I giudizi di legittimita’ costituzionale in via incidentale

Corte Costituzionale
Giurisprudenza Costituzionale 2005


Dalla relazione introduttiva di Annibale Marini, presidente della Corte Costituzionale,
in
occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2006, riportiamo
alcuni passi relativi all’analisi dell’attività giurisprudenziale svolta
nell’anno
2005 dalla Consulta:

(…)

“Il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
(…)

2. I giudici a quibus e la legittimazione a sollevare questioni
di legittimità costituzionale
(…)
Con l’ordinanza n. 298, la Corte ha avuto occasione di confermare, sia
pure implicitamente, l’orientamento favorevole alla legittimazione
degli arbitri
a porsi come giudici a quibus: la questione è stata infatti
dichiarata manifestamente inammissibile, ma in conseguenza di vizi che inficiavano
la parte motiva dell’atto di rinvio.
(…)
3. Il nesso di pregiudizialità tra giudizio a quo e giudizio di legittimità costituzionale
Caratteristica fondamentale del giudizio in via incidentale è il rapporto
di pregiudizialità che collega il processo di costituzionalità con
il processo a quo: affinché una questione di legittimità costituzionale
sia ammissibile, condizione imprescindibile è che essa sia «rilevante» ai
fini della decisione del processo nel corso del quale la questione è stata
sollevata.
Nel corso del 2005, si riscontrano varie decisioni nelle quali l’esame
di merito è stato precluso dal difetto di rilevanza, ora derivante dalla «estraneità delle
norme denunciate all’area decisionale del giudice rimettente» (così,
espressamente, l’ordinanza n. 447), ora dal momento nel quale la questione
era stata concretamente sollevata.
Nel primo senso, possono menzionarsi le fattispecie nelle quali la Corte ha
constatato che il giudice a quo non avrebbe in alcun caso avuto modo di applicare
la disposizione denunciata (ordinanze numeri 81, 148, 340, 341, 382, 434 e
436), donde la non incidenza della questione sull’esito del giudizio
(sentenza n. 266 ed ordinanze numeri 153, 213, 292, 296, 429, nonché,
scil., la precitata ordinanza n. 447). A questa categoria possono associarsi
le declaratorie di irrilevanza motivate dalla erronea individuazione delle
norme da censurare (in tal senso, ordinanza n. 376) e quelle derivanti dalla
decadenza con effetti retroattivi della disposizione censurata (come nel caso
di un decreto legge non convertito: ordinanza n. 443). Devesi peraltro evidenziare
che, in linea generale, l’abrogazione o la modifica della disposizione,
operando ex nunc, non esclude di per sé la rilevanza della questione
,
restando applicabile – in virtù della successione delle leggi
nel tempo – la disposizione abrogata o modificata al processo a quo (così le
sentenze numeri 283 e 466).
In relazione al momento nel quale la questione di legittimità è stata
sollevata, la Corte ha ribadito l’inammissibilità delle questioni
c.d. «premature»
, quelle cioè, in cui «la rilevanza
[…] appare meramente futura ed ipotetica», in quanto il giudice
rimettente non è ancora nelle condizioni di fare applicazione della
disposizione denunciata (ordinanza n. 375). Ad esiti analoghi si giunge con
riferimento alle questioni «tardive», vale a dire promosse quando
le disposizioni denunciate sono già state oggetto di applicazione (ordinanze
numeri 55, 57, 208, 363, 370 e 377) ovvero quando la loro applicazione non è più possibile
(ordinanze numeri 90, 97 e 443), perché il potere decisorio del giudice
a quo si è ormai esaurito: è stato in proposito sottolineato
che «la rilevanza di una questione di costituzionalità non può essere
fatta comunque discendere dalla mera impossibilità, per il giudice rimettente,
di sollevare la questione stessa in una fase anteriore; essendo necessaria,
al contrario, una oggettiva incidenza del quesito sulle decisioni che detto
giudice è ancora chiamato a prendere» (così, l’ordinanza
n. 363).
Nell’operare il controllo circa la rilevanza della questione sottopostale,
la Corte costituzionale si attiene, in linea generale, alle prospettazioni
del giudice rimettente. Così, ad esempio, di fronte ad una eccezione
argomentata sulla base di un asserito difetto di legittimazione attiva
del ricorrente nel giudizio a quo, la Corte ha sottolineato che la valutazione
di tale profilo «è esclusivamente riservata al giudice»
(ordinanza
n. 181). Questa impostazione non impedisce alla Corte di svolgere un
vaglio relativo ad un eventuale difetto di giurisdizione o di competenza che
infici
in modo palese il giudizio principale
: nel corso del 2005, la constatata carenza
di giurisdizione del giudice rimettente ha precluso in tre occasioni l’esame
del merito della questione (sentenza n. 345 ed ordinanza numeri 9 e 196; nella
sentenza n. 144, invece, è stato evidenziato che, «pur in presenza
di orientamenti difformi […], l’argomentazione svolta dal rimettente
in ordine alla sussistenza della giurisdizione […] non appar[iva] implausibile»);
analogamente, nell’ordinanza n. 82, a suffragio della dichiarazione di
manifesta inammissibilità, si è precisato che «il difetto
di competenza del giudice rimettente, ove sia manifesto, come tale rilevabile
ictu oculi, comporta l’inammissibilità della questione sollevata
per irrilevanza».
Un ultimo aspetto da menzionare è la conferma della autonomia che è propria della
questione pregiudiziale di costituzionalità rispetto alle sorti
del processo
nell’ambito della quale è stata promossa: onde disattendere
una eccezione di inammissibilità per irrilevanza sopravvenuta, nella
sentenza n. 244 si è chiarito, in conformità ad una giurisprudenza
consolidata, che «il giudizio di legittimità costituzionale […]
una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente
non è suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto
concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato, come previsto
dall’art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale».

4. L’ordinanza di rimessione

Affinché il giudizio di legittimità costituzionale sia validamente
instaurato, è necessario che l’ordinanza di rimessione presenti
i requisiti minimi di forma e, soprattutto, di contenuto.
Per quanto attiene alla forma, la Corte ha evitato di adottare un atteggiamento
eccessivamente rigoristico: così, ad esempio, non si è ritenuta
preclusiva dell’esame del merito la forma di «sentenza» adottata
per sollevare la questione (sentenza n. 111); analogamente, nessuna conseguenza
ha avuto la circostanza che il rimettente, anziché «sollevare» la
questione, avesse «ribadito» la questione già sollevata
nel medesimo giudizio (ordinanza n. 238).
Non ostativo all’ammissibilità delle questioni è stato
implicitamente ritenuto l’eventuale ritardo con cui l’ordinanza
di rimessione sia pervenuta alla cancelleria della Corte.

(…)
Con precipuo riferimento al contenuto dell’ordinanza di rimessione, sono
numerose le decisioni con cui la Corte censura la carenza – assoluta
o, in ogni caso, insuperabile – di descrizione della fattispecie oggetto
del giudizio a quo (ordinanze numeri 29, 90, 126, 155, 210, 226, 251, 288,
295, 297, 318, 364, 390, 396, 413, 434, 453, 472 e 476) o comunque il difetto
riscontrato in ordine alla motivazione sulla rilevanza (sentenze numeri 66,
303 e 461, ed ordinanze numeri 3, 100, 140, 153, 183, 189, 195, 196, 207, 236,
237, 256, 328, 331, 340, 418, 482). Ad un esito analogo conducono i difetti
riscontrabili in merito alla manifesta infondatezza (sentenza n. 147 ed ordinanze
numeri 74, 197, 212, 266 e 382), a proposito della quale la sentenza n. 432
ha fornito un inquadramento di ordine generale, sottolineando che, «ai
fini della sussistenza del presupposto di ammissibilità […], occorre
che le “ragioni” del dubbio di legittimità costituzionale,
in riferimento ai singoli parametri di cui si assume la violazione, siano articolate
in termini di sufficiente puntualizzazione e riconoscibilità all’interno
del tessuto argomentativo in cui si articola la ordinanza di rimessione; senza
alcuna esigenza, da un lato, di specifiche formule sacramentali, o, dall’altro
lato, di particolari adempimenti “dimostrativi”, d’altra
parte in sé incompatibili con lo specifico e circoscritto ambito entro
il quale deve svolgersi lo scrutinio incidentale di “non manifesta infondatezza”».
Non mancano – sono anzi piuttosto frequenti – i casi in cui ad
essere carente è la motivazione tanto in ordine alla rilevanza quanto
in ordine alla non manifesta infondatezza (sentenza n. 21 ed ordinanze numeri
84, 86, 92, 123, 139, 141, 142, 166, 228, 254, 298, 312, 314, 316, 333, 381,
435 e 448), carenze che rendono talvolta le questioni addirittura «incomprensibili» (ordinanza
n. 448) e che sono alla base di declaratorie di (solitamente manifesta) inammissibilità «per
plurimi motivi» (così, testualmente, l’ordinanza n. 316).
Altra condizione indispensabile onde consentire alla Corte una decisione sulla
questione sollevata è la precisa individuazione dei termini
della questione
medesima. A questo proposito, sono presenti decisioni che rilevano un difetto
nella motivazione concernente uno o più parametri invocati (ordinanze
numeri 23, 39, 86, 126, 311 e 414), talvolta soltanto enunciati (sentenze numeri
322 e 409, ed ordinanza n. 149), quando non indicati (ordinanza n. 166) o addirittura
errati (ordinanze numeri 253 e 257). Del pari, sono da censurare l’errata
identificazione dell’oggetto della questione – non di rado ridondante
in una carenza di rilevanza (v. supra, par. precedente) – che rende impossibile
lo scrutinio della Corte (sentenza n. 21 ed ordinanze numeri 153, 197, 376,
436 e 454), l’omessa impugnazione dell’oggetto reale della censura
(ordinanza n. 400), la sua mancata individuazione (ordinanza n. 140) od il
riferimento alle disposizioni denunciate soltanto nella parte motiva della
ordinanza di rinvio e non anche nel dispositivo (sentenza n. 243 ed ordinanza
n. 228), alla stessa stregua della genericità della questione sollevata
(ordinanze numeri 23 e 328).
A precludere una decisione di merito è altresì il mancato
esperimento, da parte del giudice a quo, di un tentativo teso a rintracciare
una interpretazione
della disposizione censurata che la renda conforme alla Costituzione
.
(…)

Ancora, è da considerarsi vizio insanabile la mancata presa
in considerazione di modifiche legislative
(ordinanze numeri 24 e 317) o
di dichiarazioni di illegittimità costituzionale
(sentenze numeri 27 e 468, ed ordinanza
n. 313) intervenuti antecedentemente al promuovimento della questione.
Il vizio dell’ordinanza di rimessione può riguardare anche l’intervento
che il giudice a quo richiede alla Corte costituzionale: prescindendo dai casi
in cui il petitum non è sufficientemente precisato (ordinanze numeri
188 e 400), sono colpite da inammissibilità tutte quelle richieste volte
ad ottenere dalla Corte una pronuncia «creativa», da adottarsi,
cioè, attraverso l’utilizzo di poteri discrezionali di cui la
Corte è priva (sentenze numeri 109 e 470, ed ordinanze numeri 260, 273
e 399), una sentenza additiva in malam partem in materia penale (ordinanza
n. 187) o, infine, una pronuncia che, con l’accoglimento, avrebbe il
risultato di creare una situazione di (manifesta) incostituzionalità (ordinanza
n. 68).
Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta del giudice a quo – oltre
a quelle connesse all’esercizio dei poteri interpretativi da parte della
Corte, su cui v., nuovamente, infra, par. 8 – sono anche le formulazioni
delle questioni nell’ambito delle quali il rimettente non assume una
posizione netta in merito alla questione
: ne deriva l’inammissibilità di
questioni formulate in maniera contraddittoria
(sentenze numeri 163 e 243,
ed ordinanze numeri 58, 112 e 297), perplessa (ordinanza n. 246) o
alternativa
(ordinanze numeri 215 e 363). Pienamente ammissibili sono, di contro, le
questioni poste in via subordinata
rispetto ad altre (ad esempio, sentenze numeri 52,
53 e 174, ed ordinanze numeri 75 e 256).
Le inesattezze che vengano riscontrate in merito all’indicazione del
petitum, o anche relativamente ad oggetti e parametri, non sempre conducono
alla inammissibilità delle questioni: nei limiti in cui il tenore complessivo
dell’ordinanza renda chiaro il significato della questione posta, è la
Corte stessa ad operare una correzione, ciò che è avvenuto nella
sentenza n. 471 e nell’ordinanza n. 342 (in ordine al petitum), nell’ordinanza
n. 288 (per l’oggetto) e nell’ordinanza n. 318 (per il parametro).
La sanatoria del vizio è invece radicalmente esclusa nel caso di ordinanze
motivate per relationem, vale a dire attraverso il riferimento ad altri atti,
come scritti difensivi delle parti del giudizio principale (ordinanze numeri
92, 125, 312 e 423), sentenze parziali rese nel corso del giudizio medesimo
(ordinanza n. 208) o precedenti ordinanze di rimessione, dello stesso o di
altro giudice (ordinanze numeri 8, 22, 84, 141, 166 e 364): per costante giurisprudenza,
infatti, «non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalità questioni
motivate solo per relationem
, dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni
per le quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione
sollevata, mediante una motivazione autosufficiente» (così, l’ordinanza
n. 364).

5. La riproposizione delle questioni
(…)
Seguendo un orientamento
consolidato, la Corte lo ha ulteriormente ribadito, sottolineando che «l’ordinanza
con la quale [il giudice a quo] ripropone la questione di costituzionalità introduce
un nuovo giudizio di legittimità costituzionale e non costituisce una
prosecuzione di quello concluso» (ordinanza n. 22).
La riproposizione, di per sé, non presenta, ovviamente, problemi di
ammissibilità. È anzi da evidenziare come essa possa configurarsi
come un esito fisiologico delle pronunce di restituzione degli atti ai giudici
a quibus per un riesame della rilevanza della questione (ciò che postula,
in caso di ritenuta persistente rilevanza, un nuovo atto di promuovimento):
non a caso, in varie occasioni la riproposizione ha fatto seguito ad una restituzione
degli atti (sentenze numeri 243, 425 e 442, ed ordinanze numeri 22, 316, 341
e 422).
È
peraltro interessante constatare che la riproposizione può trarre origine
anche da altri tipo di dispositivi processuali, i quali non si configurano
esplicitamente come prodromici ad un nuovo promuovimento. Tale è il
caso delle ordinanze di manifesta inammissibilità, che in taluni casi,
nel 2005, hanno originato nuove decisioni rese dalla Corte. Sulla scorta dell’indicazione
del vizio che precludeva l’esame del merito della questione, il giudice
a quo ha provveduto ad emendare il vizio (o, quanto meno, si è adoperato
in tal senso, con esiti non sempre «fausti»), sollecitando nuovamente
uno scrutinio di costituzionalità (sentenze numeri 439 e 459, ed ordinanze
numeri 101, 257, 331 e 347).
(…)
6. L’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale
(…)
Nella sentenza n. 322 si è affrontata una questione nella
quale la disciplina legislativa impugnata si compenetrava con quella della
contenuta in contratti
collettivi di lavoro
. Nell’esaminare il merito delle censure,
la Corte ha precisato che «resta[va]no estranee allo scrutinio di costituzionalità tutte
le questioni relative alla disciplina della materia contenuta in atti
di contrattazione collettiva per le varie categorie di personale della scuola,
quale che [fosse] la funzione svolta o il profilo professionale di appartenenza».
Si è in
tal modo confermata l’inutilizzabilità del
giudizio in via incidentale per denunciare atti che non rientrino nel novero
delle fonti di rango primario
.
Tale affermazione non è stata smentita dalla sentenza n. 441, che ha
avuto ad oggetto una disposizione del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642,
recante il «Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali
del Consiglio di Stato». In ordine all’ammissibilità della
questione, è stato evidenziato che, «dopo un primo contrario orientamento
volto a desumere la natura regolamentare della normativa dalla formulazione
dell’art. 16, primo comma, della legge di delega 7 marzo 1907, n. 62,
per l’emanazione del decreto n. 642 del 1907», la Corte «ha
sempre dato ingresso allo scrutinio del medesimo regolamento, nel presupposto
della sua natura legislativa»: nella specie, non si sono ravvisati motivi
per discostarsi da tale più recente indirizzo.
Di nuovo in ossequio ad un orientamento consolidato, è stato affermato
che «l’intervenuta abrogazione della disposizione censurata […]
non costituisce impedimento all’esame della questione di legittimità costituzionale
sollevata» allorché tale disposizione sia stata «integralmente
trasfusa» in altra
(sentenza n. 345 ed ordinanza n. 54). Il «trasferimento» della
questione da un oggetto ad un altro
è testimonianza dell’atteggiamento
rivolto a privilegiare la sostanza normativa (rimasta inalterata a seguito
della abrogazione) rispetto alla pura forma. Ad analoghe considerazioni si
prestano i casi nei quali l’avvenuta modifica della disposizione censurata
non ha impedito l’esame del merito della questione quando «le modifiche
subite dalla norma non incid[eva]no sulla sostanza del precetto normativo» (sentenza
n. 161). Come è chiaro, allorché siano state apportate modificazioni
al testo della disposizione impugnata tali da incidere sulla sostanza della
normazione, si è imposta la restituzione degli atti al giudice a quo
per un riesame della rilevanza della questione (così, con particolare
riferimento ad un decreto legge convertito con modificazioni, l’ordinanza
n. 2).

7. Il parametro del giudizio
(…)
Non mancano riferimenti al diritto comunitario ed alla Convenzione europea
dei diritti dell’uomo.
Quest’ultima fonte è stata invocata
come parametro nell’ambito della questione risolta con l’ordinanza
n. 139, mentre nelle questioni a seguito delle quali la Corte ha reso la sentenza
n. 224 e le ordinanze numeri 97, 250, 260 e 464, la Convenzione è stata
evocata come norma interposta, in riferimento all’art. 10 della Costituzione.
Tale ultimo impiego non corrisponde ad una corretta esegesi della disposizione
costituzionale: in tal senso, la sentenza n. 224 ha sottolineato che «non è invocabile
l’art. 10 della Costituzione», poiché, secondo l’orientamento
invalso nella giurisprudenza costituzionale, essa «“esorbita dagli
schemi del diritto internazionale pattizio” (sentenza n. 32 del 1999)».
Più radicale è l’affermazione di cui all’ordinanza
n. 464, secondo la quale «l’art. 8 della Convezione europea dei
diritti dell’uomo non assume il valore di norma parametro».
Meno numerosi sono stati i casi nei quali è stato il diritto comunitario è stato
evocato. Viene all’uopo in rilievo l’ordinanza n. 434, che non
ha deciso il merito di una questione con cui si denunciavano varie disposizioni
per la loro violazione dell’art. 117, comma primo, nonché dell’art.
11 della Costituzione, in ragione del contrasto con l’art. 4, punto 2,
della parte II della Carta sociale europea. Da segnalare è anche l’ordinanza
n. 464, con la quale si è negata la parametricità delle disposizioni
del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, non essendo tale
atto ancora entrato in vigore.
(…)
8. La questione di legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi
dei giudici comuni
Uno dei profili maggiormente caratterizzanti del giudizio in via incidentale è rappresentato
dai rapporti intercorrenti tra la facoltà di sollevare questione di
legittimità costituzionale ed i poteri interpretativi propri dei giudici
comuni e della Corte costituzionale.
Affinché una questione di legittimità costituzionale possa dirsi
validamente sollevata, la Corte richiede che il giudice rimettente esperisca
un previo tentativo diretto a dare alla disposizione impugnanda una interpretazione
tale da renderla conforme al dettato costituzionale
. Ciò in quanto il
principio di conservazione degli atti giuridici – che non può non
trovare applicazione anche nell’ambito degli atti fonte – fa sì che «le
leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilità di
dare loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali» (ordinanza
n. 115), in quanto, «secondo un principio non discusso e più volte
espressamente affermato [dalla] Corte, una normativa non è illegittima
perché suscettibile di una interpretazione che ne comporta il contrasto
con precetti costituzionali, ma soltanto perché non può essere
interpretata in modo da essere in armonia con la Costituzione» (ordinanza
n. 89). È in quest’ottica che debbono apprezzarsi le – invero
piuttosto numerose – decisioni nelle quali lo scrutinio del merito delle
questioni è risultato precluso dalla omessa attività ermeneutica
del giudice (ordinanze numeri 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361, 381, 399, 419,
420, 427 e 452).
L’attenzione della Corte a che i giudici comuni esercitino la funzione
interpretativa alla quale sono chiamati non può, però, tradursi
in una acritica accettazione di qualunque esito cui essa giunga. Ne discende
il potere della Corte di censurare – solitamente con una decisione in
rito – l’erroneo presupposto interpretativo da cui il promuovimento
della questione ha tratto origine (ordinanze numeri 1, 25, 54, 69, 118, 269,
310, 331 e 340).
L’interpretazione delle disposizioni legislative, d’altra parte,
non può essere configurata come un monopolio della giurisdizione comune:
anche la Corte costituzionale ben può – e, entro certi limiti,
deve – coadiuvare i giudici nella ricerca della interpretazione più «corretta»,
nel senso di «adeguata ai precetti costituzionali». Ne sono una
patente testimonianza le decisioni c.d. «interpretative», con le
quali la Corte dichiara infondata una determinata questione alla luce dell’interpretazione
che essa stessa ha enucleato: in taluni casi, di questa attività si
ha riscontro anche nel dispositivo della sentenza, che collega l’infondatezza «ai
sensi di cui in motivazione» (sentenze numeri 63, 394, 410, 460, 471
e 480); sovente, però, questo riscontro non viene esplicitato, ciò che
non infirma, comunque, la portata del decisum (ex plurimis, sentenze numeri
163, 266, 379, 410, 437 e 441, ed ordinanze numeri 8, 347).
Il «dialogo» che viene così a strutturarsi – cadenzato
da riferimenti, in motivazione, a decisioni rese dal Consiglio di Stato e,
soprattutto, dalla Corte di cassazione (nella sentenza n. 303 si richiama anche «l’unanime
opinione dottrinale») – non può prescindere, tuttavia, da
una chiara ripartizione dei rispettivi compiti, veicolata, per un verso, da
(a) la necessità di tener conto dell’acquis ermeneutico sedimentatosi
in seno alla giurisprudenza comune e, per l’altro, da (b) la considerazione
del ruolo proprio della Corte costituzione, che è avant tout il giudice
chiamato ad annullare leggi contrastanti con la Costituzione.
a) Sotto il primo profilo, viene in precipuo rilievo la nozione di «diritto
vivente»
, definibile come l’interpretazione del diritto scritto
consolidatasi nella prassi applicativa.
In diverse circostanze, la Corte costituzionale ha constatato essa stessa la
sussistenza di una uniformità di giurisprudenza idonea a dimostrare
l’esistenza di un «diritto vivente». Così è stato,
ad esempio, nell’ordinanza n. 54, in cui il diritto vivente è stato
dedotto da «numerose pronunce della Corte di cassazione», confermate
da una recente sentenza delle sezioni unite penali, oppure nell’ordinanza
n. 427, nella quale l’individuazione del diritto vivente ha condotto
a censurare l’operato del giudice a quo, che aveva omesso di riferirvisi
onde assolvere «il compito di effettuare una lettura della norma conforme
alla Costituzione».
Alcune decisioni hanno – espressamente o meno – suffragato l’individuazione
del diritto vivente operata dal giudice rimettente (sentenza n. 283 ed ordinanza
n. 188), mentre altre decisioni hanno smentito quanto prospettato nell’ordinanza
di rinvio, sia nel senso di escludere l’incidenza del diritto vivente
sulla fattispecie oggetto del giudizio principale (sentenza n. 480), sia nel
senso di negare l’esistenza stessa di un orientamento giurisprudenziale
sufficientemente consolidato. A tale ultimo riguardo, se la rintracciabilità di
un orientamento della giurisprudenza di legittimità divergente rispetto
a quello prevalente impedisce radicalmente la configurabilità di un
diritto vivente (ordinanze numeri 58 e 332), alla stessa stregua di quanto
constatabile in presenza di «diverse, contrarie soluzioni della giurisprudenza
di merito» (ordinanza n. 452), a testimoniare l’inesistenza di
un diritto vivente può essere sufficiente anche una recente decisione
della Corte di cassazione (sentenza n. 460). Parzialmente differente è il
caso della sentenza n. 408, che ha escluso l’esistenza del «diritto
vivente» invocato dalla Avvocatura dello Stato per fondare una eccezione
di irrilevanza della questione.
Con riferimento ai profili ora in esame, la decisione più importante
dell’anno, per il tema affrontato oltre che per la vicenda nella quale
si è inserita, è comunque la sentenza n. 299. Con essa si è compiuto
un passo decisivo nella evoluzione della disciplina del computo dei periodi
di custodia cautelare, in merito alla quale, nel recente passato, «la
Corte costituzionale ha applicato il principio di astenersi dal pronunciare
una dichiarazione di illegittimità sin dove è stato possibile
prospettare una interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione,
anche al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente
critiche quando la disciplina censurata riguarda la libertà personale».
Alla luce di ciò, «la Corte ha […] pronunciato la sentenza
interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ed ha poi confermato la scelta della
via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni unite della Cassazione,
sollecitate a dirimere i contrasti insorti in materia tra le diverse sezioni,
sino a quando la Corte di cassazione a sezioni unite ha confermato con particolare
forza il proprio indirizzo interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004».
A seguito di tali decisioni e, in particolare, di quest’ultima sentenza,
alla Corte costituzione si è imposta la constatazione che «l’indirizzo
delle sezioni unite [dovesse] ritenersi oramai consolidato, sì da costituire
diritto vivente, rispetto al quale non [erano] più proponibili decisioni
interpretative». L’impossibilità di prospettare ulteriormente
soluzioni volte a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione ha
reso indefettibile una pronuncia di illegittimità costituzionale.
Questa vicenda illustra chiaramente l’importanza di una franca dialettica
tra Corte costituzionale e giudici comuni, nell’ambito della quale confrontare
le diverse posizioni al fine di addivenire a risultati (interpretativi o anche
caducatori, come nella specie) che garantiscano il rispetto dei principî sanciti
nella Carta costituzionale.
b) Per quanto concerne i rapporti che sussistono tra l’attività interpretativa
dei giudici comuni e la funzione che la Corte costituzionale ricopre nel sistema,
deve evidenziarsi che (il coadiuvare ne) la ricerca di soluzioni ermeneutiche
costituzionalmente orientate non può tradursi in una sorta di «tutela».
Ciò è reso evidente dal costante rifiuto della Corte
di assecondare richieste volte ad ottenere un avallo all’interpretazione che il giudice
a quo ritenga di dover dare
(ordinanze numeri 112, 115 e 211) o
addirittura richieste dirette a sollecitare la Corte a dirimere contrasti interpretativi,
per i quali sono altre le sedi istituzionalmente idonee
(ordinanza n. 89).

9. Il contraddittorio di fronte alla Corte

(…)
Gli interventi di soggetti terzi rispetto al giudizio a quo sono stati 26,
ripartiti in 9 giudizi. In 17 casi è stata dichiarata l’inammissibilità.
Sul punto, meritano una segnalazione quattro decisioni.
Nella sentenza n. 163 si affrontava il tema delle intercettazioni di conversazioni
o comunicazioni «alle quali hanno preso parte membri del Parlamento».
L’intervento spiegato dal Senato della Repubblica è stato dichiarato
inammissibile (con decisione che è stata esplicitata anche nel dispositivo
della sentenza).
Il Senato aveva sostenuto la propria legittimazione ad intervenire «sulla
base di un duplice rilievo»: da un lato, la pronuncia della Corte avrebbe
inciso «direttamente sulla propria funzione di autorizzazione all’utilizzazione
delle intercettazioni “indirette”, che trae titolo dall’art.
68, terzo comma, Cost. e dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, oggetto,
appunto, dello scrutinio di costituzionalità»; dall’altro
lato, si evidenziava che «l’art. 20, secondo comma, della legge
11 marzo 1953, n. 87, prevede espressamente che “gli organi dello Stato
e delle Regioni hanno il diritto di intervenire in giudizio”, confermando,
così, la “naturale” legittimazione dell’organo, che
sia portatore di un interesse qualificato dal collegamento alle proprie funzioni
costituzionali, ad essere presente nel giudizio stesso, a prescindere da ogni
ulteriore considerazione».
La Corte ha disatteso entrambi gli argomenti. Il primo perché , nel
giudizio incidentale di legittimità costituzionale, «ciò che
forma oggetto di scrutinio – e dunque di contraddittorio – è la
conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma
avente forza di legge, in correlazione, peraltro, con le posizioni soggettive
che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad
esso possono venir coinvolte». In questo quadro, resta affidato «al
Presidente del Consiglio dei ministri o al Presidente della Giunta regionale – a
seconda che si tratti di legge statale o regionale – il ruolo di interventori
ex lege (art. 25, terzo comma, della legge n. 87 del 1953)». In effetti, «la
disciplina del giudizio incidentale non contempla […] né esplicitamente
né implicitamente, una concorrente facoltà di intervento di ulteriori
organi o poteri dello Stato, estranei per definizione al giudizio a quo»:
la facoltà di intervento «non potrebbe […] prescindere da
una specifica previsione, che ne definisse gli esatti contorni e le finalità nel
panorama delle tutele e dei meccanismi di contenzioso costituzionale, finendo
altrimenti l’intervento stesso per sovrapporsi a quello “istituzionale” del
Presidente del Consiglio dei ministri».
Riguardo al secondo argomento dedotto, la Corte, rifacendosi a precedenti statuizioni,
ha ribadito che «il secondo comma dell’art. 20 della legge n. 87
del 1953 dett[a] una previsione generale volta a regolare esclusivamente la
rappresentanza e difesa nel giudizio davanti alla Corte, stabilendo che – a
differenza di quanto è previsto per il Governo, rappresentato dall’Avvocato
generale dello Stato (terzo comma), e per le altre parti, le cui rappresentanza
e difesa possono essere affidate soltanto ad avvocati abilitati al patrocinio
innanzi alla Corte di cassazione (primo comma) – per gli organi dello
Stato e delle Regioni non è richiesta una difesa professionale» (il
che, peraltro, «non riguarda, né vale a modificare, la disciplina
della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio»).
Nel giudizio concluso con la sentenza n. 345, concernente i certificati complementari
nazionali di protezione per i prodotti medicinali, si sono avuti ben 18 interventi.
Con ordinanza presidenziale letta nell’udienza del 12 giugno 2005 (poi
succintamente ripresa nella parte motiva della sentenza e nel dispositivo della
stessa), la Corte ha dichiarato ammissibili 4 interventi ed inammissibili 14.
L’ammissibilità è stata giustificata in relazione al fatto
che, successivamente all’intervento nel giudizio in via incidentale,
le quattro società farmaceutiche erano intervenute anche nel giudizio
a quo. Rilevato che, quanto all’ammissibilità dell’intervento,
la giurisprudenza costituzionale «è nel senso che al principio
generale – secondo il quale possono partecipare al giudizio di
legittimità costituzionale
(oltre il Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale,
il Presidente della Giunta) solo le parti del giudizio a quo – può derogarsi “soltanto
a favore dei soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente
inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio” (ordinanza n. 251
del 2002)», si è precisato che «l’incidenza sulla
situazione sostanziale vantata dall’interveniente deriv[a] non già,
come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge oggetto
del giudizio, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale
della legge stessa, bensì dall’immediato effetto che la pronuncia
della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo».
Conformemente a questa impostazione, nel giudizio concluso con l’ordinanza
n. 398 è stata dichiarata l’inammissibilità degli interventi
spiegati da un soggetto privato «parte di un processo diverso da quelli
nei quali [erano] state pronunciate le ordinanze di rimessione».
Del pari, la sentenza n. 440, vertente su questioni di legittimità costituzionale
di norme concernenti l’amministrazione di sostegno ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento
spiegato dall’Associazione nazionale mutilati e invalidi civili (Anmic), «trattandosi
di un soggetto non titolare di alcun interesse diretto e qualificato nei giudizi
a quibus (cui [era] rimasto estraneo), in quanto portatore di un mero interesse
diffuso della categoria dei disabili».
Circa il ruolo che le parti costituite e gli intervenienti svolgono nell’ambito
del giudizio di costituzionalità, la Corte ha più volte confermato
l’orientamento consolidato in base al quale le ulteriori censure
ed i parametri di costituzionalità
da essi prospettati non possono essere
presi in considerazione, in quanto
il thema decidendum è fissato dal
giudice al momento del promuovimento della questione di legittimità
costituzionale
(sentenze numeri 168, 244 e 301, ed ordinanza n. 273).
Questa limitazione non osta a che le difese svolte abbiano una funzione di
grande importanza, onde specificare e chiarire le (sovente molteplici) problematiche
che animano il giudizio di costituzionalità. A testimonianza dell’attenzione
che la Corte dimostra, può rimarcarsi come la presenza o meno di parti
abbia una profonda incidenza sulla scelta del rito: in presenza di parti validamente
costituite, infatti, si è generalmente optato per la trattazione in
udienza pubblica; soltanto in 15 occasioni la trattazione è avvenuta
in camera di consiglio, e ciò nonostante l’ampia possibilità di
ricorso a questo rito semplificato che è offerta dalle fonti normative
sul processo costituzionale.

10. La trattazione congiunta e la riunione delle cause

(…)
Per quanto attiene alla motivazione che ha condotto alla riunione, in
molti casi la Corte ha addotto la «medesimezza» o l’«identità» delle
questioni sollevate (sentenze numeri 53, 111, 299 147, ed ordinanze numeri
19, 29, 57, 91, 97, 136, 138, 156, 189, 251, 262, 297, 317, 340, 359, 364,
369, 376, 418 e 454), ovvero la sostanziale identità delle questioni
(sentenze numeri 280 e 444, ed ordinanze numeri 24, 89, 179, 213, 372, 375,
382 e 411), una identità che può essere anche «quasi assoluta» (ordinanza
n. 434). Tale è ovviamente, anche il caso della identità o della
sostanziale identità delle ordinanze di rimessione (rispettivamente,
ordinanze numeri 54, 86, 141 e 366, ed ordinanze numeri 356 e 358).
Tendenzialmente assimilabili a queste motivazioni sono quelle che si fondano
sulla identità delle norme, dei parametri e delle censure, nonché sulla
sostanziale identità argomentazioni (ordinanza n. 152, nonché,
analogamente, sentenze numeri 174 e 265).
I giudizi sono riuniti anche in caso di questioni «in parte identiche
ed in parte analoghe» (ordinanza n. 9), nonché quando si riscontra
una «sostanziale affinità delle questioni» (ordinanza n.
236).
Di per sé sufficiente è, comunque, l’analogia o la parziale
analogia delle questioni (rispettivamente, ordinanze numeri 155 e 368, ed ordinanze
numeri 139, 206, 269 e 453).
Parimenti, si riuniscono le cause per le quali sussiste una connessione oggettiva
(sentenze numeri 27 e 63), o una evidente connessione delle questioni (ordinanze
numeri 60, 102, 165, 194, 239, 342, 352, 398) o dei giudizi (sentenza n. 21).
La riunione segue altresì la «medesimezza» o l’«identità» della
disciplina legislativa impugnata (sentenze numeri 437 e 481, ed ordinanze numeri
11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 83, 92, 157, 166, 228, 312, 333, 381, 419,
420). Tale identità viene sovente rafforzata dalla identità dei
parametri (ordinanze numeri 131, 180 e 313), dei profili fatti valere (sentenze
numeri 144 e 408) o delle motivazioni (sentenza n. 440 ed ordinanza n. 334);
le motivazioni, peraltro, talvolta sono «in parte identiche ed in parte
analoghe» (ordinanze numeri 112, 289, 346 e 350). Più analiticamente,
la riunione può seguire alla constatazione della identità della
normativa impugnata, della parziale coincidenza delle censure proposte e dei
parametri invocati, nonché delle argomentazioni svolte (ordinanze numeri
315 e 316, nonché, similmente, ordinanza n. 96).
La diversità delle norme impugnate non è, comunque, ostacolo
alla riunione, quanto meno allorché le questioni si pongano negli stessi
termini (ordinanza n. 126) o in termini non diversi (sentenza n. 78).
In un caso, a fondare la riunione è stata l’identità delle
ragioni poste a fondamento dei dubbi di legittimità costituzionale (ordinanza
n. 69).
Per quanto piuttosto rari, non mancano giudizi nei quali la riunione è stata
disposta lasciando implicita la motivazione (peraltro riconducibile alla identità dell’oggetto:
ordinanze numeri 99, 464 e 475).

11. Le decisioni della Corte
(…)
11.1. Le decisioni interlocutorie
Prive di numerazione, le ordinanze interlocutorie non hanno, generalmente,
una rilevanza verso l’esterno, trattando aspetti organizzativi interni
alla Corte, come è il caso, ad esempio, dei decreti di rinvio a nuovo
ruolo di cause già fissate.
In taluni casi, peraltro, le decisioni interlocutorie hanno una incidenza sul
giudizio in corso che coinvolge direttamente altri soggetti. Nel quadro dei
giudizi definiti nel 2005, possono all’uopo segnalarsi le ordinanze lette
in udienza concernenti l’ammissibilità o meno di interventi di
terzi (sul punto, si rinvia a quanto detto supra, par. 9) e quelle c.d. istruttorie
ex art. 12 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Con precipuo riguardo all’acquisizione dei mezzi di prova, sono generalmente
sufficienti le informazioni che giungono alla Corte attraverso l’ordinanza
di rimessione (o, eventualmente, con l’attività dei soggetti intervenuti
o costituitisi in giudizio). È dunque raro che la decisione sulla/e
questione/i necessiti di una integrazione istruttoria. Nel 2005, tale è stato
il caso del giudizio definito con la sentenza n. 110, concernente la tariffa
delle tase sulle concessioni regionali per le aziende faunistico-venatorie.
Con ordinanza istruttoria del 10 aprile 2002, depositata il 12 successivo,
la Corte ha disposto che il Presidente del Consiglio dei ministri depositasse «la
documentazione relativa alla tariffa della tassa di concessione regionale per
le aziende faunistico-venatorie o per le riserve di caccia, in vigore in ciascuna
delle Regioni e Province autonome al momento dell’emanazione del d.lgs.
n. 230 del 1991, corredandola con una relazione sui criteri in base ai quali
il Governo era pervenuto a determinare la voce n. 16 della tariffa approvata
con tale decreto legislativo e le note ad essa relative».
Successivamente, con ordinanza istruttoria del 2 luglio 2003, depositata e
comunicata il 18 successivo, la Corte, ha ritenuto che «la documentazione
inviata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in riferimento alla precedente
ordinanza non contenesse tutti i dati richiesti», per cui ha disposto
che il Presidente del Consiglio dei ministri depositasse, «entro 90 giorni
dalla comunicazione del provvedimento», una relazione «attestante
l’entità della tassa di concessione regionale e, se prevista,
dell’eventuale soprattassa, per le aziende faunistico-venatorie o per
le riserve di caccia, in vigore in ciascuna delle Regioni al momento dell’emanazione
del d.lgs. n. 230 del 1991, con l’indicazione della relativa base normativa».
11.2. Le decisioni processuali
A] Nell’ambito delle decisioni processuali, le 16 sentenze che recano
un dispositivo di inammissibilità costituiscono una netta minoranza
rispetto agli altri tipi di pronunce.
L’insieme più ampio di statuizioni di inammissibilità è quello
connesso a carenze riscontrate nella motivazione dell’ordinanza di rimessione.
In 3 casi, il difetto di motivazione è stato individuato relativamente
alla rilevanza della questione (sentenze numeri 66, 303 e 461); in altrettanti,
ad essere censurata è stata la circostanza che i parametri fossero stati
evocati «senza alcuna motivazione specifica» (sentenze numeri 149
e 322) o con una motivazione comunque non congrua (sentenza n. 409). Di diverso
segno, ma con identico risultato, è la motivazione di cui alla sentenza
n. 243, in cui si rileva che «il giudice rimettente prospetta [una] questione
in modo contraddittorio, ritenendo possibili due distinte e contrapposte letture
del parametro costituzionale considerato, senza peraltro risolvere tale antinomia
ermeneutica attraverso una scelta argomentata; ed, anzi, sollevando la questione
essenzialmente ai fini dello scioglimento dell’alternativa stessa».
Nella sentenza n. 21, i vizi hanno riguardato molteplici aspetti, e segnatamente «la
formale mancanza, nell’ordinanza di rimessione, di una motivazione della
rilevanza e della non manifesta infondatezza specificamente riferite [agli]
articoli [denunciati]» e «la sostanziale estraneità delle
norme in essi contenute […] alle censure sollevate dalla [autorità]
rimettente»; la sentenza n. 147 dichiara invece l’inammissibilità delle
questioni relative ad alcune delle disposizioni denunciate, in quanto sollevate «senza
svolgere alcuna argomentazione in relazione» ad esse.
Il difetto di pregiudizialità – variamente motivato – della
questione di legittimità costituzionale nei confronti del giudizio principale è stato
alla base di 3 decisioni di inammissibilità, rese con le sentenze numeri
148, 266 e 345 (per ulteriori dettagli, sul punto, si rinvia supra, par. 3).
Per quanto attiene all’oggetto del giudizio di costituzionalità,
la sentenza n. 111 ha dichiarato inammissibile una questione che il giudice
aveva sollevato dando alla disposizione oggetto un significato che non aveva,
incorrendo in un «errore di fondo», constatabile «ictu oculi»,
e consistente nel denunciare, di fatto, gli eventuali inconvenienti derivanti
da una prassi applicativa distorsiva della disposizione.
Nella sentenza n. 109, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità della
questione, non potendo «emettere la pronuncia di incostituzionalità che
le [veniva] sollecitata», giacché la soluzione dei problemi posti
dal giudice a quo competevano al legislatore «nell’ambito della
sua discrezionalità». Del pari, la sentenza n. 470 ha escluso,
con la pronuncia processuale, che la Corte potesse rendere «una sentenza
additiva dal contenuto non costituzionalmente obbligato, tale da comportare
l’introduzione di un elemento estraneo all’impianto normativo esistente
e che perciò presuppone[va] l’esercizio di valutazioni discrezionali» esulanti
dalle sue funzioni.
B] I dispositivi di manifesta inammissibilità sono stati 124, di cui
3 contenuti in sentenze e 121 in ordinanze. Le motivazioni che hanno portato
a siffatte decisioni possono essere ricondotte a cinque categorie, concernenti,
rispettivamente, (a) il difetto di legittimazione del giudice rimettente, (b)
l’assenza di un nesso di pregiudizialità tra giudizio principale
e giudizio in via incidentale, (c) le carenze che affliggono l’ordinanza
di rimessione, (d) il cattivo esercizio da parte del giudice a quo, anteriormente
al promuovimento della questione, dei poteri interpretativi, (e) la tipologia
di pronuncia richiesta alla Corte costituzionale.
a) Il difetto di legittimazione a sollevare questione del giudice rimettente è stato
alla base della manifesta inammissibilità di cui all’ordinanza
n. 170 (si veda anche supra, par. 2).
b) Un numero consistente di decisioni hanno avuto riguardo al riscontrato difetto
del nesso di pregiudizialità tra il giudizio a quo e la questione di
legittimità costituzionale sollevata (ordinanze numeri 9, 55, 57, 81,
82, 90, 97, 208, 213, 292, 296, 340, 341, 363, 370, 375, 377, 382, 429, 434,
443 e 447). Per maggiori dettagli in merito alle ragioni che fondano tale difetto,
si rinvia a quanto detto supra, par. 3.
c) La categoria numericamente più cospicua è quella delle dichiarazioni
di manifesta inammissibilità derivanti da vizi di motivazione dell’ordinanza
di rimessione in riferimento alle condizioni legittimanti il promuovimento
della questione (sentenza n. 243 ed ordinanze numeri 3, 29, 74, 84, 86, 90,
92, 100, 123, 126, 139, 140, 141, 142, 153, 155, 166, 183, 189, 195, 196, 197,
207, 210, 212, 226, 228, 236, 237, 251, 254, 256, 288, 295, 297, 298, 312,
314, 316, 318, 328, 331, 333, 340, 364, 381, 382, 390, 396, 413, 418, 434,
435, 448, 453, 472, 476 e 482). Analogamente, la manifesta inammissibilità ha
colpito le carenze di motivazione sui termini della questione (ordinanze numeri
23, 39, 86, 126, 311 e 414). In tale ambito possono essere annoverate anche
le decisioni inerenti ad ordinanze motivate per relationem (ordinanze numeri
8, 22, 84, 92, 125, 141, 166, 208, 312, 364 e 423).
L’errore nella individuazione dei termini delle questioni è stato
alla base delle declaratorie di inammissibilità manifesta rese con le
ordinanze numeri 257, 376 e 454.
Le carenze censurate con la manifesta inammissibilità riguardano anche
la mancata presa in considerazione di modifiche legislative (ordinanze numeri
24 e 317) o di precedenti dichiarazioni di illegittimità costituzionale
della Corte (sentenze numeri 27 e 468, ed ordinanza n. 313).
Anche le questioni sollevate in modo generico, perplesso o contraddittorio
hanno condotto ad ordinanze di manifesta inammissibilità (ordinanze
numeri 58, 112, 188, 246, 297 e 400), così come le questioni alternative
(ordinanze numeri 215 e 363).
Specificazioni ulteriori, relativamente alle decisioni processuali motivate
da carenze delle ordinanze di rimessione, possono essere rinvenute supra, par.
4.
d) In ordine ai rapporti tra la questione di legittimità costituzionale
ed i poteri interpretativi del giudice a quo, la Corte ha talvolta censurato
con la manifesta inammissibilità l’erroneo presupposto interpretativo
da cui muoveva il rimettente (ordinanze numeri 269 e 310). Più frequenti
sono comunque state le declaratorie di inammissibilità manifesta discendenti
dal mancato esperimento di un tentativo di dare alle disposizioni denunciate
una interpretazione conforme alla Costituzione (ordinanze numeri 74, 130, 245,
250, 252, 306, 361, 381, 419, 420, 427 e 452). Riferimenti più dettagliati
sono contenuti supra, par. 8.
e) Il tipo di intervento richiesto alla Corte è stato alla base di alcune
pronunce di manifesta inammissibilità, motivate dalle conseguenze incostituzionali
che l’eventuale accoglimento della questione avrebbe creato (ordinanza
n. 68) ovvero dal tipo di intervento additivo cui la Corte era chiamata, che
avrebbe inciso su un ambito lasciato alla discrezionalità del legislatore
(ordinanze numeri 260, 273 e 399) o si sarebbe tradotto in una addizione in
malam partem in materia penale (ordinanza n. 187).
C] 71 (1 in sentenza e 70 in ordinanze) sono i dispositivi attraverso i quali
la Corte ha restituito gli atti al giudice rimettente o ai giudici rimettenti.
Nella maggior parte dei casi, la restituzione è stata dovuta al sopravvenire
di una decisione di incostituzionalità che ha caducato la disposizione
denunciata o che ha comunque inciso sull’oggetto della questione (ordinanze
numeri 24, 60, 75, 102, 127, 158, 184, 229, da 238 a 240, 313, 315, 342, 346,
351, 356, 358 e 475; si noti che, per quanto attiene all’ordinanza n.
127, la precedente declaratoria di illegittimità costituzionale era
stata resa in un giudizio in via principale). Peraltro, nel caso in cui la
pronuncia di accoglimento sia intervenuta prima dell’ordinanza di rimessione,
il dispositivo è stato di manifesta inammissibilità (v. supra).
Altra fattispecie ricorrente è stata quella di restituzione in dipendenza
di modifiche legislative sopravvenute a mutare il quadro normativo tenuto presente
dal giudice a quo (sentenza n. 174 ed ordinanze numeri 2, 41, 80, 93, 101,
157, 165, 248, 258, 259, 317, 398, 411 e 422).
Soprattutto con riferimento alle questioni aventi ad oggetto la disciplina
dell’immigrazione e della condizione giuridica dello straniero, molto
numerosi sono stati i casi nei quali alla decisione di incostituzionalità incidente
sull’oggetto si è associato un successivo intervento legislativo,
conducendo ad una restituzione per il concorrere di questi due motivi (ordinanze
numeri da 11 a 19, 83, da 96 a 99, 131, 138, 152, 156, 180, 182, 206, 362,
da 365 a 369, da 371 a 375, 395 e 446; nel caso dell’ordinanza n. 156,
l’intervento della Corte era avvenuto nel quadro di un giudizio in via
principale).
A queste tre grandi categorie di restituzioni si aggiungono due ordinanze che
hanno dato atto di una sopravvenuta sentenza della Corte di giustizia delle
Comunità europee: l’ordinanza n. 241 ha motivato la restituzione
sulla base del concorrere della decisione assunta in sede comunitaria e di
una modifica del diritto positivo, mentre nell’ordinanza n. 268 la sentenza
della Corte di giustizia è stata l’unico fattore preso in considerazione.
Nell’occasione, la Corte costituzionale, ribadendo il suo «costante
orientamento» secondo il quale «i principî enunciati dalla
Corte di giustizia
, riguardo a norme oggetto di giudizio di legittimità costituzionale,
si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno con il valore di
jus superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quelle norme
conservano efficacia e devono essere applicate anche da parte del giudice
a quo
», ha disposto «la restituzione degli atti al rimettente, perché valut[asse]
l’incidenza della pronuncia della Corte di giustizia sulla decisione
del giudizio sottoposto al suo esame e sulla persistente rilevanza della questione
di legittimità costituzionale».
11.3. Le decisioni di rigetto
A] La maggioranza delle decisioni di rigetto sono state adottate nella forma
della manifesta infondatezza: dei 72 dispositivi, 2 si trovano in sentenze
e 70 in ordinanze.
Dalle rationes decidendi emerge che buona parte delle pronunce sono derivate
dalla infondatezza ictu oculi delle questioni poste (ordinanze numeri 57, 59,
67, 132, 181, 213, 215, 216, 218, 228, 230, 247, 257, 296, 307, 309, 310, 381,
421, 452 e 453); in molti di questi casi, la Corte ha riscontrato l’infondatezza
(manifesta) del denunciato vizio di irragionevolezza delle disposizioni legislative
(ordinanze numeri 67, 181, 213, 215, 218, 228, 230, 247, 310, 421 e 452).
Non mancano le dichiarazioni di manifesta infondatezza derivanti dall’impossibilità di
operare uno scrutinio che avrebbe avuto ad oggetto la discrezionalità legislativa
(ordinanze numeri 87, 113, 155, 215, 255, 261, 262, 380, 401 e 463).
L’erroneità del presupposto interpretativo da cui muoveva il giudice
a quo è stata all’origine delle declaratorie contenute nelle ordinanze
numeri 1, 54, 69, 118, 124, 332, 340, 347, 348 e 389. La possibilità di
dare della disposizione denunciata una interpretazione conforme alla Costituzione è stata
sottolineata, invece, nelle ordinanze numeri 8 e 115.
L’erroneità dei parametri evocati è stata censurata con
una decisione di «manifesta» nelle sentenze numeri 174 e 243, nonché nelle
ordinanze numeri 125 e 209; mentre difetti concernenti l’individuazione
del tertium comparationis nel giudizio di uguaglianza-ragionevolezza sono stati
riscontrati nelle ordinanze numeri 25, 59, 122, 227, 350 e 402.
Piuttosto numerosi sono stati i casi in cui la decisione di manifesta infondatezza è stata
dedotta da statuizioni della Corte. Precedenti decisioni di infondatezza di
analoghe questioni hanno dato luogo alle decisioni di manifesta infondatezza
di cui alle ordinanze numeri 136, 179, 289, 334, 359, 395 e 464. Ancor più frequenti
sono state le decisioni di manifesta infondatezza che sono seguite a dichiarazioni
di manifesta infondatezza aventi ad oggetto le medesime questioni (ordinanze
numeri 114 e 128) o questioni analoghe (ordinanze numeri 23, 85, 91, 137, 154,
291, 305, 312, 382, 415 e 430); l’ordinanza n. 333 ha fatto seguito alla
declaratoria di manifesta infondatezza di questioni «in tutto simili».
Merita un cenno, infine, l’ordinanza n. 209. In essa la Corte ha dichiarato
manifestamente infondata la questione avente ad oggetto alcune disposizioni
legislative regionali «nella parte in cui dispongono che sono trasferiti
al patrimonio delle unità sanitarie locali i beni mobili ed immobili
già di proprietà dei Comuni con vincolo di destinazione alle
Unità sanitarie locali», motivata – tra l’altro –sull’assunto
della lesione del principio fondamentale dell’autonomia degli enti locali, «la
quale concerne anche l’integrità del patrimonio degli enti medesimi».
Sul punto, la Corte ha sottolineato che essa «ha sempre risolto, negandole
il necessario tono costituzionale, la questione – alla presente assimilabile – sollevata
in sede di conflitto di attribuzione se avente quale suo sostanziale oggetto
una rei vindicatio».
B] Delle 51 decisioni di rigetto adottate nel corso dell’anno, 6 presentano
il dispositivo tipico delle decisioni interpretative (sentenze numeri 63, 394,
410, 460, 471 e 480). Tra queste ultime, merita un cenno la sentenza n. 63,
in cui si è proceduto ad un rigetto interpretativo alla luce di una
contestuale decisione di incostituzionalità additiva: l’ampliamento
della portata normativa di una delle disposizioni impugnate ha «automaticamente
ampliato» anche la portata normativa della disposizione su cui il rigetto
interpretativo si è appuntato.
Delle sentenze di rigetto formalmente non interpretative, è da constatare
come molte rechino una motivazione nella quale la Corte ha provveduto ad una
(re)interpretazione delle disposizioni impugnate, giungendo in tal modo ad
esiti sostanzialmente analoghi a quelli propri di una decisione interpretativa
di rigetto (si segnalano, in particolare, le sentenze numeri 110, 174, 192,
266, 283, 303, 322, 379, 440 e 441). Di particolare interesse, a questo riguardo, è la
sentenza n. 441, che, pur non recando alcun riferimento all’interpretazione
nel dispositivo, presenta, a conclusione della parte motiva, una formula assai
simile a quelle che connotano le sentenze interpretative di rigetto: «la
norma impugnata non è quindi viziata di incostituzionalità nei
sensi sopra esposti».
11.4. Le decisioni di accoglimento
Nel corso del 2005, sono state pronunciate 30 sentenze che contengono una o
più declaratorie di illegittimità costituzionale, per un totale
di 32 dispositivi di annullamento.
A] Soltanto in 6 occasioni si è avuta una dichiarazione di illegittimità costituzionale
di una intera disposizione (sentenze numeri 191, 220, 221, 278, 437 e 466).
Tra queste decisioni, può constatarsi come la sentenza n. 466, avendo
ad oggetto una disposizione nel testo anteriore a modifiche apportate dal legislatore,
ma non applicabili nel giudizio a quo, ha dichiarato l’incostituzionalità precisando,
in motivazione, che essa colpisce «la disposizione censurata nel testo
vigente prima delle modifiche introdotte».
B] L’insieme nettamente più cospicuo di incostituzionalità è quello
delle sentenze «manipolative»
. Le più numerose, 14, sono
le decisioni additive
, id est quelle che «aggiungono» alla disposizione
legislativa significati normativi, dichiarandola incostituzionale «nella
parte in cui non prevede» un determinato contenuto (sentenze numeri 63 – con
due dispositivi di questo tipo –, 144, 199, 233, 280, 281, 299, 343,
385 e 458), «nella parte in cui non si applica» a fattispecie ulteriori
(sentenza n. 408), «nella parte in cui non include» (tra i beneficiari
di una prestazione) determinati soggetti (sentenza n. 432) ovvero «nella
parte in cui non equipara» determinati soggetti ad altri (sentenza n.
433).
Con precipuo riferimento alle decisioni additive, la sentenza n. 343 dichiara «l’illegittimità costituzionale
degli articoli 4 e 30 della legge della Regione Marche 5 agosto 1992, n. 34
(Norme in materia urbanistica, paesaggistica e di assetto del territorio),
nella parte in cui non prevedono che copia dei piani attuativi, per i quali
non è prevista l’approvazione regionale, sia trasmessa dai Comuni
alla Regione (o alla Provincia delegata)». Alla luce di questo dispositivo
viene inserito un adempimento all’interno di un procedimento di adozione
di un atto giuridico; in tal senso, questa decisione può essere annoverata
tra le sentenze «manipolative di procedura», riscontrabili in più occasioni
nel giudizio in via principale (v. infra, cap. II, par. 8.5).
Di notevole interesse è anche la sentenza n. 280, che pone fine ad una
vicenda nella quale la Corte già era stata chiamata ad intervenire,
a seguito di censure della medesima norma, le quali, però, non erano
state scrutinate nel merito. Peraltro, nelle due ordinanze rese (n. 107 del
2003 e n. 352 del 2004), la Corte aveva avuto modo di rilevare le difficoltà che
la norma poneva, con il che, una volta giunta una questione tale da poter essere
decisa nel merito, la Corte ha proceduto ad una pronuncia di illegittimità costituzionale
dell’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, come modificato dal d.lgs. n.
193 del 2001, «nella parte in cui non prevede per la notifica al contribuente
della cartella di pagamento un termine, fissato a pena di decadenza, e per
il quale, pertanto, sia stabilito il dies a quo». La Corte ha contestualmente
precisato che tale statuizione «rendeva indispensabile un sollecito intervento
legislativo con il quale si colm[asse] ragionevolmente la lacuna che si [andava]
a creare».
Oltre a questo «invito» al legislatore, nella sentenza si enunciano
anche alcuni «suggerimenti», in quanto si sottolinea, per un verso,
che «la ragionevolezza del termine che verrà stabilito dal legislatore,
ferma la sua natura decadenziale, discenderà dalla adeguata considerazione
del carattere estremamente elementare (tanto da richiedere “procedure
automatizzate”) dell’attività di liquidazione ex art. 36-bis
e della successiva attività di iscrizione nei ruoli: attività che
la vigente disciplina prevede si esauriscano entro il 31 dicembre del secondo
anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione», e, per
l’altro, che, «nel fissare il termine la cui mancanza qui si dichiara
incostituzionale, il legislatore non potrà non considerare che il vigente
art. 43, comma primo, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede che l’avviso
di accertamento – quale atto conclusivo di un ben più complesso
procedimento – sia notificato a pena di decadenza entro il 31 dicembre
del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione, e che solo
entro tale limite temporale il contribuente è obbligato a conservare
la documentazione sulla base della quale ha redatto la dichiarazione».
(…)
C] 9 sono state le decisioni di tipo ablatorio (o di accoglimento parziale),
le quali caducano una parte dei contenuti della disposizione legislativa attraverso
le formule secondo cui la disposizione è incostituzionale «nella
parte in cui prevede» un certo contenuto (sentenze numeri 7, 320 e 437), «nella
parte in cui fa divieto» di compiere una determinata azione (sentenza
n. 161) oppure «nella parte in cui si riferisce» a certe fattispecie
(sentenza n. 274). In taluni casi, analogamente, la formula ablativa si traduce
in una illegittimità costituzionale di una disposizione «limitatamente
alle parole» espressamente individuate (sentenze numeri 392 e 457).
Un dispositivo più elaborato, pur se sempre di tipo ablativo, è quello
che reca la sentenza n. 78, con cui si dichiara «l’illegittimità costituzionale
dell’art. 33, comma 7, lettera c), della legge 30 luglio 2002, n. 189
(Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e dell’art.
1, comma 8, lettera c), del decreto legge 9 settembre 2002, n. 195 (Disposizioni
urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari),
convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002, n. 222, nella parte
in cui fanno derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione
del lavoratore extracomunitario dalla presentazione di una denuncia per uno
dei reati per i quali gli articoli 380 e 381 cod. proc. pen. prevedono l’arresto
obbligatorio o facoltativo in flagranza».
Tra le decisioni manipolative, un caso particolare è quello della già ricordata
sentenza n. 438, il cui dispositivo («illegittimità costituzionale
dell’art. 4 della legge 8 giugno 1966, n. 424 […] nella parte in
cui prevede, per i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato, la sequestrabilità e
la pignorabilità delle indennità di fine rapporto di lavoro,
per crediti da danno erariale, senza osservare i limiti stabiliti dall’articolo
545 del codice di procedura civile») presenta una costruzione complessa,
associando elementi tipici di una illegittimità costituzionale ablativa
(«nella parte in cui prevede che …») ad altri riconducibili,
di fatto, ad una additiva («senza osservare …»).
D] Infine, 3 sentenze sono riconducibili al genus delle decisioni sostitutive
che censurano una disposizione «nella parte in cui prevede [un contenuto]
anziché [un altro]» (sentenze numeri 27 e 168). Un dispositivo
sostitutivo di tipo più analitico è contenuto nella sentenza
n. 444, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte
in cui esclude la pignorabilità per ogni credito dell’intero ammontare
della pensione erogata dalla Cassa nazionale del notariato, anziché prevedere
l’impignorabilità, con le eccezioni previste dalla legge per crediti
qualificati, della sola parte della pensione necessaria per assicurare al pensionato
mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità nei limiti del
quinto della residua parte».
E] Non constano, nel 2005, dichiarazioni di illegittimità costituzionale
consequenziali rese ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953.

12. Sindacato di costituzionalità e discrezionalità legislativa
Nell’operare il sindacato di legittimità costituzionale, la Corte
incontra il limite derivante dall’impossibilità di incidere sul «merito» delle
scelte legislative. In tal senso, già si è avuto modo di riscontrare
(supra, par. 4) che la Corte si astiene dal giudicare nel merito questioni
che, per il loro petitum, si risolvano nella richiesta di esercitare una funzione
che si inserisce nell’ambito della discrezionalità legislativa.
Se è vero che la «discrezionalità» del legislatore
rappresenta un argine al giudizio di costituzionalità, è però anche
vero che tale argine può essere superato, sia pure soltanto nelle ipotesi
in cui le scelte operate a livello politico ridondino in vizi di legittimità del
prodotto legislativo.
Onde dare consistenza al proprio margine di azione, la Corte utilizza varie
formule, sostanzialmente equivalenti. Nel corso del 2005, in particolare, di
più frequente impiego è stata la definizione sulla base della
quale il giudizio di costituzionalità può incidere sulla discrezionalità legislativa
allorché il suo esercizio abbia avuto esiti censurabili come «irragionevoli» (sentenze
numeri 7, 21, 220, 322 e 442, ed ordinanze numeri 218, 230, 350 e 453). Quasi
equivalenti, sul piano numerico, sono stati i casi in cui si è posto
alla discrezionalità legislativa il limite della «non manifesta
irragionevolezza» (sentenze n. 144, 191, 224 e 379, ed ordinanze numeri
87, 261, 310 e 421); in due casi, invece, è stata resa indefettibile
la «non intrinseca irragionevolezza» (sentenze numeri 78 e 111).
La «non manifesta irragionevolezza o arbitrarietà» è stata
posta come limite nelle ordinanze numeri 213 e 382, mentre nella sentenza n.
243 si è fatto riferimento alla «non palese arbitrarietà o
irragionevolezza».
L’ordinanza n. 215 ha definito le scelte discrezionali del legislatore
esenti da scrutinio di costituzionalità come «non irrazionali»,
l’ordinanza n. 23 ha ampliato la definizione alla «non arbitrarietà o
irrazionalità», mentre le ordinanze numeri 155 e 255 hanno richiesto
la «non manifesta irrazionalità o arbitrarietà».
Alla «corrispondenza ai canoni di coerenza e di ragionevolezza» ha
fatto richiamo l’ordinanza n. 452; le ordinanze numeri 262 e 401, dal
canto loro, hanno posto quale condizione per lo scrutinio della Corte l’esercizio
della discrezionalità legislativa che «ne rappresenti un uso distorto
o arbitrario, così da configgere in modo manifesto con il canone della
ragionevolezza».
Una definizione ancor più analitica è stata fornita dalla sentenza
n. 325, secondo cui sono sindacabili in sede di giudizio di legittimità costituzionale
le «scelte normative palesemente arbitrarie o radicalmente ingiustificate,
ovvero contrastanti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, che
si traducono in un uso distorto della discrezionalità» …”.

(…)

Corte Costituzionale, febbraio 2006
presidente Annibale Marini

– – – –

Il testo integrale della relazione del presidente Annibale Marini, pubblicata
sul sito della Corte Costituzionale (www.cortecostituzionale.it), è reperibile
all’url www.cortecostituzionale.it/ita/attivitacorte/relazioniannualideipresidenti/2005/relazione_marini.asp

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