La massima
Il provvisorio trasferimento di sede del dipendente pubblico condannato con sentenza di primo grado non definitiva, costituisce misura meramente cautelare, avente carattere organizzatorio, direttamente correlata al principio costituzionale di buon andamento degli uffici regionali (da qui la competenza regionale); esula dunque dalla materia dell’ordinamento penale
(riservata allo Stato), non potendo essere considerato effetto penale della sentenza di condanna (vista l’assenza del carattere punitivo o disciplinare).
La questione
La legge regionale impugnata prevede, a seguito di sentenza di condanna di primo grado, il trasferimento ad altra sede del dipendente pubblico o l’attribuzione ad altro incarico.
Secondo il ricorrente, introdurrebbe «ulteriori effetti sanzionatori conseguenti a fatti reato», legati «non alla sola pendenza del procedimento penale ma alla emissione di sentenze di condanna di primo grado».
Tale disciplina determinerebbe «effetti non meramente cautelari ma sanzionatori, attesa la loro irreversibilità», e inciderebbe su una materia che, oggettivamente, «è quella degli effetti del processo penale (e, anzi, della sentenza penale di condanna di primo grado) nel rapporto di impiego» e, quindi, attiene al «diritto penale».
Il giudizio della Corte
La materia penale deve essere preliminarmente «intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa» e che essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici», mediante la configurazione delle fattispecie, l’individuazione dell’apparato sanzionatorio e la determinazione delle specifiche sanzioni (cfr. sentenza n. 185 del 2004).
Ad esempio, in tema di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio (ex art. 15 legge 55/90) nei confronti di pubblici dipendenti che abbiano riportato condanna, anche non definitiva, per delitti di criminalità organizzata o per determinati delitti contro la pubblica amministrazione, la Corte ha rilevato che tale misura non ha natura sanzionatoria, bensì meramente
cautelare, essendo «collegata alla pendenza di un’accusa penale nei confronti di un funzionario pubblico», che di per sé espone l’amministrazione «ad un pregiudizio direttamente derivante dalla permanenza dell’impiegato nell’ufficio» e «risponde a esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» (sentenza n. 206 del 1999).
Deve dunque escludersi che la meno incisiva misura del provvisorio trasferimento di sede o dell’assegnazione ad altro incarico, prevista dalla disposizione censurata, costituisca effetto penale della sentenza di condanna per determinati fatti reato, e sia perciò inscrivibile nella materia dell’ordinamento penale.
La misura risulta in conclusione ispirata non da ragioni punitive o disciplinari, quanto da esigenze, lato sensu cautelari, in funzione dell’organizzazione interna degli uffici, atteso che le esigenze di trasparenza e di credibilità della pubblica amministrazione sono direttamente correlate al principio costituzionale di buon andamento degli uffici (cfr. sentenza n. 206 del 1999, p. 9 del Considerato).
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Corte Costituzionale
Sentenza 4 maggio 2005 n. 172
(presidente Contri, estensore Neppi Modona)
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Veneto 27 febbraio 2004, n. 4 (Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 30 aprile 2004, depositato in cancelleria il 6 maggio 2004 ed iscritto al n. 50 del registro ricorsi 2004.
Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell’udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2005 il Giudice relatore Guido Neppi Modona; uditi l’avvocato dello Stato Aldo Linguiti per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Romano Morra e Andrea Manzi per la Regione Veneto.
Ritenuto in fatto
Con ricorso notificato il 30 aprile e depositato il 6 maggio 2004, il Presidente del Consiglio dei ministri, sulla base della deliberazione adottata il 29 aprile 2004, ha promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale in via principale dell’art. 3 della legge della Regione Veneto 27 febbraio 2004, n. 4 (Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale), che prevede che il dipendente regionale condannato con sentenza di primo grado per reati contro la pubblica amministrazione sia immediatamente trasferito ad altra sede o assegnato ad altro incarico.
Ad avviso del ricorrente, la norma invaderebbe l’ambito della legislazione esclusiva statale nella materia dell’ordinamento civile e penale, come stabilito dall’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. La legge statale 27 marzo 2001, n. 97, che tra l’altro nell’art. 3 prevede, in caso di rinvio a giudizio per taluni reati contro la pubblica amministrazione (tra cui peculato, concussione, corruzione), il trasferimento del dipendente ad altro ufficio, avrebbe inoltre già dettato una compiuta disciplina in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti pubblici.
L’art. 3 della legge regionale denunciata, quand’anche lo si volesse ritenere applicabile – come suggerito dalla stessa Regione Veneto – ai soli reati contro la pubblica amministrazione diversi da quelli elencati nella legge n. 97 del 2001, finirebbe perciò con l’introdurre ulteriori effetti sanzionatori conseguenti a fatti reato, interferendo con attribuzioni esclusive dello Stato.
Con atto in data 19 maggio 2004 si è costituita in giudizio la Regione Veneto, chiedendo il rigetto del ricorso. La Regione osserva che la disciplina dell’art. 3 della legge regionale «non intacca l’ambito di competenza statale», ma si limita a prevedere a carico del dipendente regionale condannato in primo grado un «provvedimento di mobilità» a tutela dell’assetto
organizzativo dell’apparato regionale, finalizzato ad assicurare i principî di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione. La norma impugnata sarebbe quindi di esclusiva competenza regionale, riguardando la disciplina dell’ordinamento degli uffici.
Non sarebbe inoltre dato ravvisare alcuna sovrapposizione con la legge n. 97 del 2001, in quanto i provvedimenti cautelari ivi previsti a carico del dipendente (trasferimento a seguito del rinvio a giudizio e sospensione dal servizio a seguito di condanna anche non definitiva) trovano applicazione per i delitti espressamente elencati dalla legge, mentre per tutti gli altri reati contro la pubblica amministrazione si procederà, in presenza di una condanna di primo grado, al trasferimento di sede o all’attribuzione ad altro incarico secondo quanto disposto dall’art. 3 della legge regionale.
In ogni caso – precisa la difesa della Regione – i provvedimenti di cui alla normativa regionale non rappresenterebbero un «effetto sanzionatorio conseguente a fatti reato», integrando semplici «provvedimenti di mobilità», correlati al pregiudizio derivante dalla permanenza del dipendente condannato con sentenza di primo grado nella medesima sede o con il medesimo incarico.
In una successiva memoria depositata il 9 novembre 2004 l’Avvocatura insiste sulla inammissibile sovrapposizione della normativa regionale alla disciplina statale in tema di conseguenze del procedimento penale sul rapporto di pubblico impiego e ribadisce che i provvedimenti previsti dalla legge impugnata, presupponendo non la sola pendenza del procedimento, ma la
emissione di una sentenza di condanna, anche se non definitiva, produrrebbero effetti non meramente cautelari, bensì sanzionatori, caratterizzati dalla irreversibilità. Il trasferimento di sede e l’attribuzione di altro incarico non avrebbero infatti effetti provvisori, posto che non ne è prevista la cessazione con il venir meno della condanna, ma si atteggerebbero a vere e proprie sanzioni adottate in via anticipata rispetto alla condanna definitiva.
La disciplina impugnata sarebbe di conseguenza riferibile alla materia degli effetti del processo penale (in particolare, della sentenza di condanna in primo grado) sul rapporto di impiego e atterrebbe al diritto penale, rientrante nella competenza esclusiva dello Stato anche sotto il profilo della tutela dell’ordine pubblico.
Dal suo canto la Regione Veneto, con memoria depositata il 26 gennaio 2005, ribadisce che l’esigenza sottesa al trasferimento d’ufficio è quella di «tutelare interessi amministrativi» che afferiscono direttamente al rapporto di servizio del dipendente e al pregiudizio derivante all’amministrazione dalla permanenza dell’impiegato condannato nell’ufficio.
Qualsiasi richiamo alla materia penale ovvero a quella dell’ordine pubblico – quest’ultima tardivamente menzionata nella memoria dell’Avvocatura – sarebbe perciò del tutto inconferente.
Infine, infondata sarebbe anche l’argomentazione dell’Avvocatura circa l’irreversibilità degli effetti del trasferimento, posto che, da un lato, lo stesso art. 3 della legge regionale fa «salvo quanto previsto dalle norme vigenti», così assicurando la piena applicazione della disciplina statale e, conseguentemente, la provvisorietà degli effetti del provvedimento cautelare; dall’altro, l’art. 3, comma 1, della legge n. 97 del 2001, nel fare «salva l’applicazione della sospensione dal servizio in conformità a quanto previsto dai rispettivi ordinamenti», riconosce la possibile coesistenza di ulteriori e specifiche disposizioni a tutela degli interessi pubblici fondamentali propri di ciascun ordinamento.
Nell’udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2005 i difensori delle parti hanno ribadito le argomentazioni e le conclusioni sostenute in precedenza.
Considerato in diritto
1. – Oggetto della questione di legittimità costituzionale sollevata in via principale dal Presidente del Consiglio dei ministri è l’art. 3 della legge della Regione Veneto 27 febbraio 2004, n. 4 (Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale). La disposizione censurata stabilisce che, fatto salvo quanto previsto dalle norme vigenti, «l’amministrazione regionale procede immediatamente al trasferimento di sede o all’attribuzione ad altro incarico del dipendente condannato, per i reati contro la pubblica amministrazione, con sentenza di primo grado».
Secondo il Governo, la norma regionale invade l’ambito della legislazione esclusiva dello Stato in tema di ordinamento civile e penale, riconosciuta dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, sovrapponendosi alla legge statale 27 marzo 2001, n. 97, relativa ai rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare, che in relazione ad alcuni gravi reati contro la pubblica amministrazione contempla nell’art. 3, comma 1, il trasferimento ad altro ufficio in caso di rinvio a giudizio e nell’art. 4 la sospensione dal servizio in caso di condanna anche non definitiva.
La Regione Veneto sostiene invece che la disposizione impugnata si limita a prevedere un provvedimento di mobilità nell’ambito della disciplina che regola l’assetto organizzativo degli uffici regionali, al fine di tutelare il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, rientrante nella sfera della competenza residuale delle regioni.
2. – La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri non è fondata.
3. – Va preliminarmente rilevato che l’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2004 si apre con l’espressa clausola di salvezza di quanto previsto dalle norme vigenti; la disciplina censurata non si sovrappone pertanto alle disposizioni della legge statale, ma deve ritenersi operante, come sostenuto dalla Regione Veneto, solo in relazione ai reati contro la pubblica amministrazione diversi da quelli previsti dalla legge statale n. 97 del 2001.
4. – Secondo il ricorrente la legge regionale censurata, nel prevedere a seguito di sentenza di condanna di primo grado il trasferimento ad altra sede del dipendente pubblico o l’attribuzione ad altro incarico, introduce «ulteriori effetti sanzionatori conseguenti a fatti reato», legati «non alla sola pendenza del procedimento penale ma alla emissione di sentenze di condanna di primo grado». Tale disciplina determinerebbe «effetti non meramente cautelari ma sanzionatori, attesa la loro irreversibilità», e inciderebbe su una materia che, oggettivamente, «è quella degli effetti del processo penale (e, anzi, della sentenza penale di condanna di primo grado) nel rapporto di impiego» e, quindi, attiene al «diritto penale».
Sulla base di queste argomentazioni, e tenuto conto che il ricorso non contiene alcuna motivazione a supporto del generico richiamo anche all’ordinamento civile, non vi è quindi dubbio che la censura mossa dal Governo alla norma regionale si riferisce esclusivamente all’invasione della competenza statale in materia di ordinamento penale. Riguardo a tale sfera di competenza, questa Corte ha peraltro già avuto occasione di affermare (v., da ultimo, sentenza n. 185 del 2004) che la materia penale deve essere «intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa» e che essa «nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici», mediante la configurazione delle fattispecie, l’individuazione dell’apparato sanzionatorio e la determinazione delle specifiche sanzioni.
Coerentemente a questa impostazione, in tema di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio prevista dall’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, nei confronti di pubblici dipendenti che abbiano riportato condanna, anche non definitiva, per delitti di criminalità organizzata o per determinati delitti contro la pubblica amministrazione, la Corte ha rilevato che tale misura non ha natura sanzionatoria, bensì meramente cautelare, essendo «collegata alla pendenza di un’accusa penale nei confronti di un funzionario pubblico», che di per sé espone l’amministrazione «ad un pregiudizio direttamente derivante dalla permanenza dell’impiegato nell’ufficio» e «risponde a esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio» (sentenza n. 206 del 1999).
Deve pertanto escludersi che la meno incisiva misura del provvisorio trasferimento di sede o dell’assegnazione ad altro incarico, prevista dalla disposizione censurata, costituisca effetto penale della sentenza di condanna per determinati fatti reato, e sia perciò inscrivibile nella materia dell’ordinamento penale.
5. – Le finalità che la norma intende perseguire, significativamente inserita in una legge intitolata «Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale», sono ravvisabili nell’esigenza di tutelare l’immagine, la credibilità e, appunto, la trasparenza dell’amministrazione regionale; interessi che, anche prima dell’eventuale pronuncia di una sentenza definitiva di condanna, possono risultare pregiudicati dalla permanenza nell’ufficio del dipendente che abbia commesso nell’esercizio delle sue funzioni un reato contro la pubblica amministrazione.
Alla luce del principio di buon andamento dei pubblici uffici e del dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di «adempierle con disciplina ed onore» (artt. 97 e 54, secondo comma, Cost.), la disposizione in esame offre dunque alla amministrazione regionale uno strumento volto a realizzare l’interesse pubblico di garantire la credibilità e la fiducia di cui l’amministrazione deve godere presso i cittadini (v. sentenze n. 206 del 1999 e n. 145 del 2002); interesse leso dal discredito che la condanna, anche solo di primo grado, può recare all’immagine del corretto funzionamento dei pubblici uffici, e certo prevalente su quello individuale del dipendente alla permanenza nella medesima sede o nel medesimo ufficio.
La misura risulta pertanto ispirata non già da ragioni punitive o disciplinari, quanto da esigenze, lato sensu cautelari, in funzione dell’organizzazione interna degli uffici (v. ancora sentenza n. 206 del 1999: p. 9 del Considerato, ove il trasferimento dell’impiegato ad altra sede, ufficio o mansione, in contrapposizione con la misura cautelare della sospensione dal servizio, viene significativamente definito «misura organizzativa»), atteso che le esigenze di trasparenza e di credibilità della pubblica amministrazione sono direttamente correlate al principio costituzionale di buon andamento degli uffici.
P.Q.M.
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Veneto 27 febbraio 2004, n. 4 (Norme per la trasparenza dell’attività amministrativa regionale), sollevata, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe.