Dalla relazione introduttiva di Mario Arosio, presidente del TAR Liguria, in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario 2006, riportiamo i passi relativi all’analisi dell’attività giurisprudenziale svolta nell’anno 2005 dalle due sezioni del TAR ligure:
(…)
“Una tematica che spesso ricorre in più di una decisione è quella attinente all’esatta delimitazione dei confini esistenti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione del giudice amministrativo.
Sul punto il T.A.R. per la Liguria ha avuto modo di sottolineare che quando sia in discussione l’organizzazione del servizio pubblico attuata con atti o provvedimenti amministrativi, e con essa sia in discussione la legittimità del sistema di gestione, come nel caso dell’organizzazione del servizio idrico integrato, entrano in gioco interessi devoluti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (sez. I, 27 gennaio 2005, n. 113).
E’ stata data applicazione al criterio generale secondo cui la distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivi va correttamente effettuata con riferimento alla finalità perseguita dalla norma alla quale l’atto si collega, pertanto a fronte della tutela accordata dall’ordinamento all’interesse pubblico, consegue che alle posizioni sostanziali dei privati non può che essere riconosciuta una protezione indiretta che passa necessariamente attraverso l’attività dell’amministrazione, siccome ontologicamente preposta alla cura di detto interesse.
Da tali premesse discende che rientra nella giurisdizione amministrativa la controversia vertente sulla designazione dei soggetti che debbono attuare gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, per realizzare il programma Quadriennale Regionale per l’edilizia convenzionata-agevolata.
Va osservato, infatti, che la normativa applicabile nel caso di specie non pone a carico dell’amministrazione obblighi rivolti a tutelare in via diretta ed esclusiva singoli interessi individuali, ma persegue finalità di ordine generale volte a dare effettività ai principi costituzionali della pari dignità e dell’eguaglianza sostanziale, consentendo l’accesso alla prima casa da parte dei cittadini che versino in particolari situazioni economico-sociali (sez. I, 16 febbraio 2005, n. 220).
In tema di gare di appalto è stato affermato che le controversie concernenti la validità e l’efficacia di un contratto stipulato a seguito di aggiudicazione di una gara d’appalto, che sia stata poi annullata, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così come prevista dall’art. 6 l. n. 205 del 2000, con la conseguente possibilità di pronunciare le relative statuizioni costitutive, restando escluse le sole controversie aventi per oggetto la fase di mera esecuzione del contratto (sez. II, 23 giugno 2005 n. 940).
Un’importante incidenza in tema di determinazione dell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ha avuto, come si è già osservato, la sentenza della Corte Costituzionale n. 204/2004 che, riscrivendo gli artt. 33 e 34 d.lgs. 80/98 come sostituiti dalla l. 205/2000, ha significativamente ristretto l’ambito della nostra giurisdizione esclusiva.
Sulla base di tale nuovo assetto il Tribunale ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo relativamente a rapporti patrimoniali derivanti da convenzione tra ente pubblico e gestore di pubblico servizio, mentre ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo ogni qual volta il rapporto fosse mediato da un provvedimento concessorio, restando escluse le sole controversie relativi ai canoni indennità ed altri corrispettivi secondo quanto statuito dalla Corte Costituzionale.
In particolare é stato affermato, sotto un profilo meramente processuale, che il principio della perpetuatio iurisdictionis enunciato dall’art 5 c.p.c. non opera quando la norma che detta i criteri determinativi della giurisdizione venga successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima, in quanto l’efficacia retroattiva che assiste tale tipo di pronunce della Corte costituzionale preclude che la norma dichiarata illegittima possa essere assunta a canone di validazione di situazioni o di rapporti anteriori alla pubblicazione della pronuncia di incostituzionalità, salvo il limite dei rapporti esauriti al momento della pubblicazione della sentenza (sez. II, 10 gennaio 2005 n. 2).
Con riferimento alla determinazione del nuovo ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a seguito alla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, di particolare interesse appare la pronuncia (sez. II, 27 maggio 2005 n. 737) che chiarisce la natura eccezionale e conseguentemente il divieto di analogia nell’individuazione delle ipotesi derogatorie (canoni, indennità ed altri corrispettivi) alla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di concessioni.
In essa è precisato che, nel contesto della generale attribuzione delle controversie relative alle concessioni di pubblici servizi al giudice amministrativo, l’esclusione delle controversie per indennità canoni o altri corrispettivi e la loro conseguente attribuzione alla giurisdizione del giudice ordinario costituisce una norma che facendo eccezione ad un’altra non può, ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c.c., trovare applicazione fuori dei casi espressamente considerati.
Sulla base di tali presupposti è stato affermato che sussiste la giurisdizione amministrativa relativamente alla controversia concernente l’accertamento dell’eventuale inadempimento dell’amministrazione ad una convenzione attuativa di una concessione di servizi pubblici (sez. II, 27 maggio 2005 n. 737).
Nel merito è stato rilevato che a fronte di obblighi facenti capo all’amministrazione sulla base di una concessione di pubblici servizi, in assenza di positivi riscontri da parte dell’amministrazione stessa, il soggetto interessato è tenuto ad agire alternativamente con lo strumento del silenzio inadempimento ovvero dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre ex art. 2932 c.c. ma in assenza di tale tempestiva attivazione non può dopo dolersi e pretendere il risarcimento dei danni derivanti dalla mancata realizzazione di opere che non sono mai state approvate (sez. II, 27 maggio 2005 n. 737).
Ancora in tema di giurisdizione il Tribunale ha escluso che l’azione di indebito arricchimento possa rientrare nella giurisdizione amministrativa esclusiva come risultante dalla già citata pronuncia della Corte costituzionale.
La domanda di azione di arricchimento senza causa ai sensi dell’art. 2041 c.c., in assenza di un rapporto concessorio tra i due soggetti, ed anzi in dichiarata assenza di qualsivoglia rapporto tra gli stessi, non può essere devoluta alla giurisdizione esclusiva del g.a. ma deve essere devoluta alla giurisdizione ordinaria secondo il normale criterio di riparto fondato sulla posizione giuridica fatta valere in giudizio (sez. II, 10 giugno 2005 n. 883).
Appartiene alla cognizione del giudice amministrativo l’impugnazione della serie procedimentale culminata con l’autorizzazione ministeriale alla vendita dei beni dell’impresa insolvente, le posizioni soggettive ivi coinvolte non potendo essere qualificate che in termini di interesse legittimo (sez. II, 25 maggio 2005 n. 215).
Questo principio è stato enucleato all’interno di una vicenda in cui si aveva la vendita di beni di un’impresa in crisi, vendita disciplinata dal d.lgs. n. 270 del 1999, in questo caso è stato ritenuto che, pur riconoscendo all’azione della p. a., la necessaria flessibilità, ove la stessa prescelga un modello comunque ispirato alle regole della gara ad evidenza pubblica, questa opzione procedurale comporta che siano poi osservati i fondamentali principi di trasparenza e di par condicio fra i concorrenti, ai quali la p.a. deve ritenersi autovincolata (sez. II, 25 maggio 2005 n. 215).
Un discorso a parte merita il problema della giurisdizione con riferimento alla materia del pubblico impiego.
Qui, conformandosi all’indirizzo delle Sezioni Unite della Cassazione del 15 ottobre 2003, n. 15403 si è ribadito che sussiste la giurisdizione amministrativa, in base al comma 4 dell’art. 63, d.lg. n. 165 del 2001 non solo in tema di procedure concorsuali strumentali alla costituzione iniziale del rapporto di lavoro, ma anche in tema di concorsi interni cioè di prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area funzionale superiore, con la conseguenza che dette controversie devono seguire la regola della giurisdizione amministrativa (sez. I, 17 maggio 2005, n. 674).
Si è, inoltre, confermata la sussistenza della giurisdizione ordinaria in tema di conferimenti di incarichi dirigenziali, riaffermando l’estraneità alla giurisdizione amministrativa delle controversie in tema di conferimento di incarichi dirigenziali al personale medico, trattandosi di materia appartenente alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 29 del 1993, come successivamente modificato, ed ora riprodotto dall’art. 68, d.lgs. n. 165 del 2001.
Questo indirizzo si basa sul rilievo che il conferimento di incarico dirigenziale costituisce esercizio di un potere privato, perché presuppone già compiute a monte dai competenti organi di indirizzo le scelte organizzative di tipo strutturale, identificative dell’ufficio alla cui copertura il conferimento stesso è destinato.
Inoltre l’attuale sistema consente di realizzare il risultato che sia un solo giudice ad occuparsi dell’intera e unitaria controversia che può coinvolgere, insieme, l’atto amministrativo presupposto e l’atto applicativo di organizzazione e gestione dei rapporti di lavoro; a tal fine il controllo è stato accentrato presso il giudice ordinario, utilizzando lo strumento processuale della cognizione incidentale, senza effetti di giudicato, dell’atto amministrativo (per le tre massime: sez. II, 21 marzo 2005 n. 378).
Sempre in tema di pubblico impiego, si è affermato che per radicare la giurisdizione ordinaria, il giudizio deve riguardare il contratto ed il rapporto che ne è nato, dal momento che, ove la controversia non assumesse a suo oggetto il contratto e le fonti che disciplinano il rapporto di lavoro, bensì, in via diretta, l’organizzazione amministrativa o il potere provvedimentale, essa rientrerebbe nella giurisdizione amministrativa.
In altre parole la giurisdizione del giudice ordinario sussiste ogniqualvolta la domanda introduttiva del giudizio rechi un petitum sostanziale che si identifichi col rapporto di lavoro, non rilevando in contrario che la prospettazione del ricorso sia espressa in termini impugnatori nei confronti di atti presupposti, (d’altro canto è lo stesso comma primo del citato art. 63 d.lgs. n. 29 del 1993 a prevedere espressamente che la giurisdizione ordinaria non sia impedita dalla circostanza che “vengano in questione atti amministrativi presupposti”) (sez. II, 17 marzo 2005 n. 361).
Ancora in tema di giurisdizione in relazione al pubblico impiego, una questione interessante è quella riferita alle domande di risarcimento.
Il discrimen è stato individuato nella sussistenza, da un lato, di una responsabilità extracontrattuale della p.a.(che comporta la giurisdizione del g.o.) ovvero, dall’altro lato, nella sussistenza di una responsabilità contrattuale (che comporta la giurisdizione del g.a.).
Si è così specificato che tutte le volte in cui la richiesta risarcitoria del pubblico dipendente non si riconnetta ad una specifica inosservanza di una obbligazione contrattuale, ma si riferisca alla violazione di norme di prudenza, diligenza e perizia in rapporto alla tutela di diritti assoluti come quelli alla vita e all’integrità fisica e, dunque, assume il carattere proprio della fattispecie aquiliana, invocandosi la responsabilità extracontrattuale della p.a. sussiste la giurisdizione ordinaria (sez. II, 21 febbraio 2005 n. 272).
Sulla linea di confine temporale, riferita al momento in cui la giurisdizione in relazione al pubblico impiego è passata dal giudice amministrativo al giudice ordinario, è stato rilevato che va dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il ricorso relativo ad una controversia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni depositato presso la segreteria del g.a. oltre il termine di decadenza per la proposizione fissato dall’art. 45 comma 17 d.lg. n. 80 del 1998 (ora trasposto nell’art. 69 comma 7 d.lg. n. 165 del 2001) nella data del 15 settembre 2000, dovendo considerarsi instaurato il rapporto processuale solo all’esito dell’adempimento dell’onere del deposito, ed invero, non è sufficiente il completamento entro detto termine della sola procedura di notifica perché tale norma ha natura meramente processuale e non comporta alcuna decadenza della suddetta tutela, incidendo solo sulla ripartizione delle attribuzioni giurisdizionali, come emerge evidente dallo stesso tenore letterale del secondo inciso dell’art. 69 comma 7 in esame (sez. II, 14 gennaio 2005 n. 43).
Una questione peculiare in cui è stata negata la giurisdizione si è avuta a fronte di un ricorso proposto da un Comitato promotore di un referendum, al quale è stata riconosciuta la posizione diritto soggettivo pubblico.
Infatti, il Comitato promotore di un referendum agisce nell’ambito del relativo procedimento in una posizione di perfetta parità con l’organo dell’ente territoriale (Regione, Comune, Provincia) costituito per il controllo della legittimità (e, quindi, dell’ammissibilità) della richiesta abrogativa. In tal modo l’organo di controllo opera non a tutela di uno specifico interesse dell’amministrazione pubblica, ma (al pari dello stesso Comitato promotore) per l’attuazione dell’ordinamento.
Poiché il diritto soggettivo pubblico dei promotori può essere affermato o negato, ma non degradato né inciso da un atto amministrativo adottato dall’organo preposto al controllo, la cognizione della domanda diretta alla tutela della posizione soggettiva del Comitato (ed anche della controversia relativa all’ammissibilità di un quesito referendario) appartiene alla giurisdizione del g.o. (sez. II, 27 maggio 2005 n. 723).
Sempre in materia processuale un’interessante sentenza in tema di interesse a ricorrere in materia edilizia è quella con cui è stato affermato che i ricorrenti proprietari di un compendio immobiliare posto a confine con il fabbricato della parte alla quale è stata rilasciata una concessione edilizia per la ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso, ed aumento di unità immobiliari destinate alla residenza in una zona sottoposta a vincolo ambientale, sono pienamente legittimati a sindacare la validità della concessione stessa, atteso che il relativo intervento incide in modo apprezzabile sull’assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona, e quindi implicitamente anche sugli interessi dei soggetti a questa collegati in modo stabile e concreto. (sez. I, 17 maggio 2005, n. 670).
Un tema processuale molto trattato è quello della natura del ricorso incidentale (istituto di frequente applicazione nelle controversie in materia di appalti).
Sul punto si è ribadito che, nel caso in cui venga proposto un ricorso incidentale tendente a paralizzare l’azione principale per ragioni di ordine processuale, il giudice è tenuto a dare la precedenza alle questioni sollevate dal ricorrente incidentale nella misura in cui le stesse abbiano priorità logica su quelle sollevate dal ricorrente principale, e tali sono le questioni che si riverberano sull’esistenza dell’interesse a ricorrere del ricorrente principale perché esse, pur profilandosi come questioni di merito, producono effetti sull’esistenza di una condizione dell’azione e quindi su una questione di rito (sez. II, 4 febbraio 2005 n. 157; sez. I, 29 aprile 2005, n. 562 e n. 563; sez. II, 25 maggio 2005 n. 215).
Inoltre è stato chiarito che la deroga alla regola del dimezzamento dei termini prevista dall’art. 23 bis l. n. 1034 del 1971 per la proposizione del ricorso principale trova applicazione, pena in caso diverso la sua incostituzionalità, anche per il ricorso incidentale, trattandosi nell’uno e nell’altro caso di posizioni di contestazione del provvedimento, o in secondo grado della sentenza, che vanno tutelate in maniera omogenea (sez. I, 29 aprile 2005, n. 563).
Ancora in campo processuale va segnalato il frequente ricorso all’istituto dei motivi aggiunti in corso di causa, proponibili, ai sensi della l. 21 luglio 2000 n. 205, contro atti diversi da quello originariamente gravato, soluzione che risponde ad evidenti ragioni di economia processuale. (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562) e proponibili anche nei confronti dei provvedimenti inizialmente impugnati, purché ovviamente sia rispettato il termine per ricorrere. E’ stato, infatti, rilevato che il principio della immutabilità del “thema decidendum”, connesso a quello della perentorietà del termine per l’impugnazione degli atti amministrativi, non esclude che, dopo la notifica del ricorso avverso un provvedimento, sia possibile proporre nuovi motivi, che, costituendo semplicemente un’ulteriore manifestazione del potere di ricorso originario, sono deducibili entro il termine decadenziale originario (sez. II, 23 giugno 2005 n. 940).
E’ appena il caso di rilevare che l’uso dell’istituto dei motivi aggiunti in corso di causa, contro atti diversi da quelli originariamente gravati produce un significativo aumento del dato del contenzioso, non riscontrabile attraverso il mero esame del numero complessivo dei ricorsi proposti.
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Passiamo ora ad alcuni cenni relativi alle questioni di merito delle principali materie di cui si è occupato il Tribunale,
( … )
Il primo posto per importanza e complessità va assegnato alla materia degli appalti( … )
Una prima tematica affrontata da entrambe le sezioni è stata quella dei rapporti tra aggiudicazione provvisoria ed aggiudicazione definitiva.
Del tutto condiviso è il principio che l’impugnazione proposta avverso l’aggiudicazione provvisoria non può considerarsi estesa all’aggiudicazione definitiva in virtù della formulazione delle conclusioni dell’atto introduttivo (ipoteticamente riferite anche alla “eventuale aggiudicazione definitiva”), quando trattasi di atto giuridicamente inesistente al momento della proposizione del ricorso, che per tale aspetto deve essere dichiarato inammissibile (sez. II, 14 aprile 2005 n. 497).
Pertanto la sopravvenienza dell’aggiudicazione definitiva determina, in assenza di una sua espressa impugnazione, l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse, quanto all’impugnativa del provvedimento di esclusione della società ricorrente e di contestuale aggiudicazione provvisoria dell’appalto alla controinteressata (sez. II, 14 aprile 2005 n. 497).
In senso sostanzialmente identico si è affermato che in tema di impugnativa delle gare d’appalto il soggetto non aggiudicatario di un contratto della p.a. non ha l’onere ma la mera facoltà di impugnare immediatamente l’aggiudicazione provvisoria; infatti l’aggiudicazione definitiva non è atto meramente confermativo o esecutivo, ma provvedimento che, anche quando recepisce integralmente i risultati dell’aggiudicazione provvisoria, comporta comunque una nuova e autonoma valutazione rispetto alla stessa, pur facendo parte della medesima sequenza procedimentale, l’aggiudicazione definitiva necessita sempre di impugnazione autonoma, anche se è già stata impugnata quella provvisoria (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562).
In tema di modalità di svolgimento delle gare d’appalto, è stato affermato che le eventuali carenze di natura meramente formale non possono portare all’esclusione in assenza di specifica ed espressa previsione della lex specialis di gara o di norme inderogabili, o comunque laddove non rispondano (secondo il prudente apprezzamento del giudice) ad un particolare interesse dell’amministrazione e non siano dirette a garantire la parità dei concorrenti, dovendo tra l’altro prevalere al riguardo il principio generale del favor partecipationis (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562).
E’ stato inoltre precisato che le operazioni delle commissioni di gara di appalto devono essere svolte dal “plenum” e non possono essere delegate a singoli membri o a sottocommissioni per quel che riguarda le attività propriamente valutative (quale la valutazione delle offerte), potendosi consentire la deroga al principio di collegialità per le attività preparatorie, istruttorie o strumentali vincolate, fermo restando che restano riservate all’intero collegio le attività implicanti valutazioni di carattere tecnico-discrezionale (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562).
Il tema dell’onere di impugnare (o meno) immediatamente il bando è stato risolto nel senso di precisare, conformemente alle statuizioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio Stato 29 gennaio 2003, n. 1, che detto onere sussiste solo per le clausole che comportano l’automatica esclusione dalla gara, mentre tutte le altre vanno impugnate insieme con l’aggiudicazione, dal momento che, solo in caso d’aggiudicazione ad altro concorrente, sorge l’interesse del concorrente non aggiudicatario ad impugnare il bando nonché gli altri atti della procedura (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562).
Interessante per avere tratteggiato i confini tra appalto di forniture e appalto di servizi è la decisione sez. I, 29 aprile 2005, n. 563, secondo cui costituisce contratto di somministrazione ai sensi dell’art. 1559 del codice civile (e, quindi, appalto di forniture) e non appalto di servizi, la richiesta, da parte di un comune ad un’impresa di fornire un determinato numero di pasti (con prezzo a base d’asta ragguagliato al costo unitario per pasto) preparati quotidianamente presso le cucine dell’appaltatore e consegnati ai diversi plessi scolastici per sopperire alle esigenze della refezione scolastica.
Nella medesima sentenza è altresì chiarito che l’obbligo, in caso di offerta congiunta per l’aggiudicazione di un servizio o di una fornitura, di indicare quale parte del servizio o della fornitura debba essere svolto da ciascuna delle imprese associate, comporta che sia definito il ruolo operativo di ciascuna di esse, all’evidente scopo di evitare che esse si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione stabilite nel bando in modo da consentire la partecipazione di imprese non qualificate, con evidenti effetti negativi sull’interesse pubblico (sez. I, 29 aprile 2005, n. 563).
In materia di accesso ai documenti, è stato precisato che la società precedente titolare del contratto di fornitura del sistema informativo di gestione dei laboratori dell’azienda sanitaria resistente e partecipante alla gara indetta per il rinnovo della medesima fornitura, è senz’altro titolare di un interesse qualificato all’accesso a tutta la documentazione relativa al procedimento di gara.
Il presupposto indefettibile del diritto di accesso è che vi sia un interesse personale concreto, direttamente riconducibile al soggetto che avanza la pretesa e che la documentazione richiesta sia direttamente riferibile a tale interesse (in tal caso può parlarsi di “tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”).
Da tale premessa discende che il diritto di accesso non può essere utilizzato come uno strumento per esaminare l’efficacia e la congruità dell’attività amministrativa, al solo scopo di sottoporre l’operato dell’amministrazione ad un’analisi diffusa di tipo essenzialmente ispettivo, sul comportamento e sulle scelte operate nell’azione amministrativa.
In tema di appalti è stato precisato che sussiste il diritto di accesso dell’impresa partecipante alla gara rispetto al contratto di appalto stipulato dall’amministrazione appaltante con la società aggiudicataria all’esito della gara (vedasi su tutti e quattro i punti sopra indicati, sez. II, 2 marzo 2005 n. 312).
Il procedimento amministrativo, ovviamente, è stato oggetto di numerose pronunce. Tra le più significative, quelle relative all’avviso dell’avvio del procedimento amministrativo, anche alla luce dell’innovazione apportata dall’art. 21 octies comma secondo, che ha modificato la legge 7 agosto 1990 n. 241.
Prima di detta innovazione è stato precisato che l’avviso dell’avvio del procedimento deve adempiere in concreto alla finalità di consentire alla parte interessata di partecipare al procedimento stesso fin dal momento del suo avvio, o quantomeno di potersi inserire in una fase che non sia troppo avanzata; in caso contrario risulterebbero del tutto eluse le finalità di partecipazione e di trasparenza dell’azione amministrativa insite nella stessa norma, finalità che debbono consentire all’interessato non solo di conoscere per tempo chi sia il responsabile del procedimento e quale l’ufficio presso cui prendere visione degli atti, ma anche e soprattutto di conoscere con sufficiente compiutezza quale sia esattamente l’oggetto del procedimento stesso, allo scopo di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’espresso obbligo di valutare in quanto pertinenti (sez. I, 16 febbraio 2005, n. 220).
Dopo l’introduzione dell’art. 21 octies comma secondo, è stato affermato che il principio introdotto dal legislatore attraverso detta norma è immediatamente applicabile nelle controversie pendenti, essendo pacifica la sua natura processuale (sez. I, 29 aprile 2005, n. 562: sez. I, 27 ottobre 2005, n. 1407).
Conseguentemente in tema di procedimento amministrativo sono da considerare irrilevanti le eventuali omissioni in rapporto al pieno rispetto formale delle garanzie partecipative nei casi in cui l’omissione si riveli, in concreto, non determinante, giacché il procedimento non potrebbe avere esito diverso anche con l’intervento ulteriore dell’interessato (sez. I, 1 aprile 2005, n. 413).
Sempre in merito all’art. 21-octies, nel ribadire la sua applicabilità ai processi in corso ed ai provvedimenti emanati anteriormente all’entrata in vigore della predetta legge 15/05, trattandosi di norma che opera sul piano della sanatoria in sede processuale dell’atto annullabile, si è sottolineato che una lettura di detta norma, conforme ai principi generali dell’ordinamento in materia processuale, ed in particolare a quelli di rango costituzionale, impone peraltro che l’operatività della sanatoria sia condizionata alla preventiva instaurazione del contraddittorio fra le parti in ordine ai presupposti fattuali e giuridici che giustificano la non annullabilità dell’atto impugnato (sez. II, n. 976 del 25 giugno 2005).
Si è affermato poi che alla locuzione “sia palese”, contenuta nell’art. 21-octies co. 2 della legge 241/90, non può essere attribuito altro significato, se non quello che, con riferimento agli atti vincolati, la verifica circa l’incidenza rivestita dai vizi procedimentali dedotti dal ricorrente debba essere svolta dal giudice anche d’ufficio e in assenza di eccezioni processuali da parte dell’amministrazione, con la conseguenza che in tali casi le violazioni formali in cui l’amministrazione sia incorsa, non giustificano l’annullamento dell’atto impugnato ove, trattandosi di atto vincolato, risulti palese che, nonostante i vizi del procedimento, il contenuto dispositivo del provvedimento non poteva essere differente (sez. II, n. 1106 del 29 luglio 2005).
Con una recentissima sentenza (sez. II, n. 93 del 6 febbraio 2006) si è escluso che nel caso di un provvedimento di natura indiscutibilmente discrezionale (rigetto di istanza volta ad ottenere la cittadinanza italiana) illegittimo per violazione dell’art. 10-bis L. 241/1990, si potesse applicare l’art. 21-octies comma 2 secondo periodo L. 241/1990 secondo cui “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Si è ritenuto, infatti, che detta disposizione rechi una norma eccezionale, che deroga alla regola generale sull’annullabilità dei provvedimenti amministrativi adottati in violazione di legge (art. 26 R.D. 26.6.1924, n. 1054; art. 21-octies comma 1 L. 241/1990), limitando di fatto la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.).
Pertanto, in applicazione del precetto di cui all’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, è stata adottata un’interpretazione restrittiva, che limiti l’applicazione della norma all’unico caso ivi specificamente considerato, cioè la mancata comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990 (sez. II, n. 93 del 6 febbraio 2006).
Sempre in tema di partecipazione al procedimento amministrativo, si è osservato che l’art. 21 bis della legge n. 241 del 1990, nel testo novellato dalla l. 11 febbraio 2005 n. 15, disciplina il rapporto fra comunicazione ed efficacia del procedimento; esso, superando lo schema concettuale compendiato dalla categoria degli atti recettizi, per i provvedimenti limitativi della sfera dei privati condiziona l’efficacia alla comunicazione all’interessato (sez. I, 28 giugno 2005, n. 985).
Abbiamo visto prima che la materia che ha il maggior dato quantitativo (e che comporta significative questioni interpretative) è costituita dalla “Edilizia ed Urbanistica”.
In tema di piani regolatori generali è stato chiarito che, in ordine all’obbligo di ripubblicazione del piano dopo le modifiche apportate dalla Regione, vanno distinte le modifiche in obbligatorie e facoltative. Le prime (intese ad assicurare il rispetto delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, la razionale sistemazione delle opere e degli impianti di interesse statale, la tutela del paesaggio e l’adozione di standards urbanistici minimi) non danno luogo alla ripubblicazione; tutte le altre, facoltative, se superano il limite del rispetto dei canoni del piano adottato, obbligano all’opposto il comune alla ripubblicazione (sez. I, 14 gennaio 2005, n. 35).
E’ stato poi precisato che il piano urbanistico comunale, nello specificare la disciplina dell’ambito di conservazione e riqualificazione, deve indicare le destinazioni d’uso principali e complementari articolate e quantificate per categorie funzionali.
Conseguentemente lo strumento urbanistico dovrà riportare per ogni singolo ambito le categorie di destinazione d’uso consentite al fine di preservare e migliorare il tessuto urbanistico ed edilizio esistente, ma non potrà disciplinare la destinazione d’uso dei singoli immobili individualmente specificati, imponendo categorie funzionali non previste dalla vigente legislazione regionale (sez. I, 7 aprile 2005, n. 448).
Nel caso concreto è stato dichiarato illegittimo un vincolo di destinazione (che comportava il divieto di trasformazione di destinazione d’uso in commerciale di una porzione immobiliare di un fabbricato adibito a sala da spettacoli, congressi ed uffici dell’azienda di promozione turistica), in quanto si sarebbe risolto in un vincolo di piano che, senza indennizzo, avrebbe sottratto al proprietario le facoltà di godimento di un immobile privato, senza operare il naturale passaggio del procedimento ablatorio (sez. I, 7 aprile 2005, n. 448).
Si è inoltre affermato, conformemente alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che la reiterazione di strumenti urbanistici di vincoli preordinati all’espropriazione deve essere in ogni caso motivata ed accompagnata da indennizzo o comunque da misure compensative (sez. I, 21 novembre 2005 n. 1492).
In tema di sanatoria edilizia è stato precisato che, ove l’amministrazione voglia fare applicazione della c. d. sanatoria impropria (cioè dell’istituto giurisprudenziale che consente di legittimare a posteriori gli interventi edilizi, in origine abusivi, ma conformi alla disciplina urbanistica vigente al momento della pronunzia sulla domanda), occorre che tale carattere della sanatoria sia chiaramente evidenziato nel titolo edilizio e che sia fornita adeguata ragione sul piano giuridico di tale scelta (sez. I, 17 maggio 2005, n. 670).
Una questione di incompatibilità che si è concretizzata in sede di pianificazione urbanistica è stata risolta nel senso di escludere che il consigliere che versi in conflitto di interessi, possa astenersi dall’esame sulla singola valutazione e, nondimeno, partecipare alla deliberazione finale che le approva tutte complessivamente.
E’ stato, infatti, rilevato che vi è un nesso di intrinseca inscindibilità fra le singole opzioni relative all’assetto complessivo del territorio urbano in sede di adozione della pianificazione urbanistica: per cui non può si ammettere che, nel medesimo tempo, il consigliere che versi in conflitto di interessi (in quanto sia proprietario di terreni inclusi nello strumento urbanistico adottato) possa, da un lato, astenersi dall’esame sulla singola valutazione, ma, al contrario, partecipare alla deliberazione finale che le approva tutte complessivamente. Conseguentemente è stata riscontrata la sussistenza del conflitto di interessi di cui all’art. 78 d.lgs. n. 267 del 2000 (sez. I, 3 giugno 2005, n. 798).
Parimenti è stato ribadito il dovere di astensione degli amministratori locali, in tutti i casi in cui questi ultimi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente, in quanto alla base di detto dovere vi è l’esigenza di assicurare che gli amministratori possano operare senza condizionamenti di sorta e che sia garantita agli utenti la trasparenza dell’azione amministrativa (sez. I, 30 ottobre 2005, n. 1344).
In tema di progetti di opera pubblica è stato evidenziato che detti progetti vanno obbligatoriamente articolati in tre distinti momenti: preliminare, definitivo ed esecutivo e che l’eliminazione di una di queste fasi costituisce evento del tutto peculiare, che deve essere giustificato dalla logica e da adeguata motivazione (sez. I, n. 327 del 9 marzo 2005; detta sentenza è stata citata nella recentissima circolare dell’Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici, pubblicata sulla G. U. del 30/12/05, emessa a proposito dell’ammissibilità del c. d. “salto progettuale”).
Con riferimento al nuovo sistema di cui al codice dei beni culturali è stato affermato che i beni sono “culturali” non tanto in forza di una presunzione “juris tantum”, ma lo diventano definitivamente se e quando ne sia stata accertata la rilevanza culturale, sulla base di una lettura coordinata delle varie disposizioni ed in particolare delle norme generali di cui agli art. 10 e 12 dello stesso codice. È stato poi asserito che é manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina in tema di verifica della rilevanza culturale ex art. 10 e 12 d.lgs. n. 42 del 2004 per eccesso di delega, in quanto essa integra pienamente quel criterio di delega indicato dalla norma di delega di cui all’art. 10 comma 2 lett. d), l. n. 137 del 2002, il quale richiedeva di “aggiornare gli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali e ambientali” (sez. I, 1 giugno 2005, n. 791).
In tema di determinazione delle tariffe del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani è stato precisato che la natura dell’attività esercitata (da valutare come proiezione soggettiva della destinazione d’uso dei locali) può essere assunta quale criterio per differenziare le tariffe stesse, ma in tale eventualità sussiste l’obbligo per l’autorità comunale di fornire adeguata motivazione delle operazioni compiute ed in particolare della congruenza tra la natura dell’attività economica considerata e le finalità di copertura dei costi del servizio che il provvedimento intende perseguire. A tal fine, è stato osservato che, mentre le abitazioni sono usualmente abitate nel corso dell’anno, gli alberghi (soprattutto di una località di mare) sono caratterizzati da una frequenza tipicamente stagionale che copre mediamente circa la metà dell’anno e per il resto da una frequentazione del tutto breve e provvisoria e comunque da ospiti generalmente assenti nelle ore del giorno; da ciò discende che una presenza umana di tal fatta comporta una produzione media di rifiuti inferiore rispetto alle abitazioni (sez. I, 23 febbraio 2005, n. 286).
In tema di bellezze naturali è stato ribadito che l’autorizzazione paesaggistica deve contenere l’analitica indicazione dei criteri di compatibilità come emerge anche dal disposto di cui all’art. 146 commi 4 e 5 d.lgs. n. 42 del 2004; sul piano giuridico la relativa omissione si traduce in un radicale vizio di legittimità dell’autorizzazione in termini eccesso di potere per difetto di motivazione e sviamento della causa tipica, poiché, nel caso di specie, invece di gestione del vincolo, si verifica di fatto la deroga alla sua efficacia (sez. I, 27 ottobre 2005, n. 1407).
In tema di violazione di norme a tutela dell’ambiente è stato, ancora una volta affermato che la sanzione pecuniaria collegata a detta violazione ha carattere formale, ovverosia non è collegata ad un reale danno ambientale, ma consegue alla realizzazione di un’opera senza titolo (sez I, 4 giugno 2005 n. 854; sez. I, 14 ottobre 2005 n. 1373).
In tema di attività marittima, è stato precisato che l’amministrazione marittima deve comparare gli interessi pubblici alla sicurezza, connessi all’imposizione dell’obbligo del pilotaggio (cioè del particolare servizio offerto dai piloti all’ingresso dei porti), con gli interessi privati, individuati nel risparmio del costo del servizio. A tal fine, deve fare perspicuo riferimento ad una serie di criteri oggettivi, quali: le specifiche esigenze di sicurezza, le caratteristiche dei luoghi e del traffico navale ed ogni altra circostanza, requisito o soluzione tecnica che consenta l’espletamento di un servizio ad esso alternativo (sez. I, 8 aprile 2005, n. 459).
In tema di inquinamento è stato affermato che la normativa di cui all’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 (che si riferisce alla bonifica ed al ripristino ambientale dei siti inquinati) appare conforme al diritto comunitario, in quanto il concetto di azione preventiva, connesso alle primarie esigenze di tutela dell’ambiente dall’inquinamento, va inteso in termini di natura prioritaria della bonifica, anche con l’adozione di misure specifiche tra cui quelle a carico del mero detentore, come desumibili espressamente dalla stessa normativa comunitaria vigente (sez. I, 12 ottobre 2005, n. 1348).
Un’altra materia che ha impegnato, in modo significativo, l’attività del Tribunale è data dal contenzioso in materia di immigrazione degli stranieri o, per usare un termine di uso giornalistico, degli extracomunitari.
Ci soffermeremo brevemente su alcuni dei temi trattati.
Si è preso atto della sentenza n. 78/05 della Corte Costituzionale, con cui sono stati dichiarati l’illegittimi sia l’art. 33 comma 7 lett. c) della legge 189/02, sia l’omologo art. 1 comma 8 lett. c) della legge 222/02, nella parte in cui facevano derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione dalla mera presentazione di una denuncia per uno dei reati in ordine ai quali fosse previsto l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza.
Si è, quindi, affermato che a seguito della stessa, anche all’emersione dal lavoro irregolare si applica la disciplina generale delle condizioni ostative all’ingresso e alla permanenza in Italia, di cui gli artt. 4 terzo comma e 5 comma quarto del D.Lgs. 286/98 (fra le altre, sez. II, 29 novembre 2005, n. 1613).
Con riferimento alle condizioni ostative all’ingresso e permanenza sul territorio dello Stato, il tribunale ha avuto modo di precisare che la riabilitazione ex art. 178 c.p. non elimina la condanna, ma le sole pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna stessa, ed opera ex nunc, vale a dire con efficacia in ordine ai soli rapporti giuridici ad essa posteriori: ne discende che, a prescindere dalla dubbia configurabilità del divieto di accesso e permanenza in Italia come “effetto penale” rilevante ai sensi dell’art. 178 citato, il provvedimento riabilitativo posteriore al diniego di rinnovo del permesso di soggiorno costituisce un fatto sopravvenuto che non inficia la validità del diniego stesso (fra le altre, sez. II, 7 maggio 2005, n. 728).
Si è poi ribadito che la perdita del lavoro non determina l’automatica perdita del permesso di soggiorno, ma dà diritto all’iscrizione nelle liste di collocamento per l’intero periodo di validità residua del permesso, e comunque per almeno sei mesi. Se, pertanto, al momento della cessazione del lavoro il permesso abbia validità residua inferiore a sei mesi, lo straniero ha diritto ad un rinnovo per motivi di “attesa occupazione” di durata corrispondente al periodo ancora occorrente per completare il semestre (fra le numerose pronunce, sez. II, 29 aprile 2005, n. 550).
E’ stato affermato il principio che la costituzione in capo allo straniero di un nuovo rapporto di lavoro, in epoca posteriore alla scadenza del permesso, integra circostanza idonea a giustificare il rilascio o il rinnovo del permesso, ai sensi dell’art. 5 comma quinto, ultima parte, del D.Lgs. 286/98, qualora il rapporto di lavoro sia costituito anche successivamente alla presentazione dell’istanza di rinnovo, purché prima che l’amministrazione si pronunci su detta istanza (fra le altre, cfr. sez. II, 17 marzo 2005, n. 360).
E’ stato ribadito che nelle controversie dinanzi al giudice amministrativo in materia di diritto al rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, è inammissibile ogni questione circa l’applicabilità delle norme stabilite dal D.Lgs. 286/98 in tema di unità familiare, trattandosi di materia riservata alla giurisdizione ordinaria (fra le molte, cfr. da ultimo sez. II, 19 gennaio 2006, n. 30).
E’ noto che l’art. 1 comma primo del D.L. 195/02 (convertito nella legge n.222/02) limita la possibilità di beneficiare della sanatoria ai lavoratori extracomunitari che siano stati occupati in forma irregolare nei tre mesi antecedenti l’entrata in vigore del decreto stesso.
Il Tribunale ha ritenuto che la locuzione “nei tre mesi antecedenti” non postuli tuttavia la vigenza del rapporto di lavoro per l’intero periodo temporale indicato, essendo sufficiente l’esistenza di un rapporto di lavoro di qualsiasi durata, purché svoltosi all’interno del trimestre (da ultimo, cfr. sez. II, 2 febbraio 2006, n. 78).
Va, comunque, notato che detta questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con due ordinanze della sesta sezione (22 novembre 2005, n. 6518 e 15 novembre 2005, n. 6364) che, peraltro, aderiscono all’indirizzo seguito dal nostro Tribunale.
L’unica condizione cui l’art. 46 comma quarto del D.P.R. 394/99 subordina il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di studio universitario è il superamento del numero minimo di verifiche previsto per ciascun anno accademico, di talché non può considerarsi in via di principio precluso allo studente extracomunitario il cambiamento di facoltà.
Ai fini del computo del numero minimo di esami da sostenere annualmente per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, il Tribunale ha affermato che l’amministrazione deve comunque tenere conto di tutti gli anni di iscrizione all’università, compresi quelli trascorsi nella frequenza del corso di studio prescelto in origine, e questo per evitare che il cambio di facoltà venga utilizzato al fine di ripetere più volte il primo anno e così conseguire il rinnovo del permesso grazie a un numero ridotto di esami (fra le altre, cfr. sez. II, 9 giugno 2005, n. 878).
In tema di revoca del permesso di soggiorno si è affermato che la condanna penale in ordine ad uno dei reati per i quali l’art. 380 c.p.p. prevede l’arresto obbligatorio in flagranza, facendo venire meno le condizioni per l’ingresso nel territorio dello Stato, giustifica la revoca del permesso di soggiorno eventualmente rilasciato allo straniero extracomunitario (sez. II, 10 giugno 2005 n. 886).
Si è, inoltre, chiarito che l’espulsione amministrativa di cui all’art. 13 comma 2 l. n. 198 del 2002 e l’espulsione come misura di sicurezza di cui all’art. 15, stessa legge, pur presentando identità di contenuto, erano e rimangono due misure non sovrapponibili sul piano della natura intrinseca (amministrativa da un lato, giurisdizionale dall’altro), dei presupposti e dei rimedi, fermo restando che anche la prima è soggetta a controllo giurisdizionale, sia nel momento della convalida del provvedimento con cui è disposto l’accompagnamento alla frontiera (la cui esecutività è ora sospesa nelle more della convalida, ai sensi delle modifiche apportate all’art. 13 d.l. n. 241 del 2004, cit.), sia nel momento dell’impugnazione (sez. II, 10 giugno 2005 n. 886).
E’ stata, poi, più volte ribadita l’insufficienza della motivazione di un provvedimento di revoca di un permesso di soggiorno (ovvero di un diniego del suo rinnovo) che si fondi esclusivamente sulla impossibilità di rintracciare lo straniero, che non avrebbe lasciato un suo recapito all’autorità di polizia (cosiddetta mancanza del requisito alloggiativo) (tra le molte, sez. II, 27 maggio 2005 n. 718).
In tal caso è stato ritenuto non è applicabile l’art. 21 octies, l. 7 agosto 1990 n. 241 in caso di impugnazione di revoca permesso di soggiorno privo di adeguata motivazione, laddove non sia stato dedotto da parte dell’amministrazione alcun comportamento dell’interessato che le norme di legge prevedano come ostativo alla presenza dello straniero sul territorio dello Stato,e non è stato, quindi, possibile ammettere l’amministrazione a fornire la relativa prova (sez. II, 27 maggio 2005 n. 718).
In tema di pubblico impiego è stato affrontato il tema della rettifica dell’inquadramento del dipendente nell’ambito del ruolo nominativo regionale, quale forma di autotutela.
E’ stato così precisato che l’esercizio dell’autotutela decisoria della p.a. è subordinato alle comuni e rigorose regole concernenti, fra l’altro: a) l’obbligo della motivazione; b) la presenza di concrete ragioni di pubblico interesse, non riducibili alla mera esigenza di ripristino della legalità; c) la valutazione dell’affidamento delle parti private destinatarie del provvedimento oggetto di riesame, tenuto conto del tempo trascorso dalla sua adozione; d) il rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale; e) l’adeguata istruttoria; f) l’obbligo della previa comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo (sez. II, 27 maggio 2005 n. 747).
Come si è visto, l’obbligo della previa comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, sancito dall’art. 7, l. 7 agosto 1990 n. 241, è preordinato a consentire una reale opportunità di partecipazione democratica allo svolgimento dell’attività amministrativa, attraverso l’instaurazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti che possano prevedibilmente subire gli effetti diretti e pregiudizievoli di un provvedimento in corso di emanazione, al precipuo scopo di offrire a tutti gli interessati, individuati o facilmente individuabili, la concreta possibilità di esprimere le rispettive ragioni e di sollecitarne la collaborazione, nonché l’eventuale opposizione, su tutti i profili dell’azione intrapresa dall’amministrazione procedente (sez. II, 27 maggio 2005 n. 747).
Un altro tema ricorrente è stato quello delle autorizzazioni di polizia.
In particolare il Tribunale si è trovato più volte a dover decidere in ordine al diniego di rinnovo di autorizzazioni di polizia per il porto delle armi da fuoco, a soggetti che fruivano da tempo del relativo titolo. Le censure hanno avuto riguardo all’allegata illogicità del mutato avviso da parte dell’amministrazione, che per anni aveva ritenuto ammissibile il porto delle armi da fuoco per taluni soggetti, per i quali è stata poi ravvisata l’assenza dei necessari presupposti.
In diverse fattispecie è stato ritenuto che la dedotta necessità di trasportare notevoli somme di denaro in contanti non costituisca più un requisito in base al quale la questura deve motivare con maggiore accuratezza un eventuale diniego. E’ stato infatti osservato che nella prassi contemporanea il maneggio di denaro contante é divenuto una scelta, più che una necessità, potendosi avvalere i cittadini, nella maggioranza dei casi, di altri mezzi di pagamento che non comportano il materiale trasporto della banconote. Il Tribunale ha condiviso l’orientamento assunto in tal senso dall’amministrazione, ed ha considerato rilevante ai fini della legittimità del diniego di autorizzazione solo la prova di un’eventuale situazione di pericolo effettivo in cui versi il richiedente, che può derivare soprattutto dalla documentazione certa delle aggressioni da lui subite in precedenza (sez. II; n. 127 del 1° febbraio 2005; idem n. 368 del 21 marzo 2005).
In materia di gare di appalto e, più esattamente, in tema di disciplina delle obbligazioni pecuniarie scaturenti a carico delle amministrazioni pubbliche che bandiscono gare di appalto per la fornitura di beni o di servizi, è stato affermato un principio già da tempo introdotto dalla normativa comunitaria. La fattispecie concerneva il contrasto esistente, da un lato, tra l’art. 5 comma 2 del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 che ha recepito la direttiva 2000/35/CE adottata per eliminare i ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali e, dall’altro lato, una disposizione regolamentare dell’ASL banditrice, che aveva inserito nel testo della legge di gara dei termini di pagamento delle forniture assai più favorevoli per il committente, rispetto a quanto ammessi dalla norma citata.
Con questa sentenza il collegio ha ritenuto direttamente applicabile la disposizione normativa alla gara in questione, senza che ciò potesse comportare un’ipotesi di violazione della parità di condizioni tra i concorrenti, dal momento che tutti avrebbero dovuto considerare inapplicabile la previsione regolamentare, in quanto contrastante con la norma di ordine pubblico denunciata dalla ricorrente (sez. II, n. 126 del 1° febbraio 2005).
In tema di appalti di servizi si è verificato un caso in cui un’amministrazione comunale aveva bandito una gara, che prefigurava la stipulazione di un contratto, in forza del quale il soggetto aggiudicatario avrebbe assunto l’obbligazione di installare numerose infrastrutture (pensiline per l’attesa dei mezzi di trasporto pubblico, cestini portarifiuti, cartelloni per manifesti…) in cambio della possibilità di sfruttarli come mezzi pubblicitari per un tempo assai lungo.
L’esito della gara era stato impugnato da un soggetto risultato soccombente, che aveva denunciato tra l’altro l’indebita applicazione della norme sull’appalto di servizi, dal momento che l’eterogeneità delle obbligazioni assunte dall’aggiudicatario avrebbe dovuto impedire la qualificazione della gara come appalto-concorso, dovendosi invece fare applicazione delle norme sulla concessione di lavori.
Il Tribunale ha invece ritenuto che le obbligazioni delle parti fossero riconducibili alla nozione di contratto misto, disattendendo le censure dedotte dal ricorrente (sez. II, n. 155 del 4 febbraio 2005).
In materia di risarcimento del danno per attività illegittima della pubblica amministrazione, il Tribunale ha esaminato il caso di una cittadina extracomunitaria a cui era stato negato il richiesto rinnovo del permesso di soggiorno, sul presupposto che l’interessata non avesse lavorato per il termine previsto dalla legge, dopo la scadenza del titolo che ne aveva legittimato la permanenza in Italia.
Il collegio ha ritenuto illegittima la determinazione della Questura, considerando che dall’esame delle date di scadenza del permesso e della fine del periodo di lavoro della straniera risultava che questa, al momento dell’impugnato diniego, avrebbe potuto fruire ancora di tre mesi di tempo per reperire un’altra idonea occupazione.
E’ risultato ancora che nelle more del primo giudizio da lei instaurato, la straniera aveva fatto ritorno al luogo di origine, tanto che dopo aver appreso del vittorioso esito del primo ricorso proposto, aveva provveduto a chiedere un nuovo permesso di soggiorno alla locale ambasciata d’Italia.
Il permesso le era stato invece negato, sul presupposto che il termine di tre mesi (individuato dal tribunale a favore della straniera) era nel frattempo decorso, per cui si era comunque verificato il presupposto ostativo, che la p.a. aveva posto a fondamento del primo diniego impugnato.
Sulla nuova impugnazione il Tribunale ha ritenuto illegittima l’attività amministrativa, in quanto l’atto che avrebbe dovuto dare esecuzione alla prima pronuncia del T.A.R. non risultava essere stato adottato, e tanto meno comunicato all’interessata.
All’annullamento del reiterato diniego ha poi fatto seguito l’accoglimento della domanda per la condanna della p.a. al risarcimento del danno morale, sussistendo una connotazione colposa nella condotta dell’autorità di polizia, derivante dall’assenza di un qualsivoglia atto di adeguamento alla prima pronuncia del giudice (sez. II, 6 dicembre 2005 n. 1632).
Un settore che dà luogo ad un contenzioso spesso interessante è quello delle farmacie. Tra l’altro è stato rilevato che la norma di cui all’art. 2, l. n. 475 del 1968 individua la pianta organica delle farmacie alla stregua di un atto di pianificazione, per il quale nessuna norma prevede un obbligo di comunicazione o notificazione da parte dell’amministrazione procedente. Ciò risponde al principio generale secondo cui l’atto di pianificazione deve essere notificato al soggetto inciso, solo allorché il pregiudizio sia immediato e diretto. Poiché, in caso di pianta organica delle farmacie, non si tratta dell’ablazione di una qualsivoglia utilità direttamente collegabile all’interessata, quanto piuttosto della differente conformazione del territorio a fini commerciali, non risulta necessaria la notificazione dell’atto terminale del procedimento (sez. II, 2 maggio 2005 n. 573).
Sempre con riferimento all’iter procedimentale relativo alla modificazione di una pianta organica è stato affermato considerato non perentorio un termine di legge, che la ricorrente riteneva invece tale, perché posto a garanzia della situazione giuridica dedotta in causa.
Si trattava nella fattispecie (sez.II, n. 574 del 2 maggio 2005) della doglianza esposta dalla titolare di una farmacia di una città ligure, che lamentava che la Regione avesse modificato la pianta organica degli esercizi senza rispettare la cadenza biennale stabilita al riguardo dall’art. 2 della legge 2 aprile 1968 n. 475; la modificazione apportata all’atto generale aveva consentito l’autorizzazione all’apertura di un nuovo esercizio sanitario, e tale atto era considerato direttamente lesivo dalla domanda proposta al tribunale.
La cadenza temporale di modificazione della pianta organica era rilevante ai fini della decisione, posto che l’impugnazione degli atti lesivi poteva essere considerata tempestiva solo ritenendo vincolante il termine biennale previsto dalla legge statale ricordata.
Il Tribunale ha invece ritenuto che l’ampia pubblicità data dalla Regione alla fase procedimentale che portò alla modifica della pianta organica nel comune interessato ebbe l’effetto di porre la ricorrente a conoscenza della natura degli atti che si stavano preparando, sì che il ritardo nell’impugnazione non è stato ritenuto scusabile, non ostante il letterale tenore della legge denunciata (sez.II, n. 574 del 2 maggio 2005).
Recentissima è la decisione con cui il Tribunale ha respinto l’impugnazione proposta avverso la delibera presa dalla Giunta di un Comune, con cui era stato disposto che in tutte le farmacie comunali venisse applicato lo sconto del 20%, sul prezzo dei farmaci senza obbligo di prescrizione medica e di quelli di automedicazione, in applicazione di quanto previsto dall’art. 1 co. 4 del D.L. 27 maggio 2005, n. 87, convertito in legge 26 luglio 2005, n. 149 (secondo cui le farmacie pubbliche e private possono vendere i farmaci senza obbligo di prescrizione medica e i farmaci di automedicazione, operando uno sconto fino al 20% sul prezzo massimo stabilito dall’azienda titolare del farmaco). La pronuncia si segnala, da un lato, per aver affermato che l’applicazione indiscriminata dello sconto massimo consentito su tutti i farmaci senza obbligo di prescrizione e di automedicazione, da parte non di tutte le farmacie, ma delle sole farmacie comunali, non contrasta con i principi in materia di concorrenza, poiché innesca un meccanismo volto non a comprimere, bensì a massimizzare gli effetti della concorrenza stessa, comportando il miglioramento delle condizioni di offerta sul mercato e, con esso, un innegabile beneficio per i consumatori; dall’altro, per aver escluso che la facoltà di applicare lo sconto fino al 20% sui farmaci SOP e di automedicazione presenti profili di illegittimità costituzionale, in relazione sia al rispetto della sfera di potestà legislativa riservata alla Regioni dall’art. 117 Cost., sia alla tutela della salute pubblica, della sicurezza e dell’utilità sociale presidiate dagli artt. 32 e 41 Cost. (sez.II, n. 46 del 20 gennaio 2006) “.
(…)
Tar Liguria, febbraio 2006
presidente Mario Arosio
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Il testo integrale della relazione del presidente Mario Arosio, pubblicata sul sito della Giustizia amministrativa (www.giustizia-amministrativa.it), è reperibile http://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/Genova.htm