La Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 6572 del 2006, risolve un contrasto
giurisprudenziale esistente
in tema di prova del danno esistenziale subito per effetto del demansionamento
e
della dequalificazione
del lavoratore.
I due indirizzi esistenti nella giurisprudenza della Sezione Lavoro della Cassazione
“convergono
nel ritenere che la potenzialità nociva
del
comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti
(patrimoniale, alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche
del danno non patrimoniale”.
L’oggetto del contendere era il seguente:
“se, in caso di demansionamento
o
di
dequalificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto
di quello cd. esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in
re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato all’assolvimento, da
parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio”.
Le Sezioni Unite accolgono adesso il secondo dei due indirizzi (“il danno non
discende in re ipsa dal
demansionamento, ma va specificamente provato”), affermando
il
seguente
principio di diritto:
“In
tema
di
demansionamento
e
di
dequalificazione,
il
riconoscimento
del
diritto
del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale,
che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi
di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica
allegazione,
nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche
del
pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato
alla esistenza di una lesione dell’integrità psico fisica medicalmente
accertabile, il danno esistenziale da intendere come ogni pregiudizio (di natura
non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile ) provocato
sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti
relazionali propri, inducendolo scelte di vita diverse quanto alla espressione
e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato
in giudizio con tutti ì mezzi consentiti dallo ordinamento, assumendo
peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva
valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità,
conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata
dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione
professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti
la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nella
abitudini di vita del soggetto) – il cui artificioso isolamento si risolverebbe
in una lacuna del procedimento logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento,
coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’ esistenza del danno, facendo
ricorso, ex art. 115 cod. proc. Civ. a quelle nozioni generali derivanti dall’
esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove“.
. . . . .
Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili
Sentenza n. 6572
del 14 marzo 2006
(presidente Carbone, estensore La Terza)
(…)
Quanto al quarto motivo del ricorso principale, concernente i danni derivanti
dal demansionamento per il periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai
Giudici di merito, è effettivamente sussistente un contrasto nella giurisprudenza
della sezione lavoro di questa Corte.
La questione è la seguente:
Se, in caso di demansionamento o di dequalificazione,
il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello
cd. esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in
re ipsa al demansionamento, oppure sia subordinato alI’assolvimento,
da parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio.
Invero, entrambi gli indirizzi
convergono nel ritenere che la potenzialità nociva del comportamento
datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale,
alla salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche
del danno non patrimoniale, ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa,
ma divergono o presentano una inconciliabile diversità di accenti e
di sfumature quanto al regime della prova.
Sono ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cass. no 13299 del
16 dicembre 1992, no 11727 del 18 ottobre 1999, n. 14443 del 6 novembre 2000,
13580 del 2 novembre 2001, n. 15868 del 12 novembre 2002, n. 8271 del 29 aprile
2004, n. 10157 del 26 maggio 2004, le quali, ancorché con motivazioni
diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto di esame, hanno
ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per attribuzione al
lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali
era stato assunto, l’ammontare di tale risarcimento può essere determinato
dal giudice facendo ricorso ad una valutazione equitativa, ai sensi dell’art.
1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico elemento di prova da parte
del danneggiato, in quanto la liquidazione può’ essere operata in base
all’apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, all’entità’ e alla durata del demansionamento, nonche’
alle altre circostanze del caso concreto.»
Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cass.
n. 7905 dell’ll agosto 1998, n. 2561 del 19 marzo 1999, n. 8904 del 4 giugno
2003, n. 16792 del 18 novembre 2003, n. 10361 del 28 maggio 2004, le quali
enunciano il seguente principio «il prestatore dì lavoro che chieda
la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua
eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno
biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la
prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione
idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire
la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalita’ con l’inadempimento,
prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione
equitativa.
Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di
ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicche’
non e’ sufficiente dimostrare la mera potenzialita’ lesiva della condotta datoriale,
incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in
base alla regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.».
Con dette
pronunzie si sono generalmente confermate le sentenze di merito che avevano
rigettato la domanda di risarcimento del danno per essere stata la dequalificazione
fatta genericamente derivare dalla privazione di compiti direttivi, per non
essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale ovvero non patrimoniale
subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti una lesione di
natura patrimoniale, non riparata dall’adempimento dell’obbligazione retributiva,
ovvero una lesione di natura non patrimoniale.
Le sezioni unite ritengono di aderire a quest’ultimo indirizzo.
1. La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che
prospetta la responsabilità datoriale come di natura
contrattuale.
Ed
infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo
di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della
professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio
alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un
comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo
caso il danno
deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’art. 2103 (divieto di dequalificazione),
mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’art.
2087 (tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del
lavoratore) norma che inserisce, nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi
costituzionali.
In entrambi i casi, giacché l’illecito consiste nella
violazione dell’ obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione
di inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 cod.civ., con conseguente
esonero dall’onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata
in
stretta connessione con l’art. 1223 dello stesso codice.
Vi è da aggiungere
che l’ampia locuzione usata dall’art. 2087 cod. civ. (tutela della integrità fisica
e della personalità morale del lavoratore ) assicura il diretto accesso
alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario,
per superare le limitazioni imposte dall’art. 2059 cod. civ. (sulla evoluzione
di detta tematica vedi Corte Costituzionale n. 233/2003 e l’indirizzo inaugurato
da Casso n. 7283 del 12 maggio 2003), verificare se l’interesse leso dalla
condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale,
perché la protezione è già chiaramente accordata da una
disposizione del codice civile.
2. Dall’inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l’esistenza
del danno, ossia questo non è , immancabilmente, ravvisabile a causa
della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo.
L’inadempimento infatti è già sanzionato
con l’obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario
che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma.
Non può infatti
non valere, anche in questo caso, la distinzione tra “inadempimento” e “danno
risarcibile” secondo gli ordinari principi civilistici di cui all’art.
1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno
che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento, lasciando
così chiaramente distinti il momento della violazione degli obblighi
di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da quello, solo eventuale, della produzione
del pregiudizio ( in tal senso chiaramente si è espressa la Corte Costituzionale
n. 372 del 1994).
D’altra parte – mirando il risarcimento del danno alla reintegrazione
del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio del
danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che
sarebbe stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta – ove diminuzione
non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento
non è configurabile.
In altri termini la forma rimediale del risarcimento
del danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente,
dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione
del mero accertamento della lesione, finirebbe con il configurarsi come somma
castigo, come una sanzione civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento,
ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento.
3. E’ noto poi che dall’inadempimento datoriale,
può nascere, astrattamente,
una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale,
danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine
o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale,
che possono anche coesistere l’una con l’altra.
Prima di scendere all’ esame particolare, occorre sottolineare che proprio
a causa delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione,
si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del
lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo degli indirizzi giurÌsprudenziali
sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare quali di essi ritenga in
concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e
le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere
la prova del danno.
Non è quindi sufficiente prospettare l’esistenza
della dequalificazione e chiedere genericamente il risarcimento del danno non
potendo il giudice prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato, e valendo
il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza
di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione
dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 cod. proc. Civ. – non
può invece mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto
della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (tra
le tante Cass. sez. un. 3 febbraio 1998 n. 1099).
4. Passando ora all’esame delle singole ipotesi, il
danno professionale, che
ha contenuto patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo
consistere sia nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale
acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità ovvero
nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di
guadagno.
Ma questo pregiudizio non può essere riconosciuto, in concreto
se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio
di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione,
e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale
destinati a venire meno in conseguenza del toro mancato esercizio per un apprezzabile
periodo di tempo.
Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali
o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando,
nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili
in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento
o dalla forzata inattività.
In mancanza di detti elementi, da allegare
necessariamente ad opera dell’interessato sarebbe difficile individuare un
danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento –
l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli,
nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno
assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore.
5. Più semplice è il discorso sul danno
biologico, giacché questo,
che non può prescindere dall’accertamento medico legale, si configura
tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’ integrità psico
fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione legislativa di cui
all’art. 5 terzo comma della legge n. 57 del 2001 sulla responsabilità civile
auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall’art. 13 del
d.lvo n. 38 del 2000 in tema di assicurazione Inail ( tale peraltro è la
locuzione usata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).
6. Quanto al danno non patrimoniale all’identità professionale
sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione o comunque alla
lesione
del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt. 1 e 2 della Costituzione
(cd. danno esistenziale) è in relazione a questo caso che si
appunta maggiormente il contrasto tra l’orientamento che propugna la configurabilità del
danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto.
Invero, stante la forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui
allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore
come persona, per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito
datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini
di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua
quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno.
Peraltro il danno esistenziale
si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore ( propria del cd.
danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la
prova
di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse
verificato l’evento dannoso.
Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla
allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito
pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso
nell’ atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente
elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all’immagine,
alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica
conseguenza della dequalificazione.
Il danno esistenziale infatti, essendo
legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione
secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno
biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili
in relazione alla lesione dell’indennità psico fisica – necessita imprescindibilmente
di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire,
indicando le circostanze comprovanti l’alterazione delle sue abitudini di vita.
Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell’isolamento,
della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori
a quelle proprie, perché questi elementi integrano l’inadempimento del
datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova
che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera
del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita.
Non può infatti
escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali,
connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non
provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del
lavoratore, essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione
retributiva: se è così sussiste l’inadempimento, ma non c’è pregiudizio
e quindi non c’è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla
Corte Costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994 per cui «e’ sempre
necessaria la prova ulteriore dell’entità del danno, ossia la dimostrazione
che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art.
1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale
(non patrimoniale ) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente)
commisurato».
6. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando ad esaminare la
questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto
subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi
profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente.
Mentre il danno
biologico non può prescindere dall’accertamento medico legale, quello
esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale,
documentale o presuntiva, che dimostri nel processo “i concreti” cambiamenti
che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di
vita del danneggiato.
Ed infatti – se è vero che la stessa categoria
del “danno esistenziale” si fonda sulla natura non meramente emotiva
ed interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale:
non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero
adottate se non si fosse verificato 1’evento dannoso – all’onere probatorio
può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale
pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale
su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro.
Considerato che il pregiudizio
attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo
di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato
dall’ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice
può far
ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002)
per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di
cui all’art. 2727 cod. civo venga offerta una serie concatenata dì fatti
noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta
( e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all’
interno ed all’ esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione,
frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale,
eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la
avvenuta lesione dell’interesse relazionale. gli effetti negativi dispiegati
nella abitudini di vita del soggetto da tutte queste circostanze, il cui artificioso
isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante
Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso
un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto,
ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ.
a quelle nozioni generali derivanti dall’ esperienza, delle quali ci si serve
nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
D’altra parte,
in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale,
non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa,
perché questa, per non trasmodare nell’ arbitrio, necessita di parametri
a cui ancorarsi.
7. Applicando detti criteri al caso di specie, la Corte territoriale afferma
essere indiscutibile che il dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto
una serie di risultati negativi ed indica a tal fine la lesione della personalità professionale
e morale, il discredito derivante dal declassamento nell’ambiente dì lavoro
ed il pregiudizio sul curriculum vitae e sulla carriera dell’istante.
In primo
luogo, detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni del ricorrente,
perché non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l’espressione
usata: “si pensi alla lesione della personalità professionale
e morale … al “discredito” nell’ambiente di lavoro” sembra
alludere a conclusioni cui il Giudice è pervenuto autonomamente, in
altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti
dalla parte nel processo, così contravvenendo all’ obbligo di decidere
iuxta alligata et probata di cui all’art. 115 cod.proc.civ.
Inoltre,
ciò di cui si da conto è, non già – come si dovrebbe –
il danno conseguenza della lesione, e cioè l’esistenza dei riflessi
pregiudizievoli prodotti nella vita dell’istante attraverso una negativa alterazione
dello stile di vita, ma l’esistenza della lesione medesima, essendosi fatto
ricorso ad una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti
i casi di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette
controversie con l’ apposizione di un formulario “fisso” e quindi
con elusione delle specificità delle singole fattispecie.
Del tutto
generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al curriculum
ed alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative
dell’interessato nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero
state frustrate dall’inadempimento datoriale, né alla conoscenza della
vicenda al di fuori dell’ambiente di lavoro, né alla perdita di concrete,
o quanto meno potenziali, occasioni di lavoro.
In sostanza 1’esistenza del
danno si è fatta erroneamente coincidere con la esistenza della lesione.
Il quarto motivo del ricorso principale va quindi accolto e la sentenza impugnata
va cassata sul punto, dovendo si affermare il seguente principio, cui si atterrà il
giudice del rinvio:
In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento
del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico
o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente
in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da
una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura
e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del
danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell’integrità psico
fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale da intendere come ogni
pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile ) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo scelte di vita diverse
quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo
esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del
luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e
ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste
in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse
relazionale, effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto)
– il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento
logico – si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire
al fatto ignoto, ossia all’ esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115
cod.proc.civ. a quelle nozioni generali derivanti dall’ esperienza, delle
quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
Conclusivamente, va accolto il quarto motivo del ricorso principale con conseguente
cassazione sul punto della sentenza impugnata, mentre vanno rigettati il terzo
motivo del ricorso principale e il primo motivo del ricorso incidentale. La
causa va poi rimessa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il quarto motivo del ricorso principale
e cassa la sentenza impugnata in relazione al medesimo motivo. Rigetta il terzo
motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale. Rimette
la causa alla sezione lavoro per la decisione sugli altri motivi.
Così deciso in Roma i12 febbraio 2006.
Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2006.