Pensione a transessuale secondo il nuovo sesso

La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza depositata lo scorso
28 aprile, ha stabilito che il rifiuto di concedere una pensione, alla stessa
età di una donna, ad una transessuale passata dal sesso maschile al sesso
femminile viola il diritto comunitario, ed in particolare la direttiva 79/7/CEE
sulla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale.

La vicenda si è svolta nel Regno Unito, nel cui ordinamento gli uomini possono
beneficiare
di
una
pensione
di
vecchiaia
all’età di
65 anni e le donne all’età di 60 anni.

Si è posta questione circa la corretta età pensionabile da riconoscere ad una
transessuale divenuta donna, per effetto di successivo intervento chirurgico.

Secondo la Corte di Gisutizia, il diritto di non essere
discriminati
in
ragione del proprio sesso, uno dei diritti fondamentali della persona
umana, è ì applicabile
alle discriminazioni determinate dal cambiamento di sesso dell’interessato.

. . . . .

Corte di Giustizia, Prima Sezione

Sentenza del 27 aprile 2006

(presidente Jann, estensore Cunha Rodrigues)

Nel procedimento C-423/04,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale
proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Social Security Commissioner
(Regno Unito),
con decisione 14 settembre 2004, pervenuta in cancelleria il 4 ottobre 2004,
nella causa tra

Sarah Margaret R.
e
Secretary of State for Work and Pensions,

(…)

1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli
artt. 4 e 7 della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa
alla
graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini
e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24).

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia
tra la sig.ra R., una persona che si è sottoposta ad un intervento
chirurgico di mutamento di sesso, e il Secretary of State for Work and Pensions
(segretario di Stato per il lavoro e per le pensioni; in prosieguo: il «Secretary
of State») relativa al rifiuto di quest’ultimo di concederle una pensione
di vecchiaia a partire dal compimento del suo sessantesimo anno di età.

Il contesto normativo

La normativa comunitaria

3. Ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7:

«Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di
qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso,
in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia,
specificamente per quanto riguarda:

– il campo di applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione
ad essi,

– l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,

– il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere
per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative
alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni».

4. L’art. 7, n. 1, della stessa direttiva prevede che quest’ultima non
pregiudichi la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo
di applicazione:

«a) la fissazione del limite di età per la concessione della
pensione di vecchiaia e di fine lavoro e le conseguenze che possono derivarne
per altre prestazioni;

(…)».

La normativa nazionale

5. L’art. 29, nn. 1 e 3, della legge del 1953 sulla registrazione delle nascite
e dei decessi (Birth and Deaths Registration Act 1953) vieta ogni modifica
al registro degli atti di nascita, salvo nel caso di errore di scrittura o
di errore materiale

6. L’art. 44 della legge del 1992 relativa ai contributi e alle prestazioni
di sicurezza sociale (Social Security Contributions and Benefits Act 1992)
prevede che una persona possa beneficiare di una pensione di vecchiaia di categoria
A (pensione di vecchiaia «normale») quando essa raggiunga l’età pensionabile
e soddisfi diverse condizioni in materia di contributi.

7. Secondo l’allegato 4, parte I, art. 1, della legge del 1995 relativa alle
pensioni di vecchiaia (Pensions Act 1995), un uomo raggiunge l’età della
pensione a 65 anni e una donna nata prima del 6 aprile 1950 a 60 anni.

8. Il 1° luglio 2004 è stata adottata la legge del 2004 sul riconoscimento
del genere (Gender Recognition Act 2004; in prosieguo: la «legge del
2004»), entrata in vigore il 4 aprile 2005.

9. Detta legge consente alle persone che abbiano già mutato sesso o
che prevedano di sottoporsi ad un apposito intervento chirurgico di chiedere
il rilascio di un certificato di riconoscimento del genere («gender recognition
certificate»), in base al quale può essere ottenuto un riconoscimento
quasi completo del loro mutamento di sesso.

10. Ai sensi dell’art. 2, n. 1, della legge del 2004, il certificato di riconoscimento
del genere deve essere rilasciato qualora il richiedente soddisfi in particolare
le seguenti condizioni:

«a) è o è stato affetto da disforia sessuale,

b) alla data della richiesta ha vissuto nel sesso acquisito per un periodo
di due anni,

(…)».

11. L’art. 9, n. 1, della legge del 2004 dispone:

«Quando ad una persona è rilasciato un certificato completo di
riconoscimento del genere, il sesso di detta persona diviene ad ogni effetto
il sesso acquisito (cosicché, in caso di nuova identità sessuale
maschile, la persona è considerata di sesso maschile e, in caso di nuova
identità sessuale femminile, essa è considerata di sesso femminile».

12. In base all’art. 9, n. 2, della legge del 2004, il certificato di riconoscimento
del genere non produce effetti sugli atti compiuti o sui fatti occorsi precedentemente
al suo rilascio.

13. Riguardo alle prestazioni di vecchiaia, l’allegato 5, parte II, art. 7,
n. 3, della legge del 2004 prevede:

«(…) se (immediatamente prima che il certificato sia rilasciato)
la persona

a) è un uomo che ha raggiunto l’età alla quale una donna raggiunge
l’età pensionabile, ma

b) non ha raggiunto l’età di 65 anni,

la persona in questione deve essere considerata (…) come se avesse raggiunto
l’età pensionabile quando detto certificato è stato rilasciato».

La causa principale e le questioni pregiudiziali

14. La sig.ra R., ricorrente nella causa principale, è nata il
28 febbraio 1942 e nel suo atto di nascita è stata registrata come persona
di sesso maschile. Essendole stata diagnosticata una disforia sessuale, essa
si è sottoposta il 3 maggio 2001 ad un intervento chirurgico di mutamento
di sesso.

15. Il 14 febbraio 2002 essa ha presentato domanda al Secretary of State per
beneficiare di una pensione di vecchiaia a partire dal 28 febbraio 2002, data
in cui essa compiva 60 anni, età alla quale, ai sensi del diritto nazionale,
una donna nata prima del 6 aprile 1950 può ottenere una pensione di
vecchiaia.

16. Con decisione 12 marzo 2002, la detta domanda è stata respinta
in quanto essa «[era] stata presentata più di quattro mesi prima
che il richiedente compisse i 65 anni», vale a dire l’età pensionabile
prevista per gli uomini nel Regno Unito.

17. Poiché il ricorso proposto dalla signora R. dinanzi al Social
Security Appeal Tribunal (Commissione di secondo grado per la legislazione
sociale) è stato respinto, quest’ultima ha adito il Social Security
Commissioner, rilevando che, a seguito della sentenza della Corte 7 gennaio
2004, causa C-117/01, K. B. (Racc. pag. I-541), il rifiuto di corrisponderle
una pensione di vecchiaia a partire dall’età di 60 anni costituiva una
violazione dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché una discriminazione
contraria all’art. 4 della direttiva 79/7.

18. Dinanzi al giudice del rinvio, il Secretary of State ha sostenuto che
la domanda della ricorrente nella causa principale non rientrasse nell’ambito
di applicazione della detta direttiva. Infatti, secondo lo stesso, il diritto
comunitario prevede, riguardo alle prestazioni di vecchiaia, soltanto misure
di armonizzazione, senza pertanto attribuire il diritto di ottenere siffatte
prestazioni. Inoltre, la sig.ra R. non sarebbe stata discriminata nei
confronti delle persone che costituiscono l’adeguato elemento di comparazione,
vale a dire gli uomini che non si sono sottoposti ad un intervento chirurgico
di mutamento di sesso.

19. Al fine di risolvere la controversia, il Social Security Commissioner
ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti
questioni
pregiudiziali:

«1) se la direttiva 79/7 osti al rifiuto di una pensione di vecchiaia,
prima del raggiungimento dei 65 anni di età, ad una persona transessuale
passata dal sesso maschile a quello femminile, quando invece essa avrebbe avuto
diritto a detta pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata
una donna in base al diritto nazionale;

2) in caso affermativo, a partire da quale data debba avere effetto la pronuncia
della Corte sulla prima questione.»

Sulla prima questione

20. Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se
l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 osti ad una normativa che nega il
beneficio di una pensione di vecchiaia ad una persona passata dal sesso maschile
al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto i 65 anni di età,
quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta pensione
all’età di 60 anni se fosse stata considerata una donna in base al diritto
nazionale.

21. In via preliminare, si deve rilevare che spetta agli Stati membri determinare
le condizioni del riconoscimento giuridico del mutamento di sesso di una persona
(v., in tal senso, sentenza K. B., cit., punto 35).

22. Per rispondere alla questione, si deve sottolineare anzitutto che la direttiva
79/7 costituisce l’espressione, nell’ambito della sicurezza sociale, del principio
di parità di trattamento tra uomini e donne, che è uno dei principi
fondamentali del diritto comunitario.

23. Inoltre, in conformità ad una giurisprudenza costante della Corte,
il diritto di non essere discriminata in ragione del proprio sesso costituisce
uno dei diritti fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire
l’osservanza (v. sentenze 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrenne, Racc. pag.
1365, punti 26 e 27, nonché 30 aprile 1996, causa C-13/94, P./S., Racc.
pag. I-2143, punto 19).

24. Di conseguenza, la sfera d’applicazione della direttiva non può essere
ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro
sesso. Tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti che mira a proteggere,
la direttiva può applicarsi anche alle discriminazioni che hanno origine
nel mutamento di sesso dell’interessata (v., a proposito della direttiva del
Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio
della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda
l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni
di lavoro (GU L 39, pag. 40), sentenza P./S., cit., punto 20).

25. Il governo del Regno Unito sostiene che i fatti all’origine della controversia
di cui alla causa principale sono conseguenza della scelta operata dal legislatore
nazionale di stabilire una diversa età pensionabile per gli uomini e
per le donne. Poiché una siffatta facoltà è espressamente
accordata agli Stati membri ai sensi dell’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva
79/7, questi ultimi sarebbero autorizzati a derogare al principio di parità di
trattamento tra uomini e donne in materia di pensioni di vecchiaia. Il fatto
che, come nella causa principale, la distinzione del regime pensionistico in
funzione del sesso pregiudichi i diritti dei transessuali sarebbe priva di
importanza..

26. Tale argomento non può essere accolto.

27. La sig.ra R. sostiene che le sia stato impedito di godere di una
pensione di vecchiaia dal momento in cui essa avesse raggiunto l’età di
60 anni, vale a dire dal momento in cui le donne nate prima del 6 aprile 1950
possono godere di detta pensione nel Regno Unito.

28. La disparità di trattamento controversa nella causa principale è dovuta
all’impossibilità per la sig.ra R. di vedersi riconoscere, ai
fini dell’applicazione della legge del 1995 relativa alle pensioni di vecchiaia,
il nuovo sesso da essa acquisito a seguito di un intervento chirurgico.

29. Contrariamente alle donne il cui genere non risulta da un intervento chirurgico
di mutamento di sesso, le quali possono beneficiare di una pensione di vecchiaia
all’età di 60 anni, la sig.ra R. non può soddisfare una
delle condizioni di accesso alla detta pensione, nella fattispecie quella relativa
all’età pensionabile.

30. Poiché consegue ad una conversione sessuale, la disparità di
trattamento che ha colpito la sig.ra R. dev’essere considerata una discriminazione
vietata dall’art. 4, n. 1, della direttiva 97/7.

31. Infatti la Corte ha già dichiarato che una normativa nazionale
che impedisce che un transessuale, a causa del mancato riconoscimento del suo
sesso
acquisito, possa soddisfare una condizione necessaria all’esercizio di un diritto
tutelato dal diritto comunitario dev’essere considerata in linea di principio
incompatibile con le prescrizioni del diritto comunitario (v. sentenza K. B.,
cit., punti 30-34).

32. Il governo del Regno Unito rileva che nessun diritto attribuito dal diritto
comunitario è stato violato attraverso la decisione 12 marzo 2002 di
diniego della pensione, poiché il diritto a beneficiare di una pensione
di vecchiaia deriva soltanto dal diritto nazionale.

33. Al riguardo è sufficiente ricordare che, secondo una costante giurisprudenza,
il diritto comunitario non menoma la competenza degli Stati membri ad organizzare
i loro sistemi previdenziali, e che, in mancanza di un’armonizzazione a livello
comunitario, spetta alla normativa di ciascuno Stato membro determinare, da
un lato, le condizioni del diritto o dell’obbligo di iscriversi a un regime
di previdenza sociale e, dall’altro, le condizioni cui è subordinato
il diritto a prestazioni (sentenze 12 luglio 2001, causa C-157/99, Smits e
Peerbooms, Racc. pag. I-5473, punti 44-46, e 4 dicembre 2003, causa C-92/02,
Kristiansen, Racc. pag. I-14597, punto 31).

34. Peraltro, le discriminazioni contrarie all’art. 4, n. 1, della direttiva
97/7 ricadono nell’ambito della deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a),
di questa stessa direttiva soltanto a condizione di essere necessarie per raggiungere
gli obiettivi che la direttiva intende perseguire, lasciando agli Stati membri
la facoltà di mantenere un’età pensionabile diversa per gli uomini
e per le donne (sentenza 7 luglio 1992, causa C-9/91, Equal Opportunities Commission,
Racc. pag. I-4297, punto 13).

35. Benché i ‘considerando’ della direttiva non precisino
la ragion d’essere delle deroghe che essa prevede, dalla natura delle deroghe
che figurano all’art. 7, n. 1, della direttiva si può dedurre che il
legislatore comunitario ha inteso autorizzare gli Stati membri a mantenere
temporaneamente, in materia di pensioni di vecchiaia, i benefici riconosciuti
alle donne, al fine di consentire loro di procedere gradualmente ad una modifica
dei sistemi pensionistici su tale punto senza perturbare il complesso equilibrio
finanziario di questi sistemi, di cui non poteva disconoscere l’importanza.
Tra questi benefici figura in particolare la possibilità, per i lavoratori
di sesso femminile, di beneficiare del diritto alla pensione prima dei lavoratori
di sesso maschile, come prevede l’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva (sentenza
Equal Opportunities Commission, cit., punto 15).

36. Secondo una giurisprudenza costante, la deroga al divieto delle discriminazioni
fondate sul sesso, prevista nell’art. 7, n. 1, lett. a), della direttiva 79/7,
dev’essere interpretata in modo restrittivo (v. sentenze 26 febbraio 1986,
causa 152/84, Marshall, Racc. pag. 723, punto 36, e causa 262/84, Beets-Proper,
Racc. pag. 773, punto 38, e 30 marzo 1993, causa C-328/91, Thomas e a., Racc.
pag. I-1247, punto 8).

37. Pertanto tale disposizione dev’essere interpretata nel senso che essa
si limita a stabilire una diversa età pensionabile per gli uomini e
per le donne. La causa principale non riguarda tuttavia una siffatta misura.

38. Da quanto precede risulta che l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7
osta ad una normativa che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia ad
una persona che, in conformità alle condizioni stabilite dal diritto
nazionale, sia passata dal sesso maschile al sesso femminile per il motivo
che essa non ha raggiunto l’età di 65 anni, quando invece questa stessa
persona avrebbe avuto diritto a detta pensione all’età di 60 anni se
fosse stata considerata come donna in base al diritto nazionale.

Sulla seconda questione

39. Con la sua seconda questione il giudice del rinvio chiede, nel caso in
cui la Corte dovesse dichiarare che la direttiva 79/7 osti alla normativa nazionale
controversa nella causa principale, se gli effetti di una tale sentenza debbano
essere limitati nel tempo.

40. Solo in via eccezionale, applicando il principio generale della certezza
del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, la Corte può essere
indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere
una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti
giuridici costituiti in buona fede (sentenze 2 febbraio 1988, causa 24/86,
Blaizot, Racc. pag. 379, punto 28, e 23 maggio 2000, causa C-104/98, Buchner
e a., Racc. pag. I-3625, punto 39).

41. Inoltre, secondo costante giurisprudenza, le conseguenze finanziarie che
potrebbero derivare per uno Stato membro da una sentenza pronunciata in via
pregiudiziale non giustificano, di per sé, la limitazione dell’efficacia
nel tempo di tale sentenza (sentenze 20 settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk,
Racc. pag. I-6193, cit., punto 52, e 15 marzo 2005, causa C-209/03, Bidar,
Racc. pag. I-2119, punto 68).

42. La Corte ha fatto ricorso a tale soluzione soltanto in presenza di circostanze
ben precise, quando, da un lato, vi era un rischio di gravi ripercussioni economiche
dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti
in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente, e quando,
dall’altro, risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati
indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria in ragione
di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni
comunitarie, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi
comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione (sentenza Bidar,
cit., punto 69).

43. Nel caso di specie, l’entrata in vigore, il 4 aprile 2005, della legge
del 2004 ha l’effetto di far venir meno controversie quali quella che ha dato
luogo alla causa principale. Inoltre, sia nelle osservazioni scritte depositate
dinanzi alla Corte, sia in udienza, il governo del Regno Unito non ha mantenuto
la domanda presentata nell’ambito della causa principale riguardante la limitazione
nel tempo degli effetti della sentenza.

44. Di conseguenza, si deve rispondere alla seconda questione che non è necessario
limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.

Sulle spese

45. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento
costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta
quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute per presentare osservazioni
alla Corte, diverse da quelle delle dette parti, non possono dar luogo a rifusione.

P.Q.M.

1) L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978,
79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di
trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, osta
ad una normativa
che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia ad una persona che, in conformità alle
condizioni stabilite dal diritto nazionale, sia passata dal sesso maschile
al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto l’età di
65 anni, quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta
pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata una donna in
base al diritto nazionale.

2) Non è necessario limitare nel tempo gli effetti della presente sentenza.

Redazione

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