio atto in pendenza del giudizio, sembra problematico, allora, limitare le conseguenze di tale riesame secundum eventum: accordarle, cioè, la possibilità di intervenire a difesa della legittimità e degli interessi pubblici quando ciò richieda un atto di ritiro, e disconoscere la stessa possibilità, invece, in presenza di vizi sanabili, quando il riesame potrebbe essere concluso con una semplice riforma (nel senso più lato) della precedente determinazione.

Per quanto esposto, anche il primo motivo aggiunto della Esso deve essere disatteso.

Lo stesso esito si impone per il secondo motivo aggiunto.

10a Quest’ultima doglianza fa leva sull’argomento per cui il provvedimento sopravvenuto dell’Autorità sarebbe stato deliberato dopo lo spirare del termine perentorio che doveva essere rispettato per la conclusione del procedimento ai sensi dell’art. 6 del d.p.r. n. 627 del 1996 (termine individuato nel 3 luglio del 2001).

10b Il Tribunale non dubita della perentorietà dei termini che la legge impone per la conclusione dei procedimenti in materia di repressione della pubblicità ingannevole (principio sul quale si vedano, tra le altre, C.d.S., VI, n. 1254 del 632001; T.A.R. Lazio, I, nn. 2492 del 491998 e 2076 del 1791999). E’ dell’avviso, però, che da tale premessa non possano farsi scaturire le conseguenze invocate dalla ricorrente.

10c Secondo un recente ed autorevole indirizzo giurisprudenziale, invero, quando una potestà amministrativa sia stata esercitata nel rispetto del termine perentorio assegnato dalla legge per la sua esplicazione, non si può negare all’Amministrazione interessata la possibilità di rimuovere, ora per allora, il vizio che nel suo atto sia stato riscontrato in sede giurisdizionale, e di reiterare l’atto annullato dopo averlo emendato (C.d.S., V, n. 1034 dell’871995 e n. 1145 del 16101997). In tale direzione spingono, infatti, i principi di carattere generale attinenti alla retroattività delle decisioni giurisdizionali amministrative di annullamento, e al potere-dovere dell’Amministrazione soccombente in giudizio di emanare “i provvedimenti ulteriori” ai sensi dell’art. 26 della legge n. 10341971 e dell’art. 45 del r.d. 2661924 n. 1054, mentre le particolari preclusioni normative eventualmente esistenti in materia (ad es., l’art. 17, comma 37°, legge n. 127 del 1551997) devono essere intese come eccezionali e di stretta interpretazione (sentenza n. 11451997 cit.).

10d Ora, l’indirizzo appena esposto, che la Sezione condivide, deve essere ritenuto applicabile, oltre che alle decisioni giurisdizionali di annullamento (in relazione alle quali si è formato), anche alle pronunzie cautelari di sospensione del provvedimento impugnato, essendo questa conclusione del tutto coerente con il valore di pronunzia esecutiva che compete anche alle seconde, e che verrebbe altrimenti ingiustificatamente compresso. Anche alla sospensiva viene normalmente assegnata, del resto, efficacia retroattiva, ravvisandosi in essa l’attitudine a determinare una situazione giuridica identica, salvo che per la sua transitorietà, a quella che si avrebbe se l’atto amministrativo fosse stato annullato (cfr. C.d.S., A.P., n. 14 del 1°61983).

Sulla stessa linea interpretativa, come ha ricordato la difesa erariale, si è già collocato il Consiglio di Stato con l’ordinanza cautelare della Sez. VI n. 2347 del 1252000, quando, nel sospendere l’esecutività di un altro provvedimento repressivo emesso in materia di pubblicità ingannevole per l’esistenza di una lacuna istruttoria nel relativo procedimento, ha espressamente riconosciuto “il potere dell’Autorità di adottare ulteriori provvedimenti a seguito dell’integrazione istruttoria”.

10e Applicando i principi illustrati al caso concreto, si deve notare che l’impugnato provvedimento dell’Autorità del 2762001 era stato pienamente tempestivo; si deve aggiungere, poi, che questa, con il suo nuovo provvedimento del 2092001, non ha inteso sanzionare profili di ingannevolezza nuovi e diversi da quelli già perseguiti attraverso il suo precedente atto, ma si è limitata, come è stato detto, a porre rimedio allo stato vizioso che era stato colto in esso dal Giudice, debitamente conformandosi alla sua pronuncia cautelare.

Per quanto precede, anche di quest’ultimo mezzo d’impugnativa si impone la reiezione.

11 In conclusione, il ricorso, mentre risulta improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse con riferimento al terzo motivo di gravame, riflettente uno stato vizioso che è stato sanato dal provvedimento sopravvenuto dell’Autorità, per ogni altro aspetto si rivela infondato, così come i motivi aggiunti che lo hanno seguito.

Si ravvisano ragioni tali da giustificare la compensazione delle spese processuali tra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione I, dichiara il ricorso in epigrafe in parte infondato ed in parte improcedibile, nei termini rispettivamente indicati in motivazione.

Spese compensate.

La presente decisione sarà eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, Camera di Consiglio del 7112001.

Il Presidente, Corrado Calabrò

L’estensore, Nicola Gaviano

Redazione

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