lavoro numero 4774/2006, in materia di mobbing, ha chiarito che non occorre
una specifica inadempienza
contrattuale
o
una
violazione di norme a tutela del lavoratore subordinato. Il mobbing sussiste
semplicemente se la condotta del datore
di lavoro ha assunto nel tempo sufficiente idoneità offensiva, e di
natura vessatoria tale da comportare una lesione dell’integrità fisica
e della personalità morale del lavoratore.
La Cassazione fa a tal fine riferimento all’articolo 2087 del Codice
civile, laddove vincola l’imprenditore ad adottare tutte
le misure che, secondo la particolarità della
prestazione, sono idonee a rispondere all’obbligo di sicurezza delle
condizioni di lavoro.
Occorre dunque riscontrarsi una "condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche
della
persecuzione
finalizzata all’emarginazione del dipendente",
e la stessa può realizzarsi con "comportamenti
datoriali, materiali o provvedimentali", indipendentemente dall’inadempimento
di specifichi
obblighi
contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato.
Occorrerà valutare, per riscontrare la sussistenza della lesione
del
bene
protetto
e le sue conseguenze -gli episodi dedotti in giudizio come lesivi- considerando
l’idoneità offensiva
della condotta, che potrà essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di "persecuzione
e discriminazione", risultanti specificamente da una connotazione "emulativa
e
pretestuosa" (nella specie, i comportamenti datoriali erano consistiti in
provvedimenti
di trasferimento, ripetute visite mediche fiscali nell’arco di dieci mesi,
attribuzione di note di qualifica di insufficiente, irrogazione di sanzioni disciplinari,
privazione della abilitazione necessaria per operare al terminale).
. . . . .
Corte di Cassazione,
Sezione Lavoro
Sentenza n. 4774 del 6 marzo 2006
(presidente Mercurio, estensore Miani Canevari)
(…)
Svolgimento del processo
M.M., dipendente della S.p.a. Cassamarca, ha convenuto in
giudizio la società datrice di lavoro chiedendo il risarcimento dei
danni derivati- con l’instaurarsi di una malattia invalidante- da un serie
di comportamenti persecutori, ricondotti ad un’ipotesi di mobbing, posti
in atto dalla società fin dal 1992, consistiti in provvedimenti di
trasferimento, ripetute visite mediche fiscali, attribuzione di note di qualifica
di insufficiente, irrogazione di sanzioni disciplinari, privazione della
abilitazione necessaria per operare al terminale ed altri episodi.
Il giudice adito rigettava la domanda, con decisione che, su impugnazione
dell’attore soccombente, ricostituitosi il contraddittorio con la S.p.a.
Unicredito (incorporante la S.p.a. Cassamarca), la Corte di Appello di Venezia
confermava con la sentenza oggi impugnata. Il giudice dell’appello, esaminando
i vari episodi della vicenda dedotta in giudizio, escludeva la configurabilità nel
caso di specie di una condotta aziendale protratta nel tempo caratterizzata
da intenti persecutori e finalizzata all’emarginazione del lavoratore.
Avverso questa sentenza il M. propone ricorso per cassazione affidato
a tre motivi, al quale la S.p.a. Unicredito resiste con contro ricorso.
Motivi della decisione
1. I tre motivi, che contengono tutti la denuncia di vizi della motivazione,
sotto vari profili, della sentenza impugnata,
possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione.
Un primo aspetto riguarda la dedotta omessa valutazione complessiva degli
episodi posti a fondamento della pretesa azionata, che dovevano essere considerati
nell’ambito del fenomeno del mobbing (anche se corrispondenti singolarmente
e astrattamente a comportamenti leciti del datore di lavoro) in quanto diretti
a cagionare nel dipendente turbamenti psicologici e disturbi di salute.
1.1. Secondo l’assunto della parte, le azioni vessatorie si sono concretate
in particolare:
1.1. 1. in un provvedimento di trasferimento dall ‘unità produttiva
(che risale al 1992, e di cui è stata accertata con sentenza definitiva
l’illegittimità);
1.1.2. in errori ed abusi dell’amministrazione aziendale, identificati in
una serie di cinque visite di accertamento della idoneità fisica nell’
arco di dieci mesi (nel periodo tra il 1993 e il 1994);
1.1.3. nella privazione dell’abilitazione all’uso del terminale sul posto
di lavoro;
1.1,4. nella irrogazione di una sanzione disciplinare nel novembre del 1994;
1.1.5. nell’attribuzione della nota di qualifica di «insufficiente» .
1.2. Si imputa poi alla Corte territoriale di non aver riconosciuto il valore
dei singoli episodi e la loro appartenenza ad
un medesimo progetto aziendale mirato al progressivo allontanamento e isolamento
del M..
1.2.1.Quanto al trasferimento del 1992, si osserva che nella relativa controversia
promossa dal lavoratore la sentenza di appello aveva ritenuto fondata la
censura relativa all’insussistenza di ragioni giustificatrici del provvedimento,
e che la Corte di Cassazione adita dal datore di lavoro aveva confermato
l’illegittimità del trasferimento a causa della mancata comunicazione
scritta dei motivi.
1.2.2. Con riguardo alle visite fiscali, il giudice dell’appello ha confuso
quelle effettuate per il controllo delle assenze con quelle disposte per
l’accertamento dell’idoneità fisica; queste ultime risultavano chiaramente
ispirate da un intento persecutorio e non potevano trovare giustificazione
nelle assenze per la medesima malattia, anche perché le visite avevano
sempre avuto risultati positivi; e le stesse considerazioni valevano per
il controllo delle assenze, disposto ripetutamente per la stessa malattia
già accertata.
1.2.3. In ordine alle limitazioni dell’attività lavorativa, disposte
dopo il rientro in servizio nel 1997, con la sottrazione delle abilitazioni
all’accesso dei terminali, le circostanze dedotte dall’attore in primo grado
erano state confermate dai testi escussi.
1.2.4. La sanzione disciplinare del 1994, di cui è stata riconosciuta
l’illegittimità, è stata poi considerata dalla sentenza impugnata
come un «episodio isolato», senza una valutazione
complessiva della vicenda, con l’affermazione contraddittoria ed incomprensibile
secondo cui «l’illegittimità di un comportamento datoriale non
integra un atto di mobbing ».
1.3. Sotto un ultimo profilo si denuncia l’omesso esame di «molti altri
episodi riportati nell’atto d’appello», di cui viene riproposto un
elenco.
2.1. Le censure non meritano accoglimento. In primo luogo si osserva che
la Corte territoriale ha esaminato le doglianze dell’appellante seguendo
la sua prospettazione di una fattispecie di danno derivante da una condotta
del datore di lavoro protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione,
finalizzata all’emarginazione del lavoratore. In questa ottica, ha condiviso
l’affermazione dell’esigenza di una valutazione complessiva degli episodi
dedotti in giudizio, che non risulta contraddetta dal risultato dell’indagine,
fondata sull’analisi dei singoli comportamenti del dato re di lavoro di cui
si deduce il carattere lesivo.
Le circostanze esaminate acquistano rilevanza ai fini dell’accertamento
di una condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue
caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la
personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art.2087
cod.civ.; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza
posto da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare
con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente
dall’inadempimento di
specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di
lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze
dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta
del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione
e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa
e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di
tutela del lavoratore subordinato.
3.0. Tali criteri sono stati seguiti dalla sentenza impugnata, che ha escluso,
con congrua motivazione, la configurabilità di un disegno persecutorio
realizzato mediante i vari comportamenti indicati dal M..
3.1. Con riguardo al provvedimento di cui al punto 1.1.1., risulta dalle
allegazioni della parte che nel precedente giudizio tra le parti fu definitivamente
accertata
l’illegittimità del trasferimento per la mancata comunicazione dei
motivi che giustificavano lo spostamento dal luogo di lavoro. Nulla è stato
dedotto dal ricorrente in ordine agli elementi probatori acquisiti in quel
procedimento, e riproposti a sostegno della domanda azionata nel presente
giudizio, che avrebbero potuto dimostrare il carattere persecutorio -nei
termini sopra indicati-dell’azione del dato re di lavoro.
3.2. Quanto alle visite mediche eseguite su richiesta dell’azienda, non viene
chiarita in fatto la rilevanza, ai fini
dell’indagine, della mancata distinzione tra i controlli della idoneità fisica
e i controlli delle assenze. In proposito il giudice di merito ha ritenuto
giustificabili questi interventi in considerazione del loro compimento durante
una prolungata assenza per malattia (per oltre duecento giorni): tale apprezzamento
di fatto non viene criticato con l’indicazione di precise circostanze non
esaminate, idonee a dimostrare -anche sotto questo profilo- il carattere
vessatorio dell’iniziativa del datore di lavoro.
3.3. Analoghi rilievi valgono per la vicenda della mancata abilitazione all’accesso
ai terminali, che la Corte territoriale
-condividendo la valutazione espressa dal primo giudice, non censurata con
specifici motivi di gravame- ha ricondotto a problemi di continuità di
inserimento del dipendente nell’ attività di aggiornamento dei dati.
Anche su questo punto non vengono precisati difetti di indagine.
3.4. Quanto alla sanzione disciplinare del 1994 (annullata dal Collegio di
conciliazione e arbitrato) la valutazione espressa dalla Corte territoriale
sfugge alle critiche mosse, non potendosi
ravvisare alcuna contraddizione tra il riconoscimento della
illegittimità del provvedimento e la negazione della possibilità di
iscrivere tale episodio in un disegno persecutorio, sulla base di un apprezzamento
delle concrete circostanze di fatto.
3.5. La censura di cui al punto 1.3. appare inammissibile. Il giudice dell’appello
ha osservato che con riferimento a diversi
episodi considerati nella decisione di. primo grado non erano stati
proposti specifici motivi d’impugnazione: questo giudizio
sulla
‘"preclusione di un riesame delle relative circostanze non viene
censurato dalla parte, né è dato verificare se i fatti descritti
nel ricorso, per i quali si lamenta oggi un difetto di indagine (una sanzione
disciplinare dell’anno 2000, la richiesta di un caposervizio di un controllo
delle attività del M., la «costrizione nel 1999 a prendere
un periodo di ferie», la «necessità di ricorrere ad un permesso
per recarsi a testimoniare») coincidano con quelli di cui si è ritenuto
precluso il riesame.
In violazione del principio di autosufficienza del ricorso, l’attuale ricorrente
si è del resto limitato ad elencare sommariamente i vari episodi, senza
indicare gli specifici elementi di fatto rilevanti per l’indagine richiesta
al giudice di appello, così da consentire a questa Corte il controllo
della decisività delle risultanze non valutate.
Il ricorso deve essere quindi respinto con la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese
del giudizio.