La tutela dei “centri storici” deve prescindere dal carattere eccelso
dei
medesimi.
Così il Consiglio di Giustizia Amministrativa commenta la
normativa sui centri storici, chiarendo che, dal 1967 in poi, essa tende non
alla tutela
puntiforme
di singole “cose d’arte” (con la sola eccezione del “vincolo
indiretto”), ma a "conservare e tramandare nella loro integrità interi
complessi urbanistici-architettonici, che – in quanto prodotti irripetibili di
un ciclo economico e sociale ormai chiuso – assumono il valore di beni culturali
a tutti gli effetti (‘beni culturali urbanistici’)".
Assume dunque rilievo, "più che il valore dei ‘singoli’ manufatti
architettonici,
la completezza dell’insieme, e quindi : l’assetto
viario preesistente, le altezze, i caratteri figurativi degli edifici, e soprattutto
le sapienti ‘gerarchie’ di volumi e di altezze tra edifici religiosi,
civili e di comune fruizione abitativa, che costituiscono la vera insuperata
essenza dell’urbanistica degli ‘antichi’ ivi compresa quella
contadina".
In conclusione, non è possibile uniformare l’altezza della “edilizia
abitativa” non monumentale
a quella delle “emergenze architettoniche”, perchè "il mantenimento
dei delicatissimi
rapporti tra l’edilizia minore e quella monumentale-celebrativa (destinata
al culto, alla polis, alle manifestazioni artistiche, alla memoria collettiva),
costituisce l’aspetto essenziale e irrinunciabile della tutela dei centri
storici".
Se invece fosse possibile parametrare l’altezza della
edilizia
abitativa a quella dei c.d. edifici storici, "si comprometterebbe inevitabilmente
(sino a cancellarlo del tutto) il volto della gran parte delle città e
dei centri minori del nostro Paese, caratterizzati (quasi sempre) dalla presenza – proprio
nelle zone A – di edifici monumentali, di torri e campanili".
. . . .
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale
22 marzo 2006 n. 107
(presidente Virgilio, estensore Salvia)
Conferma TAR Catania, I, n. 1038 del 1 luglio 2003
(…)
DIRITTO
Il problema fondamentale posto all’attenzione del giudice è quello
della determinazione del limite massimo di altezza da osservare nella zona oggetto
della concessione edilizia in discussione (Zona A).
L’appellante ritiene
che l’Amministrazione comunale, nell’annullare il provvedimento tacito
di assenso alla variante, sarebbe incorsa in errore. L’errore consisterebbe
essenzialmente nell’aver “scambiato una clausola della concessione
originaria (la clausola che impone un limite di altezza di 9,50 mt.), con la
regola da applicare alla concessione in variante”. Quest’ultima –
a giudizio del medesimo – andrebbe rintracciata direttamente nell’art.
4 delle N.A. dello strumento urbanistico, secondo il quale “l’altezza
degli edifici non deve superare quella degli edifici circostanti di carattere
storico-artistico”. Ora – deduce l’appellante – che poiché nel
caso in esame il limite di mt. 9,50 (prescritto dalla C.E.C)., non è stato
determinato sulla base degli edifici storico-artistici circostanti, ma sulla
base di quelli residenziali vicini (non aventi tale carattere), il provvedimento
di annullamento sarebbe irrimediabilmente viziato.
A giudizio di questo Collegio, tale tesi (anche se a prima vista suggestiva),
mostra numerosi punti deboli.
A) Il primo di essi emerge dalla singolarità della vicenda: e in particolare
dal fatto che nella zona interessata mancano – a quanto sembra – “edifici
storico-artistici”.
Tale circostanza – facendo venir meno qualsiasi parametro
legale per le altezze – finirebbe paradossalmente per liberalizzare l’attività edilizia
nella predetta zona A (la parte urbanisticamente più delicata del territorio
comunale), con la conseguenza che tutti i proprietari di immobili nel centro
storico, potrebbero, sulla scia dell’appellante, chiedere e ottenere “varianti” per
proiettare in altezza i propri edifici, senza limiti di sorta, se non quelli
tecnici della statica.
Una conclusione – com’è palese – discutibile
sia sul piano giuridico che su quello urbanistico, perché da sempre le
amministrazioni comunali hanno ritenuto di dover dettare prescrizioni sulle altezze
(con la sola infelice esperienza degli anni ’50 e ’60, in cui prevalsero
le astratte cubature). L’appellante sembra invero avvertire il peso di
questa possibile obiezione e nel tentativo di superarla cerca di ricavare il
limite di altezza della zona in discussione dagli edifici storici ubicati altrove,
e precisamente: dal Convento di S. Francesco di mt. 17 (ubicato però a
una certa distanza dall’edificio in discussione) e dalla più vicina
Chiesa di S. Michele di mt. 15,54 (che presenta però la controindicazione
di essere munita di torre campanaria).
B) Ma la possibilità di poter esportare parametri edilizi da una zona
all’altra della città in virtù di procedimenti analogici
astratti di stampo essenzialmente giuridico, appare ancor più azzardata.
E di ciò sembra consapevole lo stesso ricorrente, il quale non a caso,
tiene a sottolineare che l’indicazione dei due predetti edifici quali possibili
parametri per le altezze (il Convento di S. Francesco e la Chiesa di S. Michele)
non nasce in realtà da una scelta arbitraria del medesimo, ma da un tentativo
del Comune (sembrerebbe poi abbandonato) di colmare per questa via quella che
in un primo momento appariva allo stesso una lacuna della normativa regolamentare.
Ma, a parte tutto ciò, il limite più grave della tesi in argomento
sembra essere quello di porsi in irrimediabile antinomia con lo spirito complessivo
che anima l’intera normativa sui centri storici, quale si è andata
consolidando dal 1967 a oggi, anche sotto l’impulso della legislazione
regionale (l. n. 765/1967; l.r. n. 71/1978).
Al riguardo sembra opportuno sottolineare
che mentre la tradizionale legislazione sui beni culturali (coniata secondo i
canoni estetici degli anni ’30) tendeva essenzialmente ad una tutela puntiforme
delle c.d. “cose d’arte” (con la sola apertura del “vincolo
indiretto”), viceversa la successiva e più evoluta normativa sui “centri
storici” tende a conservare e tramandare nella loro integrità interi
complessi urbanistici-architettonici, che – in quanto prodotti irripetibili di
un ciclo economico e sociale ormai chiuso – assumono il valore di beni culturali
a tutti gli effetti (“beni culturali urbanistici”).
L’originalità più rilevante di tale impostazione legislativa
sta nel fatto che la tutela dei “centri storici” (come anche dei
minori “agglomerati storici”), prescinde dal carattere eccelso dei
medesimi.
Più che il valore dei “singoli” manufatti architettonici,
assume in essi rilievo la completezza dell’insieme, e quindi : l’assetto
viario preesistente, le altezze, i caratteri figurativi degli edifici, e soprattutto
le sapienti “gerarchie” di volumi e di altezze tra edifici religiosi,
civili e di comune fruizione abitativa, che costituiscono la vera insuperata
essenza dell’urbanistica degli “antichi” ivi compresa quella
contadina.
Alla luce di queste considerazioni appare del tutto evidente come la pretesa
di uniformare l’altezza della “edilizia abitativa” non monumentale
a quella delle “emergenze architettoniche” si pone in insanabile
contrasto con la lettera e lo spirito della anzidetta normativa, che assume invece
come parametro fondamentale per tutti i nuovi interventi quello dell’adeguamento
alle “preesistenze” (art. 55 l.r. n. 71/1978), non certamente quello
dell’azzeramento delle “gerarchie”.
Il mantenimento dei delicatissimi
rapporti tra l’edilizia minore e quella monumentale-celebrativa (destinata
al culto, alla polis, alle manifestazioni artistiche, alla memoria collettiva),
costituisce l’aspetto essenziale e irrinunciabile della tutela dei centri
storici.
Se effettivamente fosse possibile parametrare l’altezza della
edilizia abitativa a quella dei c.d. edifici storici, si comprometterebbe inevitabilmente
(sino a cancellarlo del tutto) il volto della gran parte delle città e
dei centri minori del nostro Paese, caratterizzati (quasi sempre) dalla presenza – proprio
nelle zone A – di edifici monumentali, di torri e campanili.
C) Rimane da affrontare un ultimo problema: quello del significato da attribuire
all’espressione “edifici storici” dell’art. 4 N.A. del
piano regolatore.
A giudizio di questo Collegio, ai fini di una interpretazione conforme al sistema,
non rimane che una possibilità: quella di intendere tale espressione non
nel senso del linguaggio comune (vale a dire di “edifici eccelsi”),
ma nel senso di “edifici risalenti nel tempo” e quindi – sotto questo
profilo – “storici”. Una interpretazione a ben vedere conforme a
quella basilare contenuta nell’art. 8 del D.M. 2.4.1968, n. 3519 proprio
in relazione alle altezze degli edifici nelle zone A. In tale articolo si precisa
appunto che nelle operazioni di risanamento in detti ambiti territoriali “non è consentito
superare le altezze degli edifici preesistenti”, da computare – aggiunge
il decreto – “senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni
aggiunte alle antiche strutture”.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale,
definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe e per l’effetto
respinge anche il ricorso di primo grado. Compensa le spese tra le parti.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Depositata in segreteria il 22 marzo 2006