La concorrenza nei servizi professionali secondo il CNF: ammesse le associazioni temporanee tra professionisti


Il Consiglio
Nazionale Forense, con nota del 4 settembre scorso è intervenuto sull’art.
2 (“Disposizioni
urgenti per la tutela della concorrenza nel settore dei servizi professionali
“)
del DL 223/2006 convertito
dalla legge 248/2006.

Alcuni commentatori hanno osservato che il CNF, nei propri chiarimenti,
non
usa
mai
il
termine
“concorrenza”,
nemmeno
per riportare la rubrica dell’articolo interpretato.

Si riporta di seguito il testo integrale dei chiarimenti inviati
dal presidente del CNF ai presidenti degli Ordini.

. . . . . . .

Consiglio Nazionale Forense

Roma, 4 settembre 2006

Osservazioni sulla interpretazione e applicazione del d.l. 4 luglio
2006, n. 223 (in G.U. n. 153
del 4 luglio 2006), coordinato con la l. di conversione 4 agosto 2006, n. 248
(in G.U. n. 186
dell’11 agosto 2006 – Suppl. Ord. n. 183) recante: «Disposizioni
urgenti per il rilancio
economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa
pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione
fiscale».

1. Premessa.

La nuova disciplina – al di là delle sue connotazioni di politica
istituzionale e di politica del
diritto, oltre che di carattere strutturale che investono direttamente la nostra
professione – involge
aspetti civilistici e aspetti deontologici riguardanti tra l’altro la determinazione del compenso
professionale
, il patto di quota lite, la pubblicità informativa,
le associazioni e le società professionali.

La nuova disciplina dovrebbe avere natura transitoria, tenendo conto di tre
fattori:

(i) le prossime pronunce della Corte di Giustizia riguardante la legittimità delle
tariffe obbligatorie
quale compenso per l’attività stragiudiziale forense e la legittimità del
divieto della libera negoziazione
del compenso professionale forense;
(ii) l’eventuale pronuncia della Corte costituzionale, ove essa fosse
investita della questione di
costituzionalità dell’art. 1 della l. di conversione e dell’art.
2 del decreto legge in epigrafe;
(iii) l’esito del processo di riforma della disciplina forense, che si
avvierà con la ripresa autunnale dinanzi
alle Camere, con gli esponenti governativi, anche sulla base degli esiti del
Congresso di Roma.

Poiché è lecito ritenere che i tempi delle vicende sub (i),(ii),(iii)
saranno tendenzialmente lunghi,
occorre riflettere sulle questioni interpretative e applicative della disciplina
entrata in vigore nel testo
convertito.

2. Norme legislative e norme deontologiche

La premessa dell’analisi muove da un presupposto fondamentale: la coesistenza
di norme di
legge e di norme deontologiche; le norme di legge possono abrogare norme deontologiche
(come quelle
forensi) aventi natura di norme primarie, ma di origine consuetudinaria; in
ogni caso, anche se si
potesse sostenere la loro equiparazione totale, si dovrebbe applicare il principio
della posteriorità della
nuova disciplina rispetto alla normativa deontologica ( che data, nella sua
ultima versione, dal 27
gennaio 2006).

Le due categorie di norme non sono però tra loro sovrapponibili,
in quanto la legge
ordinaria, come quella in esame, ha effetti erga omnes, mentre le norme deontologiche
riguardano
soltanto i soggetti esercenti l’attività professionale forense.

In più, le norme deontologiche, per loro natura,
possono essere più restrittive delle norme ordinarie, in quanto riflettono
valori etici il cui ambito di applicazione può essere
più ampio di quello della norma ordinaria.

Tale distinzione – come si dirà tra poco – vale anche per gli
effetti civilistici degli accordi
conclusi con il cliente e per gli effetti deontologici di tali accordi, che
potrebbero essere divergenti.

3. Adeguamento dei codici deontologici alla nuova disciplina

Il rapporto tra i due ordini di norme è riflesso dall’art. 2 del
d.l., come convertito, il quale
dispone, al c.3, che < Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l'adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1 gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle>.

Poiché nel comma si fa riferimento alle norme (dentologiche) in contrasto
con quanto previsto al
c.1 – di cui si dirà – e si prevede che tali norme siano
in ogni caso nulle a partire dal 1 gennaio 2007, fino
a tale data le regole contenute nel nostro codice si debbono ritenere vigenti
e idonee a produrre effetto
(ovviamente, di natura deontologica)
.

Gli studiosi di diritto costituzionale
non hanno dubbi sul fatto
che la nullità di pattuizioni concluse a seguito di norme dichiarate
abrogate non immediatamente, ma
susseguentemente ad una determinata data, sia rispondente ai canoni di corretta
redazione legislativa.

Pertanto, sia che la nullità sia riferita:
– alle regole deontologiche considerate di natura pattizia ( e non quali norme
consuetudinarie);
– alla loro vera e propria abrogazione, se si trattasse di norme consuetudinarie;
– alle pattuizioni concluse tra i privati fondate sulle norme qualificate come
nulle (a decorrere da una
certa data),
gli effetti dell’art.2 del decreto come convertito non si produrranno
sul codice dentologico se non a decorrere dal 1 gennaio
2007.

In virtù del principio tempus regit actum gli accordi tra il
professionista e il cliente sono validi e
producono effetti ai fini civilistici, ma dal punto di vista deontologico sono
assoggettati al codice
forense vigente fino al 1 gennaio 2007, e dopo tale data alla versione del
codice che (ove la legge in
esame sia ancora vigente) risulterà dal suo adeguamento ad essa.

Va da sé che, ove il codice deontologico forense fosse modificato anteriormente
a tale data,
quanto sopra deve essere inteso come anticipato alla data di entrata in vigore
del codice deontologico
forense emendato.

Più oltre si esamineranno le fattispecie più ricorrenti che riguardano
concretamente la
distinzione tra effetti civilistici ed effetti deontologici della normativa
in esame.

4. Disciplina delle tariffe professionali

Considerati i presupposti di cui sopra, ne deriva che gli accordi relativi
ai compensi professionali
dal punto di vista civilistico possono essere svincolati dalle tariffe fisse
o minime (art.2 c.1 lett.a)), mentre
rimangono in vigore le tariffe massime.

Il fatto che le tariffe minime non siano più “obbligatorie” non
esclude che – sempre
civilisticamente parlando – le parti contraenti possano concludere un
accordo con riferimento alle
tariffe come previste dal D.M.

Tuttavia, nel caso in cui l’avvocato concluda patti che prevedano un
compenso inferiore al
minimo tariffario, pur essendo il patto legittimo civilisticamente, esso può risultare
in contrasto con gli
arttt. 5 e 43 c.II del codice deontologico in quanto il compenso irrisorio,
non adeguato, al di sotto della
soglia ritenuta minima, lede la dignità dell’avvocato e si discosta
dall’art. 36 Cost.

Poiché la nuova disciplina si occupa soltanto delle tariffe fisse o
minime, restano in vigore le
disposizioni che riguardano le tariffe massime (con le ipotesi in cui esse
possono essere derogate in
aumento).

Anche in questo caso le deroghe debbono essere effettuate mediante
patto scritto e non
possono implicare un compenso sproporzionato.

In ogni caso il D.M. è ancora in vigore per le tariffe ai fini della
liquidazione delle spese di
giudizio e dei compensi professionali sia in caso di liquidazione giudiziale
sia in caso di gratuito
patrocinio, ai sensi dell’art.2 c.2 del decreto così come convertito.

L’avvocato dunque può chiedere che
la controparte soccombente sia tenuta a pagare secondo tariffa (ma non secondo
gli accordi effettuati
con il cliente, di cui si dirà tra poco).

Ai sensi dell’art. 2 c.1 lett.a) del decreto convertito è possibile
parametrare il compenso al < raggiungimento degli obiettivi perseguiti>.
La formula un po’ ellittica
dovrebbe significare che
all’avvocato si può riconoscere da parte del cliente un premio,
proporzionato ai risultati conseguiti.
L’art. 45 c.I consente un aumento del compenso, giustificato dal risultato
conseguito e in limiti
ragionevoli.
Pertanto la formula legislativa può considerarsi omologa
a quella del codice deontologico.

Entro il 1 gennaio 2007 dovrà essere modificato il disposto dell’art.
43 c.V del codice
dentologico, essendo già ora legittimo civilisticamente concordare onorari
forfettari per le prestazioni
continuative in caso diverso dalla consulenza e dall’assistenza stragiudiziale.

In ogni caso, lo si ripete, anche dopo il 1 gennaio 2007, sarà possibile
sindacare il
comportamento deontologico, ai sensi degli artt. 5 e 43 c.II del codice , se
il compenso sia
sproporzionato all’impegno.

5. Patto sui compensi e patto di quota lite

La nuova disciplina aggiunge però un comma all’art.2 cit. che
riguarda ancora i compensi.
Il
testo ora dispone che il terzo comma dell’art. 2233 cod.civ. sia sostituito
dal seguente: «Sono nulli, se
non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti
abilitati con i loro clienti che
stabiliscono i compensi professionali».

Dal punto di vista civilistico, il patto è valido se rispetta l’onere
della forma scritta; esso può avere effetti solo tra le parti; non può essere opposto ai terzi, neppure
in giudizio, non quindi nei
confronti della controparte del cliente, né può essere richiesto
al giudice, in caso di liquidazione del
compenso e delle spese, che si attenga al patto.

Diverso è il discorso
tra avvocato e cliente: l’avvocato
può chiedere al giudice di liquidare il proprio compenso secondo quanto
stabilito nel patto (che,
civilisticamente parlando, è valido) ma come sopra si è detto
il suo comportamento può essere
segnalato all’Ordine di riferimento perché ne controlli la correttezza
deontologica con riguardo alla
proporzionalità del compenso rispetto all’attività prestata.

La disposizione in esame è stata intesa anche come tale da legittimare
il patto di quota lite, dal
momento che essa ha sostituito il testo dell’art. 2233 previgente del
cod.civ..

L’abrogazione non è effettuata nel senso di sopprimere
direttamente ed espressamente il divieto del patto di quota lite; la
disposizione si riferisce infatti in generale ai patti sui compensi.

Tuttavia,
la sostituzione implica che
viene meno il divieto esplicito e preciso concernente i patti .

Pertanto, ove dovesse maturare una interpretazione permissiva, occorre segnalare
che la nuova
disciplina non ha abrogato un’altra disposizione del codice civile, l’art.
1261 che fa divieto (tra gli altri
soggetti, anche) ad avvocati e patrocinatori di .

I patti con cui si cedono diritti dal cliente all’avvocato suo difensore
sono dunque nulli e
rimangono tali anche a seguito della entrata in vigore della nuova disciplina.

Per verificare – civilisticamente – la validità di un patto
concluso tra avvocato e cliente il cui oggetto sia il compenso
professionale sotto forma di patto di quota lite, occorre distinguere caso
da caso.

Si possono infatti distinguere:

(i) il patto di quota lite nella configurazione frutto di una lettura estensiva
dell’art. 2233, 3° comma, c.c.
e cioè come patto col quale si stabilisce un compenso correlato al risultato
pratico dell’attività svolta e
comunque in ragione di una percentuale sul valore dei beni o degli interessi
litigiosi; un patto di tal
natura deve ritenersi ora civilisticamente legittimo giusta la previsione del
comma 1, lett. a) dell’art. 2
della legge di conversione;

(ii) il patto di quota lite nella configurazione definibile come classica cioè quella
anche semanticamente
coerente con il divieto ex art. 2233, 3° comma, c.c., nel testo previgente:
questo tipo di patto deve
ritenersi tuttora civilisticamente vietato e nullo ex art. 1418 c.c. nella
misura in cui il suo assetto
concreto replica la previsione dell’art. 1261 c.c. e cioè quante
volte esso realizzi, in via diretta o indiretta,
la cessione del credito o del bene litigioso;

Sul piano deontologico, tuttavia :

– per effetto di quanto si è detto sub (i) la norma dell’art.
45 del codice deontologico forense va
adeguata – ex art. 2, comma 3, legge cit. – limitatamente a quella
sua parte in cui si vieta la pattuizione di
un compenso in percentuale rapportata al valore della lite;
– per effetto di quanto detto sub (ii) la norma dell’art. 45 del codice
deontologico forense non va
adeguata non essendo in questo caso la configurazione del patto di quota lite
ricompresa nel novero di
quelle rese lecite dal comma 1 dell’art. 2 legge cit.; essa andrà semmai
specificata nel senso che l’illiceità deontologica del patto sussiste
a misura che esso realizzi, direttamente o indirettamente, la cessione di
un credito o un bene litigioso.

6. Esecutività e parere di congruità

Se il patto tra avvocato e cliente è effettuato in forma scritta, si applica
comunque l’art. 633 c.1
cod.proc.civ., secondo il quale .

Il disposto del n. 2 (< se il credito riguarda onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali o rimborso di spese fatte da avvocati, procuratori, cancellieri, ufficiali giudiziari o da chiunque altro ha prestato la sua opera in occasione di un processo>), in risposta a quanti
hanno sollevato dubbi sulla
sua avvenuta abrogazione, rimane invariato: infatti non vi è alcun riferimento
e tanto meno
abrogazione esplicita nel testo normativo in commento.

Il parere di congruità può essere sempre fatto dall’Ordine,
tenendo conto quale parametro delle
tariffe in vigore ai fini della liquidazione giudiziale.

La valutazione di congruità rimane dunque necessaria a fini
esecutivi e posto che non vi sia
accordo scritto.

D’altra parte, il disposto dell’art. 633 cod.proc.civ.
prevede una particolare procedura
esecutiva per le prestazioni effettuate in occasione di un processo e per gli
avvocati in quanto tali per
l’esercizio professionale prestato.

Non è vietato l’uso
delle tariffe quale parametro di riferimento.

E
quindi l’Ordine richiesto del parere di congruità può fare
riferimento alle tariffe.

Se la tariffa è al di
sotto del minimo, l’Ordine distinguerà tra la congruità agli
effetti civilisitici, valutando il compenso alla
luce dell’attività prestata, ma valuterà anche il comportamento
deontologico dell’avvocato, come sopra
si è precisato.

7. Pubblicità informativa

La cornice entro la quale le altre disposizioni del decreto convertito che
riguardano la disciplina
della professione forense si debbono leggere dal punto di vista deontologico è sempre
data dall’art 5 del
codice (probità, dignità e decoro), dall’art.6 (lealtà e
correttezza) dall’art.9 (segretezza e riservatezza), dall’art.17
(informazioni sull’attività del
professionista), dall’art. 17 bis (mezzi di
informazione consentiti), dall’art. 18 (rapporti con la stampa) dall’art.
19 (accaparramento di clientela) e
dall’art.20 (uso di espressioni sconvenienti od offensive).

Ora, letto alla luce di queste disposizioni , il disposto dell’art.2
c.1 lett.b) del d.l. come convertito
non introduce novità di particolare momento.

Ed infatti, esso rimuove un divieto (anche parziale) i cui contenuti per molti
aspetti già sono
stati soppressi nel codice deontologico vigente.

Come si legge nel testo dell’art.2
c,1 lett.b) .

Innanzitutto preme sottolineare che le regole deontologiche in contrasto con
il d.l. rimangono
in vigore almeno fino al 1 gennaio 2007, termine entro il quale dovranno essere
adattate alle nuove
previsioni legislative, in quanto la rimozione immediata del divieto
riguarda regole legislative e
regolamentari, ma non le norme deontologiche, qualunque natura esse abbiano
.

In secondo luogo, delle disposizioni deontologiche sopra richiamate (artt.
5,6,9,17-20) nessuna
appare in contrasto con il disposto indicato.

Già gli artt. 17 e 17 bis
consentono l’ informazione ( che
nel d.l. prende il nome di pubblicità informativa).

Ora è appena
il caso di precisare che nel gergo del
marketing la pubblicità informativa riguarda due aspetti che possono investire
l’esercizio dell’attività forense: la pubblicità istituzionale, inerente al soggetto che la promuove,
e la pubblicità che ha lo scopo
di informare il pubblico delle caratteristiche del servizio prestato.

E comunque
usandosi l’espressione “pubblicità” ci si riferisce
alla disciplina prevista dalla l. n. 287 del 1990, e succ. integrazioni, che
sanziona il messaggio ingannevole.

Quanto alla pubblicità istituzionale, già ora è consentito
esibire i titoli che sono appropriati
all’esercizio professionale, sempreché non siano decettivi.

Si
possono esibire i diplomi di
specializzazione ( in quanto le “specializzazioni” di cui parla
il d.l. debbono essere riferite a
qualificazioni professionali ottenute mediante regolare procedura, là dove
le singole professioni lo
prevedano), mentre non si può utilizzare l’espressione “specializzazione” per
indicare i settori e le
materie di attività prevalente; occorre indicare allora non il termine “specializzazione”,
ma altro termine
non decettivo.
Vi è quindi perfetta coincidenza tra questo aspetto del
d.l. e il codice deontologico.

Quanto alle “caratteristiche del servizio offerto” è difficile
pensare a messaggi informativi che
non facciano riferimento alla diligenza professionale.

E’ lo stesso legislatore che sollecita gli Ordini a vigilare perché il
messaggio indichi con
trasparenza e veridicità .

A questo proposito assumono rilievo deontologico le regole già richiamate
a proposito della
appropriata retribuzione dell’avvocato.

Saranno perciò perseguibili
deontologicamente
gli avvocati che
espliciteranno, per l’attività stragiudiziale, una misura del
corrispettivo non adeguata alla dignità professionale e all’entità del
lavoro svolto, e,quanto alla attività giudiziale,
se la valutazione è fatta à forfait per una o più cause,
oltre al controllo sulla adeguatezza, si potrà effettuare il controllo
sulla
veridicità e trasparenza, qualora il cliente non sia informato sui gradi
della causa, sulle complicazioni
processuali, sulle fase istruttoria, e così via.

Il d.l. in esame non fa cenno né alla pubblicità comparativa
( che pure si era affacciata in precedenti
progetti di riforma delle professioni) né ai mezzi pubblicitari.

Pertanto, restano confermate le disposizioni
del codice deontologico
che vietano la pubblicità comparativa
e quelle che prevedono restrizioni in
materia di mezzi utilizzati
.

Non è ammesso l’uso di mezzi disdicevoli,
che contrastino con gli artt. 5,
17,17 bis, 18, 19, come gli organi di stampa, la radio e la televisione, l’affissione
di cartelli negli esercizi
commerciali, nei luoghi pubblici, etc..

Particolare attenzione dovrà essere prestata dagli Ordini all’utilizzazione
di Internet, dove già ora,
come in una selvaggia prateria, circolano messaggi di ogni tipo, altamente
reprensibili, quali
l’associazione di nomi di professionisti al server, oppure l’uso
di informazioni sulla legislazione e sulla
giurisprudenza per farsi pubblicità, etc..
Si tratta – per dirlo
con le stesse parole del testo in esame – di
pubblicità non informativa, non trasparente e quindi non ammissibile.

Non è neppure ammessa la pubblicità che si ottiene mediante insegne
che non rispondano ai
criteri di correttezza e dignità.

Anche i luoghi ove si svolge la professione
(nulla dicendo al riguardo il
decreto) possono essere sindacati deontologicamente: l’avvocato non può esercitare
in un
supermercato, in un esercizio commerciale aperto al pubblico sulla pubblica
via, etc..

Resta in ogni caso in vigore il divieto di accaparramento della clientela.

8. Forme associative dell’attività professionale.

Anche il disposto dell’art.2 c.1 lett.c) può essere letto in bonam
partem.

Il legislatore ha rimosso partecipare a più di una società e che la specifica prestazione
deve essere resa da uno o più soci
professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità>.

Il limite di esclusività stabilito dalla norma non può essere
inteso nel senso che la società o
l’associazione possa esercitare solo nell’ambito di un singolo
settore di attività professionale, ma
piuttosto nel senso che la società o l’associazione non possa
esercitare un’attività diversa da quella
, più generica, della
prestazione di servizi professionali
.

L’attività può ricomprendere
l’intero ambito delle
diverse discipline di elezione dei professionisti che partecipano alla società.

Tale norma, peraltro, non ha reale portata innovativa riguardo alle associazioni
tra
professionisti, poiché già l’art. 1 della legge 23.11.1939,
n. 1815, contempla la possibilità di associazioni
professionali tra esercenti professioni diverse, con la sola precisazione che
i soggetti partecipi della
associazione devono usare nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti
coi terzi, esclusivamente
la dizione di “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo
o tributario”, seguita dal
nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati.

La novità introdotta dalla norma consisterebbe, quindi, nel solo fatto
di consentire l’esercizio di
attività professionali multidisciplinari nella forma della società di
persone.

Va, tuttavia, rilevato che il divieto di costituzione di società professionali
multidisciplinari è già stato rimosso con l’art. 24 della legge 7 agosto 1997, n. 266 (c.d. legge
Bersani), che, al primo comma,
ha abrogato l’art. 2 della legge 23.11.1939, n. 1815 e, al secondo comma,
ha tuttavia previsto che «Ai
sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, il Ministro
di grazia e giustizia, di
concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato e,
per quanto di competenza,
con il Ministro della sanità, fissa con proprio decreto, entro centoventi
giorni dalla data di entrata in
vigore della presente legge, i requisiti per l’esercizio delle attività di
cui all’articolo 1 della legge 23
novembre 1939, n. 1815».

L’art. 2 del testo in esame non innova in alcun modo rispetto all’art.
24 della precedente legge e
non supera l’esigenza dell’emanazione di un regolamento di attuazione,
che individui i requisiti e il
contenuto della disciplina delle c.d. società professionali multidisciplinari,
posto che l’art. 24, comma 2,
della precedente legge Bersani è tuttora vigente.

Anzi, la nuova normativa
ha un’apparente portata
abrogativa che è più restrittiva della norma contenuta nell’art.
24, comma 2, in quanto ammette società professionali multidisciplinari
costituite soltanto nella forma delle società di
persone.

Restano, tuttavia, attuali i problemi connessi alla mancata emanazione del regolamento
governativo, sui quali si è, già in passato, espressa la giurisprudenza
di merito, che, per un verso ha
escluso che, in mancanza del regolamento di attuazione, possano essere costituite
società professionali
multidisciplinari nella forma della società di capitali, in presenza di
un rinvio ad un istituto non
introdotto da specifica fonte normativa e, quindi, indeterminato quanto a contenuto
e non valutabile
come conforme al sistema (Tribunale di Milano, decreto 27.05.1998 in Giur. It.,
1999, 1012) e, per altro
verso, ha ritenuto legittima la costituzione di tali società nella forma
delle società di persone e,
particolarmente, nella forma della società semplice (Tribunale di Milano,
decreto 5 giugno 1999, in
Società, 1999, pag. 984).

Di conseguenza, anche gli avvocati possono partecipare a società professionali
multidisciplinari
nella forma della società di persone, disciplinate dal codice civile,
non essendo di ostacolo il divieto, da
ritenersi tuttora vigente, di esercitare attività commerciali, stabilito
dall’art. 3 dell’ordinamento
professionale, perché tali società eserciterebbero una “impresa
civile”, che secondo parte della
giurisprudenza e della dottrina, rappresenterebbe un tertium genus rispetto
a
quella dell’impresa
commerciale e di quella agricola.

Deve, comunque, escludersi che a tali società possano partecipare anche
soggetti non esercenti
attività professionale per il disposto dell’art. 2232 c.c., che
impone al prestatore d’opera di eseguire
personalmente l’incarico
(in tal senso, T.A.R. Lazio, sez. III, 19.05.2000,
n. 4107).

Il principio della
personalità della prestazione, posto a presidio del rapporto fiduciario
tra cliente e professionista, esclude
che, in difetto di un’espressa e diversa previsione normativa l’incarico
professionale possa essere
conferito direttamente alla società professionale, ma non esclude l’imputazione
del compenso alla
stessa.

Resta da chiedersi se il decreto Bersani recentemente convertito in legge incida
sulla disciplina
delle STP, di cui al d. lgs.vo 2.02.2001, n. 96, approvato in attuazione della
direttiva 98/5/CE.

Ed invero, l’art. 16, comma 1, del richiamato decreto legislativo dispone
che «l’attività professionale di
rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio può essere esercitata
in forma comune esclusivamente
secondo il tipo della società tra professionisti, denominata nel seguito
società tra avvocati».

Pare, quindi, che la norma indicata si ponga come legge speciale, rispetto alla
disciplina generale,
escludendo che l’attività di rappresentanza e difesa giudiziale,
che è oggetto di tutela costituzionale,
possa essere esercitata in forma societaria diversa da quella delle STP.

Se così fosse, l’art. 2 del decreto convertito, avendo portata generale,
non potrebbe derogare la
disciplina speciale e avrebbe il solo effetto di consentire l’esercizio,
in forma di società, multidisciplinare
della sola attività di consulenza.

Quanto alle “associazioni”, sono ammesse anche associazioni temporanee,
ma esse debbono
essere esclusive
, perché il testo in esame mantiene il divieto di partecipare
a più associazioni o a più società di professionisti.

In ogni caso, vi è ribadita la personale responsabilità del professionista
per l’attività prestata.

Redazione

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