Specializzazione medica: la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 , disposizione che non consente l’accesso ai corsi di formazione specialistica a chi sia già in possesso di un diploma di specializzazione e dell’articolo 24, comma 1, del medesimo d.lgs. 368/99, nella parte in cui esclude dall’accesso al corso di formazione specifica in medicina generale i possessori di diploma di specializzazione di cui all’articolo 20 del medesimo decreto, o di dottorato di ricerca.
La Corte afferma che se il legislatore, può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale, non può, invece, puramente e semplicemente impedire tale accesso sulla base di situazioni degli aspiranti che – come il possesso di precedenti titoli di studio o professionali – non siano in alcun modo riconducibili a requisiti negativi di capacità o di merito.
A tale diritto si ricollega altresì quello di aspirare a svolgere, sulla base del possesso di requisiti di idoneità, qualsiasi lavoro o professione, in un sistema che non solo assicuri la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, primo comma, della Costituzione), ma consenta a tutti i cittadini di svolgere, appunto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, della Costituzione): ciò che a sua volta comporta, quando l’accesso alla professione sia condizionato al superamento di un curriculum formativo, il diritto di accedere a quest’ultimo in condizioni di eguaglianza.
Il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d’altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione.
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LA CORTE COSTITUZIONALE
SENTENZA 22-29 maggio 2002 n. 219
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 4, del d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE), promossi con ordinanze emesse l’11 luglio e il 26 settembre 2001 dal Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, iscritte ai nn. 880 e 952 del registro ordinanze 2001 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 43 e 49, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Ritenuto in fatto
1. Nel corso del giudizio introdotto da un medico, specialista in radioterapia, nei confronti dell’Università degli studi di Perugia e del Ministero della ricerca scientifica e tecnologica per l’annullamento del bando di concorso per l’ammissione alla Scuola di specializzazione in Chirurgia generale della Facoltà di Medicina e chirurgia di quell’ateneo per l’anno accademico 2000-2001, nonché del provvedimento che la escludeva dal concorso in applicazione dell’art. 34, comma 4, del d.lgs. 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE), disposizione che non consente l’accesso ai corsi di formazione specialistica a chi sia già in possesso di un diploma di specializzazione, il Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, con ordinanza emessa l’11 luglio e pervenuta l’8 ottobre 2001 (reg. ord. n. 880 del 2001), su eccezione della ricorrente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del detto art. 34, comma 4, del d.lgs. n. 368 del 1999, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, in relazione alla legge delega 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 1995-1997), nonché in riferimento agli artt. 3, 34 e 35 della Costituzione.
L’autorità remittente premette, in ordine alla rilevanza, che i provvedimenti impugnati costituiscono puntuale e corretta applicazione della norma denunciata e che, non avendo l’esclusione della ricorrente dal concorso altra giustificazione che il divieto posto dalla citata disposizione, qualora quest’ultima fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, ne conseguirebbe necessariamente l’ammissione al concorso.
Quanto alla non manifesta infondatezza, la norma denunciata, secondo la quale “l’accesso alla formazione specialistica [dei laureati in medicina e chirurgia] non è consentita [recte: consentito] ai titolari di specializzazione conseguita ai sensi del [precedente] articolo 20 o di diploma di formazione specifica in medicina generale”, ponendo un divieto a priori, avrebbe, a giudizio del remittente, come effetto pratico non solo di inibire ai suoi destinatari nuove conoscenze scientifiche e il relativo nuovo titolo accademico, ma anche di precludere, di fatto se non di diritto, la libertà di mutare il campo dell’esercizio professionale, non avendo un medico, pur laureato ed abilitato, alcuna chance di inserirsi in un settore professionale per il quale non sia specializzato. Né il medico specializzato che non possa o non voglia intraprendere o proseguire l’attività professionale nel settore corrispondente può proporsi come medico di base nel servizio sanitario nazionale, atteso che tale attività è riservata a chi è in possesso dell’apposito diploma di formazione, equiparato dalla norma impugnata, ai fini del divieto di cumulo, ad una specializzazione.
L’effetto dell’art. 34, comma 4, è dunque, ad avviso del giudice a quo, di rendere irrevocabile, a vita, la prima scelta professionale compiuta dal giovane medico.
Nella norma viene anzitutto ravvisata violazione dell’art. 76 della Costituzione. L’oggetto ed i relativi criteri della delega, contenuta nella legge 24 aprile 1998, n. 128, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee, sono infatti precisati dal legislatore mediante il riferimento alla direttiva 93/16 e successive modificazioni: ma né la direttiva, né la stessa legge di delega toccano il tema dell’eventuale cumulo di specializzazioni. Escluso che possa trattarsi di semplice esplicitazione di un principio comunque insito nel sistema delle direttive comunitarie, o che si tratti di norma tecnica di dettaglio necessaria per assicurare l’integrità e la funzionalità dell’ordinamento, l’art. 34, comma 4, del decreto legislativo sarebbe evidentemente frutto di una scelta pienamente autonoma del legislatore delegato. Ma se è vero che nel silenzio delle direttive comunitarie il legislatore nazionale avrebbe avuto, in via di principio, la facoltà di dettare autonomamente ulteriori e più restrittivi criteri per l’ammissione alle scuole, tale potere – incidente in modo così pesante sulle libertà individuali – sarebbe spettato, semmai, al legislatore ordinario, e non al legislatore delegato, in mancanza di espressa delega.
In secondo luogo, secondo il giudice a quo, la norma inciderebbe sul diritto allo studio, inteso come diritto di accedere, secondo le proprie libere scelte, ad un determinato corso di studi, e sul diritto al lavoro, inteso come diritto a svolgere, di nuovo secondo le proprie libere scelte, una determinata attività professionale, in violazione, rispettivamente, degli artt. 34 e 35 della Costituzione.
Infine, verrebbe in rilievo il principio di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., perché la disposizione impugnata introduce una discriminazione fra i laureati in medicina, a svantaggio di chi, fra di essi, possieda un diploma di specializzazione. E’ pur vero, osserva l’autorità remittente, che tanto il diritto allo studio che quello al lavoro non sono garantiti in modo assoluto e incondizionato, come è stato affermato nella sentenza di questa Corte n. 383 del 1998, in tema di limitazione degli accessi a determinate facoltà universitarie e scuole di specializzazione; tali limitazioni debbono però essere ragionevoli. E mentre, nella materia in esame, è ragionevole una selezione basata su idoneità e merito, non altrettanto potrebbe dirsi della discriminazione dei candidati esclusivamente a motivo del possesso di una diversa specializzazione, titolo che dovrebbe semmai essere valutato come merito.
Neppure, ad avviso del remittente, il divieto potrebbe rinvenire la sua ratio nella finalità di prevenire l’accaparramento delle specializzazioni, in quanto una buona efficacia dissuasiva, in tal senso, avrebbe la previsione dell’impegno a tempo pieno, per tutta la durata dei corsi, con trattamento economico sicuramente deteriore rispetto a quello di cui godrebbe il medico già specializzato se mettesse a frutto la propria specializzazione. Ciò circoscriverebbe ad una ristretta minoranza di specializzati, seriamente motivati, il novero di coloro che scelgono di concorrere per una seconda specializzazione.
Né, in conclusione, la disposizione sembrerebbe diretta a prevenire lo spreco di risorse pubbliche determinato ogni volta che taluno, acquisita a spese della collettività una specializzazione, non la utilizzi, per dedicarsi invece ad un nuovo e diverso corso di specializzazione. L’argomento, apparentemente suggestivo, porterebbe, però, per coerenza, ad obbligare chiunque abbia conseguito, mediante il sistema pubblico di istruzione, un titolo di studio, a metterlo a frutto esercitando la relativa attività professionale, cosa manifestamente impossibile sul piano pratico e su quello giuridico.
2. Si è costituita in giudizio la ricorrente nel giudizio a quo, che, condividendo nella sostanza gli argomenti svolti nell’ordinanza di rimessione, ha chiesto che la questione sia accolta.
La parte sottolinea, in particolare, come il divieto censurato non favorisca l’interdisciplinarità, di particolare importanza proprio nell’ambito medico-chirurgico, settore in cui la ricerca scientifica e le tecniche terapeutiche hanno fatto progressi continui e costanti, proprio grazie allo stretto collegamento fra ambiti specialistici affini o complementari. Al contrario, la preparazione interdisciplinare dovrebbe essere incentivata, costituendo espressione di un principio superiore di rango costituzionale, ove si consideri che è interesse della Repubblica garantire l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35 Cost.). Le limitazioni al diritto allo studio così introdotte non risponderebbero al criterio della ragionevolezza.
Gravemente discriminatoria, poi, ad avviso della parte, apparirebbe la disposizione del comma 4 del successivo art. 35 del d.lgs. n. 368 del 1999, che, in deroga al divieto introdotto, consentirebbe ai medici specializzati dipendenti del servizio sanitario nazionale ed ai sanitari provenienti da altri paesi dell’Unione europea di conseguire, nella misura del 10% dei posti disponibili nelle scuole, altro titolo di specializzazione.
Ciò dimostrerebbe che l’unica finalità perseguita dalla disposizione impugnata è di non permettere allo stesso soggetto di usufruire surrettiziamente di un trattamento economico destinato a sostituire un trattamento stipendiale proprio del rapporto di lavoro dipendente: esigenza questa comprensibile, ma che potrebbe essere ben salvaguardata indipendentemente da un siffatto divieto assoluto.
Viene poi richiamata la sentenza n. 383 del 1998 di questa Corte, resa in tema di “numero chiuso” delle iscrizioni a determinate facoltà universitarie, che con riguardo al diritto allo studio, garantito dagli artt. 33 e 34 Cost., ha affermato che l’intera materia, stante la sua delicatezza, non può essere regolata che da fonti di rango primario, costituendo principio generale informatore dell’ordinamento democratico quello secondo il quale “ogni specie di limite imposto ai diritti dei cittadini abbisogna del consenso dell’organo che trae da costoro la propria diretta investitura”, e che “la conclusione che ne deriva è che i criteri di accesso all’università, e dunque anche la previsione del numerus clausus, non possono legittimamente risalire ad altre fonti, diverse da quella legislativa”. Sarebbe di tutta evidenza il richiamo costante al principio della riserva di legge che informa l’intera disciplina dell’accesso ai corsi di istruzione universitaria, tra i quali devono necessariamente ricomprendersi anche le scuole di specializzazione riservate ai titolari di diploma di laurea in medicina e chirurgia.
Ogni specifica limitazione in materia di accesso ai corsi di studio, quindi, non potrebbe che essere posta dalla legge, che deve contenere le linee essenziali attraverso cui viene assicurato e garantito il diritto allo studio del medico che intende ottenere il diploma di specializzazione. Ancora, tra aspiranti all’iscrizione ad un corso di laurea e laureati in medicina che intendano approfondire le proprie conoscenze ad un livello superiore non sarebbe ammissibile alcun tipo di differenziazione in ordine alla fonte normativa in grado di disciplinarne diritti e obblighi.
La limitazione posta dalla norma impugnata, prosegue la difesa della parte, incide direttamente (viene richiamata in proposito la sentenza n. 4 del 1962, citata dalla menzionata sentenza n. 383 del 1998) sul diritto di iniziativa economica, tutelato dall’art. 41 Cost., collegato alla libertà riconosciuta dagli artt. 2 e 4 Cost. ad ogni cittadino di scegliere la professione da svolgere quale strumento per lo sviluppo della propria personalità.
Dalla preclusione in esame, poi, discenderebbe un’ulteriore disparità di trattamento con riferimento a quanto stabilito dalle direttive comunitarie n. 98/21 e n. 93/16 – aventi ad oggetto la libera circolazione dei medici ed il reciproco riconoscimento in ambito comunitario dei loro diplomi –, dal momento che ai soli medici italiani in possesso di una specializzazione è inibita la possibilità di essere ammessi ad un nuovo corso di studi attraverso il quale perfezionare ed approfondire le necessarie conoscenze per meglio inserirsi nel mercato del lavoro. Nel caso di specie, infatti, la ricorrente (specializzata in radiologia) aspira a conseguire una specializzazione costituente la prosecuzione logica, sul piano delle tecniche operatorie alle quali si sta già dedicando presso una struttura specializzata in oncologia, di studi già compiuti in precedenza, allo scopo di acquisire una professionalità nuova, a carattere interdisciplinare, richiesta per lo svolgimento dell’attività chirurgica in materia oncologica.
Il mantenimento del divieto censurato, in conclusione, oltre che comprimere la situazione soggettiva della ricorrente, comporterebbe un impoverimento delle stesse strutture sanitarie, le quali potrebbero contare su professionisti che hanno conseguito una sola specializzazione, con dispendio di risorse laddove si rende necessario l’impiego di professionalità a carattere interdisciplinare.
3. – E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
La difesa erariale osserva che l’iscrizione alle scuole di specializzazione in medicina e chirurgia avviene, a norma dell’art. 37, comma 1, dello stesso d.lgs. n. 368 del 1999, contestualmente alla stipulazione di un contratto annuale di formazione e lavoro, che prevede, come contropartita di una attività a tempo pieno, un compenso in danaro in sostituzione della tradizionale borsa di studio.
Poiché l’aspetto economico del rapporto contrattuale è inscindibile dall’iscrizione, il denunciato art. 34 del decreto, inibendo l’accesso alla scuola a coloro che sono già titolari di specializzazione medica, non farebbe che ribadire un principio già espresso con precedenti disposizioni di legge a proposito del cumulo tra borse o assegni di studio: quello del necessario limite che il legislatore deve tenere presente nell’intento di consentire ai meritevoli, ma privi di mezzi, il proseguimento degli studi, il che si risolve in definitiva nella razionale distribuzione delle risorse disponibili.
La tutela di tale interesse di rilievo costituzionale non potrebbe dunque conciliarsi con un accesso indiscriminato alle scuole.
4. – Nel corso di analogo giudizio promosso da altro medico, specializzato in medicina nucleare, per l’ammissione al concorso per la specializzazione in radiodiagnostica, indetto dalla medesima Università di Perugia, il Tribunale amministrativo regionale dell’Umbria, con ordinanza (reg. ord. n. 952 del 2001) emessa il 26 settembre e pervenuta il 1° dicembre 2001, dello stesso tenore di quella di cui supra, al n. 1, ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale.
5. – Anche in tale giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con memoria di tenore testuale identico a quello dell’atto depositato nel giudizio rubricato con il n. 880 del 2001 del reg. ord., concludendo per l’infondatezza della questione.
6. – In prossimità dell’udienza ha depositato memoria la parte già costituita nel giudizio incidentale reg. ord. n. 880 del 2001, insistendo nelle conclusioni rassegnate.
Illustrando nuovamente gli argomenti svolti nel primo atto difensivo, la parte in particolare osserva, in ordine alla violazione dell’art. 76 Cost., che l’indagine sull’eccesso di delega va compiuta, da un lato, interpretando le norme che determinano i principi e criteri direttivi tenendo conto del complessivo contesto normativo e delle finalità che ispirano la delega; dall’altro, interpretando le disposizioni emanate in attuazione della delega, leggendole nel significato compatibile con i principi della stessa delega. La direttiva di cui si dispone il recepimento ha come oggetto l’agevolazione della circolazione dei medici all’interno della Comunità europea e la libera prestazione dei servizi di medico, nonché il reciproco riconoscimento, in ambito comunitario, dei certificati e degli altri titoli inerenti alla formazione specialistica, e non disporrebbe nulla di più, non prevedendo alcun limite nel senso introdotto dal legislatore delegato in ordine all’acquisizione di più specializzazioni. Analogamente, neppure nella legge delega sarebbe rinvenibile alcuna indicazione in tal senso, che neanche potrebbe essere implicitamente desunta dalla ratio sottesa alla legge, o alla direttiva, ovvero dal relativo contesto normativo.
Quanto all’incidenza del divieto sulla formazione professionale, la parte rileva come, in conseguenza dello sviluppo della ricerca, vengono continuamente istituite nuove scuole di specializzazione, che spesso costituiscono evoluzione sempre più specifica di una più “generica” specializzazione. Chi ha conseguito la più generica specializzazione in un’epoca in cui non esisteva quella più specifica si vede inibita la possibilità di acquisire una professionalità specifica, richiesta dalla stessa evoluzione scientifica.
Correlativamente, i vecchi specializzati nella branca “generica” si vedrebbero penalizzati rispetto ai nuovi specializzati, in possesso di un titolo più specifico, ancorché provvisti di minore esperienza.
Replicando a quanto dedotto dall’Avvocatura dello Stato, la difesa della parte privata osserva che la disciplina della retribuzione di coloro che frequentano i corsi di specializzazione non ha alcuna rilevanza al fine della soluzione della questione in esame, che attiene al diritto allo studio.
7. – Ha altresì depositato memoria illustrativa, nel primo dei due giudizi incidentali (reg. ord. n. 880 del 2001), il Presidente del Consiglio dei ministri, rilevando che il divieto di conseguire più specializzazioni è finalizzato ad assicurare a tutti i cittadini la possibilità di accedere al mondo del lavoro, condizionata al possesso di una specializzazione o di un diploma di medicina generale; esso tende ad evitare che, nel regime del numero chiuso per le scuole di specializzazione, vi siano, come nel passato ordinamento, da una parte professionisti privilegiati ai fini lavorativi in quanto plurispecializzati, e dall’altra semplici laureati in medicina e chirurgia immancabilmente penalizzati ai fini dell’inserimento nel mondo del lavoro.
La considerazione secondo cui il divieto in esame vincola irrevocabilmente il giovane medico alla prima scelta professionale non sarebbe priva di pregio. Tuttavia, il legislatore avrebbe ritenuto preminente, nella generale valutazione degli interessi dei cittadini, quello di assicurare un posto di lavoro a tutti, a fronte di quello di chi ritiene di aver diritto a più opzioni lavorative. Sotto questo profilo, non sarebbe ravvisabile violazione degli artt. 3, 33 e 34 Cost., perché, anzi, proprio la mancata introduzione del divieto potrebbe configurare violazione delle norme costituzionali in tema di diritto di tutti i cittadini al lavoro.
Neppure sussisterebbe violazione del diritto allo studio, in quanto la tutela costituzionale riguarderebbe l’istruzione inferiore, nonché la possibilità che lo Stato offre ai più meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi.
In ordine all’eccesso di delega, non occorrerebbe verificare se la norma denunciata ha fondamento nella legislazione comunitaria, in quanto il divieto in esame rientrerebbe nelle valutazioni socio-economiche del legislatore di ciascun paese membro.
La memoria richiama l’art. 2, lettera b, della legge di delega n. 128 del 1998, il quale prevede che “per evitare disarmonia con le discipline vigenti per i singoli settori interessati alla normativa da attuare, saranno introdotte le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse”. Con tale disposizione, rileva la difesa erariale, il legislatore delegato è stato invitato a introdurre norme che rendessero il decreto conforme alle discipline vigenti per i singoli settori interessati. In tale contesto, sarebbe fondamentale il riferimento all’art. 6 della legge n. 398 del 30 novembre 1989 (Norme in materia di borse di studio universitarie), il quale, al primo comma, sancisce che “le borse di studio di cui alla presente legge non possono essere cumulate con altre borse di studio a qualsiasi titolo conferite, tranne che con quelle concesse da istituzioni nazionali o straniere utili ad integrare, con soggiorni all’estero, l’attività di formazione o di ricerca dei borsisti”, ed al secondo comma aggiunge che “chi ha già usufruito di una borsa di studio non può usufruirne una seconda volta allo stesso titolo”.
8. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato identica memoria illustrativa in relazione al giudizio rubricato con il n. 952 del reg. ord. 2001.
Considerato in diritto
1.Il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, con due ordinanze di identico contenuto, dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE), il quale, nell’ambito della disciplina della formazione dei medici specialisti, e in particolare dell’ammissione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, stabilisce che “l’accesso alla formazione specialistica non è consentita [recte: consentito] ai titolari di specializzazione conseguita ai sensi dell’articolo 20 o di diploma di formazione specifica in medicina generale”. L’art. 20 disciplina i requisiti e la durata minima della formazione che permette di ottenere un diploma di medico chirurgo specialista nelle specializzazioni indicate negli allegati B e C del decreto legislativo; a sua volta l’art. 21 prevede che per l’esercizio dell’attività di medico chirurgo di medicina generale nell’ambito del Servizio sanitario nazionale è necessario il possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale, che si consegue (art. 24) a seguito di un corso di formazione specifica della durata di due anni ed è riservato “ai laureati in medicina e chirurgia, abilitati all’esercizio professionale e non ai possessori di diploma di specializzazione di cui all’articolo 20, o di diploma in formazione specifica in medicina generale o di dottorato di ricerca”.
Secondo il remittente, la disposizione impugnata contrasterebbe con l’art. 76 della Costituzione, in quanto, in sede di legislazione delegata, avrebbe introdotto un nuovo più restrittivo criterio di ammissione alle scuole di specialità, in mancanza di una espressa delega, che sarebbe stata necessaria nel silenzio, in proposito, delle direttive comunitarie, non trattandosi di una norma tecnico-organizzativa necessaria per assicurare l’integrità e la funzionalità della disciplina, bensì di una regola incidente sulla libertà individuale; con l’art. 34 della Costituzione, in quanto introdurrebbe una limitazione irragionevole al diritto allo studio, inteso come diritto di accedere, secondo le proprie libere scelte, e sulla base della capacità e del merito, ad un determinato corso di studi; con l’art. 35 della Costituzione, in quanto, impedendo il conseguimento di una seconda specializzazione, renderebbe irrevocabile, a vita, la prima scelta professionale fatta dal giovane medico, così introducendo una limitazione irragionevole al diritto al lavoro, inteso come diritto di svolgere, secondo le proprie libere scelte, una determinata attività professionale; con l’art. 3 della Costituzione, in quanto darebbe vita ad una discriminazione irragionevole fra i laureati in medicina, a svantaggio di chi già possiede un diploma di specializzazione.
2. Le due ordinanze sollevano la medesima questione, onde i due giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronunzia.
3. La questione è fondata, sotto il profilo della violazione del diritto di accedere ad un corso di studi e conseguentemente di intraprendere un’attività professionale di propria scelta.
Non viene in questione qui, come avverte lo stesso remittente, la legittimità della limitazione numerica degli accessi alle scuole di specializzazione medica, risultante dall’art. 35 del decreto legislativo in esame (e dall’art. 25, per quanto riguarda i corsi di formazione specifica in medicina generale): limitazione prevista non da oggi dalla legislazione, e correlata anche alla disciplina comunitaria che richiede la disponibilità di strutture e risorse per adeguare la formazione agli standard minimi imposti, comportanti attività cliniche o, in genere, operative svolte nel corso dei periodi di formazione (cfr. sentenza n. 383 del 1998).
Si discute qui unicamente della legittimità costituzionale del divieto imposto, a chi sia già in possesso di un diploma di specializzazione o di formazione specifica in medicina generale, di accedere alla formazione in vista del conseguimento di una ulteriore specializzazione. In sostanza il legislatore delegato, nel dettare la nuova disciplina delle scuole di specializzazione medica nonché dei corsi di formazione specifica in medicina generale, ha inteso stabilire un rigido criterio di non cumulabilità in capo allo stesso medico di due o più di tali curricula formativi. Il medico in possesso di un diploma di specializzazione non può accedere ad altra specialità, né ai corsi di formazione specifica in medicina generale (in tal senso è da intendersi la non felice formula, sopra citata, dell’art. 24, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 1999); a sua volta il medico in possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale non può accedere alle specializzazioni.
Il divieto appare dettato nell’intento di evitare che lo stesso medico possa, cumulando più diplomi di specializzazione (e, forse, usufruendo del vantaggio che gli proviene dal possedere già una specializzazione), “accaparrarsi” più di uno spazio di formazione nell’ambito e a spese delle strutture a ciò deputate, a danno di altri aspiranti, il cui diritto a perseguire, a loro volta, una chance di inserimento professionale potrebbe esserne pregiudicato.
Tale intento non è privo di una sua ragionevolezza, in quanto miri a tutelare gli interessi di chi non abbia ancora avuto accesso ad una formazione medica specialistica, e a rendere razionale l’impiego delle risorse pubbliche. Da questo punto di vista, non apparirebbe in sé irragionevole che il legislatore, ad esempio, riservasse quote dei posti disponibili ai medici non ancora in possesso di specializzazione, o prevedesse quote di posti cui ammettere in soprannumero candidati che siano già in possesso di altra specializzazione (sul modello di quanto già prevedono rispettivamente, in relazione ad altre categorie di aspiranti, i commi 3 e 4 dell’art. 35 dello stesso decreto legislativo); o dettasse modalità specifiche, diverse da quelle previste per i non specialisti, per la disciplina della posizione anche economica degli aspiranti che già operino nell’esercizio di altra specializzazione.
Ma la questione è se sia legittimo, sia pure in vista di siffatte finalità, precludere totalmente a chi abbia già conseguito un diploma di specializzazione l’accesso ad un nuovo curriculum formativo e ad un nuovo titolo di specializzazione, che a sua volta costituisce condizione imprescindibile per lo svolgimento di una specifica attività professionale medica. Non è infatti irrilevante ricordare, a tal proposito, che la disciplina vigente dell’accesso alle funzioni di dirigente medico nelle strutture del servizio sanitario nazionale prevede, tra i requisiti indispensabili, il possesso del diploma di specializzazione specificamente inerente all’attività svolta dalla struttura in cui il medico intende operare (artt. 24 e 28 del d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 483; art. 5 del d.P.R. 10 dicembre 1997, n. 484); così come per l’esercizio dell’attività di medico di medicina generale nell’ambito del servizio sanitario nazionale è necessario il possesso del diploma di formazione specifica in medicina generale (art. 21 del d.lgs. n. 368 del 1999).
4. Sotto questo riguardo, un divieto di tale assolutezza e rigidità non può ritenersi compatibile con i principi costituzionali.
Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui “la scuola è aperta a tutti” (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai “gradi più alti degli studi” (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento. Il legislatore, se può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale, non può, invece, puramente e semplicemente impedire tale accesso sulla base di situazioni degli aspiranti che – come il possesso di precedenti titoli di studio o professionali – non siano in alcun modo riconducibili a requisiti negativi di capacità o di merito.
A tale diritto si ricollega altresì quello di aspirare a svolgere, sulla base del possesso di requisiti di idoneità, qualsiasi lavoro o professione, in un sistema che non solo assicuri la “tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35, primo comma, della Costituzione), ma consenta a tutti i cittadini di svolgere, appunto “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (art. 4, secondo comma, della Costituzione): ciò che a sua volta comporta, quando l’accesso alla professione sia condizionato al superamento di un curriculum formativo, il diritto di accedere a quest’ultimo in condizioni di eguaglianza.
Il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d’altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione.
5. Resta assorbito ogni altro profilo di censura prospettato dal remittente. In particolare, il riconoscimento della incompatibilità sostanziale della norma impugnata con gli articoli 34 e 35 della Costituzione esime questa Corte dall’esaminare il profilo di censura relativo al denunciato eccesso di delega.
6.L’accertamento della illegittimità del divieto, per chi sia già in possesso di altro diploma di specializzazione o di formazione specifica in medicina generale, di accedere ad una nuova specializzazione, comporta altresì come conseguenza l’estensione della dichiarazione di incostituzionalità, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, alla norma – avente portata e ratio corrispondenti, e perciò affetta dallo stesso vizio – che, parallelamente, dispone il divieto di accedere al corso di formazione specifica in medicina generale per chi sia in possesso di diploma di specializzazione o di dottorato di ricerca (art. 24, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 368 del 1999).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma 4, del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368 (Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE);
b) dichiara, ai sensi dell’art. 27, secondo periodo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 24, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 368 del 1999, nella parte in cui esclude dall’accesso al corso di formazione specifica in medicina generale i possessori di diploma di specializzazione di cui all’articolo 20 del medesimo decreto, o di dottorato di ricerca.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2002.
(C. RUPERTO, Presidente; V. ONIDA, Redattore)
Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2002.