Cassazione 6372/2005

Corte di Cassazione, sezione III civile

Sentenza 30 marzo 2005 n. 6732

(presidente Vittoria, estensore Petti)

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La tutela del danno non patrimoniale dell’imprenditore è risarcitoria a titolo pieno, come accade per il danno patrimoniale.

Può invero ritenersi applicabile la giurisprudenza evolutiva di questa Corte in tema di lettura costituzionalmente orientata dall’art. 2059 cod. civ., includendo nella categoria dei danni non patrimoniali anche i danni che derivano dalla violazione e lesione di posizioni soggettive protette, di rango costituzionale o ordinario, sulla base di precisi riferimenti normativi (cfr. Cass. sentenze nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e Corte Cost. 11 luglio 2003 n. 233).

Tale inclusione prescinde dall’accertamento di un fatto reato e conduce ad una distinzione ontologica tra danno morale da reato, al quale appartiene la configurazione tradizionale del danno sanzione (mentre deve ritenersi superata la sua riconducibilità ad una pecunia doloris, anche alla luce dell’art. II, 61 della Costituzione europea che tutela l’integrità morale dell’individuo sotto il valore universale della dignità) ed il danno non patrimoniale in relazione a lesione di diritti inviolabili o fondamentali e di interessi giuridici protetti perché inerenti a beni della vita od a beni essenziali per la comunità (come accade per l’habitat, l’inquinamento, l’ambiente di lavoro etc.) con una eterogeneità di situazioni che rendono difficile una classificazione categoriale generale (come sostiene la dottrina che elabora il danno esistenziale come categoria generale).

Nella specie, il dimensionamento del danno è obbiettivamente grave, poiché dal protesto è derivata una perdita dell’immagine e della affidabilità imprenditoriale e per lungo tempo, come si desume dalle prove e dalla documentazione, e anche in considerazione delle tipologie degli appalti pubblici a lui commissionati, in quanto iscritto nell’apposito albo per la partecipazione, impedita dallo stato di insolvenza a seguito di protesto.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 20 gennaio 1992, x, quale ex correntista di un conto corrente aperto presso la Agenzia y della Banca Nazionale del lavoro di Roma, chiuso all’inizio del 1987, conveniva dinanzi al Tribunale di Roma la Banca Nazionale del lavoro, per sentirla condannare, avendo riguardo alla sua qualità di imprenditore edile, alla rifusione dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all’illegittimo protesto di tre assegni bancari, tratti su un carnet non richiesto nè ritirato dal cliente e recanti una firma visibilmente artefatta.

Assegni utilizzati dopo la chiusura del conto e protestati.

I danni patrimoniali erano indicati complessivamente in 500 milioni a titolo di lucro cessante e di danno emergente, e i danni non patrimoniali erano indicati in 400 milioni, tenendosi conto della gravità dei fatti e della qualità di imprenditore iscritto nel registro per gli appalti e gare pubbliche.

Si costituiva la Banca Nazionale del lavoro e contestava il fondamento delle pretese.

La lite era istruita documentalmente, ma la banca non ottemperava all’ordine di esibizione del cedolino di richiesta del carnet, che recava la firma del cliente e la data del rilascio.

Erano poi escussi il Direttore della Banca dell’Etruria e del Lazio, agenzia di Roma, presso cui x, in ordine alle difficoltà economiche dell’impresa conseguenti ai protesti ed alle vicende penali risolte in favore di x.

Con sentenza del 14 aprile 1997 il Tribunale di Roma accertava la falsità della firma di traenza di x apposta sui tre assegni; dichiarava la responsabilità della Banca per la illegittima circolazione dei tre assegni nonché per il protesto degli stessi in danno dell’attore; ordinava la pubblicazione per estratto della sentenza sul quotidiano romano Il messaggero; rigettava le altre domande risarcitoria di x e compensava per la metà le spese del giudizio, ponendo il resto a carico della Banca.

Contro la decisione proponeva appello x sulla mancata liquidazione de danni; resisteva la Banca e proponeva appello incidentale sul punto relativo all’accertamento della propria responsabilità per la illegittima circolazione degli assegni ed il relativo protesto.

Con sentenza del 16 gennaio 2001 la Corte di appello di Roma così decideva: accoglie parzialmente l’appello principale e rigetta quello incidentale; per l’effetto in parziale riforma della sentenza impugnata condanna la Banca a pagare a x a titolo di risarcimento di danni non patrimoniali, la somma di £ tremilionicinquecentomila oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza; conferma nel resto la sentenza impugnata; compensa per la metà le spese del grado, ponendo il resto a carico della Banca.

Contro la decisione ricorre x deducendo due motivi di censura illustrati da memoria, resiste la Banca con controricorso e ricorso incidentale, illustrato da memoria.

I ricorsi sono stati previamente riuniti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi non meritano accoglimento: precede l’esame del primo motivo del ricorso incidentale della Banca che contesta il punto decisivo della sua responsabilità, quindi verrà in esame il ricorso principale dell’imprenditore, mentre per il danno c.d. morale verranno in esame congiunto i gravami delle parti.

Esame del primo motivo del ricorso incidentale della Banca.

Sostiene la Banca che era onere del cliente dimostrare la falsità delle firme apposte sui tre assegni, utilizzati a conto chiuso; e che la Banca non era tenuta, in base alle leggi bancarie all’epoca vigenti, alla conservazione della documentazione relativa al rilascio del libretto ed alle operazioni sul conto corrente chiuso.

Pertanto nessuna condotta illecita era imputabile alla Banca.

In senso contrario si osserva come la grave negligenza della banca sia stata rimarcata da entrambi i giudici del merito con ampia ed analitica motivazione, che esprime un prudente apprezzamento delle prove, non sindacabile in questa sede, come del resto è evidente dalla fragilità delle censure.

Il giudice dell’appello (ff: 6, 7, 8 della motivazione) descrive ed analizza la condotta sleale della Banca, non solo verso il cliente, ma nel corso della procedura, rifiutando di esibire documenti che era agevole reperire, anche con riscontri contabili, dato che il protesto era stato elevato successivamente alla chiusura del conto, a pochi anni dalla chiusura, e su un carnet sicuramente utilizzato dopo la chiusura.

Il contesto degli elementi probatori, pur di carattere indiziario, è di tale gravità da giustificare il convincimento del giudice del merito sulla impugnazione soggettiva per colpa grave (data la qualità della Banca) ed oggettiva per la causalità da cui è derivata una serie di danni ingiusti, in ordine ai quali l’onere della prova gravava sul danneggiato.

Il motivo è dunque generico ed infondato.

Tanto premesso in punto di accertamento del fatto illecito, può procedersi all’esame del ricorso dell’imprenditore che si fonda sulla richiesta di una migliore determinazione dei danni.

Esame del ricorso principale.

Nel primo motivo si deduce l’error in judicando ed il vizio della motivazione su sette circostanze rilevanti: le dichiarazioni del direttore della Banca amica (Banca di Etruria) che mantenne l’affidamento, ma limitato e garantito , dopo la vicenda dei protesti.

Ricorda il direttore in sede di deposizione, che nessuna banca concede fidi o affidamenti a debitori protestati (fatto notorio); mancato esame della documentazione proveniente dalla Banca di Etruria e delle attestazioni sulle attività imprenditoriali; mancata considerazione delle tipologie degli appalti pubblici commissionati a x, iscritto nell’apposito albo per la partecipazione, impedita dallo stato di insolvenza a seguito di protesto; mancato esame della disciplina delle gare per i pubblici appalti; mancata considerazione degli effetti dei protesti sulla iscrizione dell’albo nazionale dei costruttori; la sottovalutazione delle deposizioni del capocantiere circa le difficoltà di liquidità venute a determinarsi nei due cantieri aperti e per il pagamento degli operai; infine, la incidenza del protesto di una cambiale anche essa a firma falsificata.

Le censure riassunte investono il prudente apprezzamento dei fatti compiuto dalla Corte di appello di Roma in ordine alla prova dei danni consequenziali all’illecita condotta della Banca, e in relazione al danno patrimoniale emergente op da lucro cessante, sicuramente vi è la prova dell’an debeatur.

E tuttavia, data la qualità dell’imprenditore e delle sue numerose attività, che richiama nell’indicazione delle descritte circostanze, resta di tutta evidenza una assoluta carenza di produzioni idonee alla quantificazione dei danni, anche al fine di consentire una valutazione equitativa ai sensi degli artt. 2056, che richiama gli artt. 1223 e 1226 del codice civile [1] (cfr. Cass. 18 febbraio 1995 n. 1799, Cass. 27 dicembre 1994 n. 11202).

Pertanto la decisione di rigetto appare corretta in relazione alla mancata produzione di prove idonee ed il riferimento a circostanze non considerate o mal interpretate non disvela lacune o errori giuridici nel prudente apprezzamento delle prove.

Nel secondo motivo si deduce la iniquità della liquidazione (per tre milioni e cinquecentomila) in relazione a quattro elementi di valutazione: ad apertura di procedure penali poi chiuse con provvedimento di amnistia; esiguità degli importi degli assegni protestati, inidoneità a compromettere la reputazione del protesto di una cambiale a firma di traenza falsa, inidoneità del c.d. effetto compensativo della pubblicazione sul quotidiano romano il Messaggero a diffusione nazionale.

Per contro osserva la Banca, nel ricorso incidentale, che non essendovi prova di un illecito penale ascrivibile alla Banca, nessun danno morale era suscettibile di liquidazione.

Per primo viene in esame l’argomento negativo.

Al riguardo è sufficiente ricordare che sono rimasti ignoti gli autori della illecita utilizzazione del carnet e degli assegni a firma falsificata, anche per la mancata collaborazione della Banca; ma il punto attiene alla ricostruzione del danno alla reputazione dell’imprenditore, persona fisica (ma la questione si pone anche per la persona giuridica) come danno non patrimoniale fondato sul rispetto della dignità sociale e professionale del medesimo (artt. 2, 3, 41 della Costituzione, tra di loro correlati, in relazione alla libertà di produzione ma in condizioni di rispetto della propria immagine ed attività professionale).

Sulla base di tale ricostruzione può ritenersi applicabile la giurisprudenza evolutiva di questa Corte in tema di lettura costituzionalmente orientata dall’art. 2059 cod. civ., includendo nella categoria dei danni non patrimoniali anche i danni che derivano dalla violazione e lesione di posizioni soggettive protette, di rango costituzionale o ordinario, sulla base di precisi riferimenti normativi (cfr. Cass. sentenze nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e Corte Cost. 11 luglio 2003 n. 233).

Tale inclusione prescinde dall’accertamento di un fatto reato e conduce ad una distinzione ontologica tra danno morale da reato, al quale appartiene la configurazione tradizionale del danno sanzione (mentre deve ritenersi superata la sua riconducibilità ad una pecunia doloris, anche alla luce dell’art. II, 61 della Costituzione europea che tutela l’integrità morale dell’individuo sotto il valore universale della dignità) ed il danno non patrimoniale in relazione a lesione di diritti inviolabili o fondamentali e di interessi giuridici protetti perché inerenti a beni della vita od a beni essenziali per la comunità (come accade per l’habitat, l’inquinamento, l’ambiente di lavoro etc.) con una eterogeneità di situazioni che rendono difficile una classificazione categoriale generale (come sostiene la dottrina che elabora il danno esistenziale come categoria generale).

La tutela del danno non patrimoniale è dunque risarcitoria a titolo pieno, come accade per il danno patrimoniale.

Resta allora da considerare la censura della iniquità della liquidazione in relazione ai quattro elementi sopra segnalati.

Nella specie, il dimensionamento del danno è obbiettivamente grave, poiché dal protesto è derivata una perdita dell’immagine e della affidabilità imprenditoriale e per lungo tempo, come si desume dalle prove e dalla documentazione.

E tuttavia la valutazione del giudice del merito è avvenuta in via equitativa, con la indicazione analitica (ff. 13) degli elementi di valutazione che hanno giustificato una liquidazione contenuta, e dunque con un giudizio che non appare all’evidenza iniquo, ma esprime un apprezzamento discrezionale non sindacabile in questa sede.

Esame del ricorso incidentale.

Il primo motivo è stato già esaminato come punto pregiudiziale, ma infondato; parimenti il secondo motivo è stato considerato analizzando il risarcimento del danno per la perdita della reputazione professionale, ed è parimenti infondato.

Al rigetto di entrambi i ricorsi segue la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

PQM

Riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Redazione

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