L’opinione del Consiglio Nazionale degli Architetti sulle tariffe professionali

Il Consiglio Nazionale degli Architetti, nella seduta del 7 settembre,
intervenendo sul ‘regime dei compensi professionali a seguito
dell’entrata
in vigore del decreto Bersani’ (D.L. 223/2006, come
convertito dalla legge 248/2006), ha così concluso:

1) Il
compenso
professionale è sì liberamente contrattabile tra cliente e iscritti all’albo,
ma comunque sempre "nel rispetto dell’importanza dell’opera
e del decoro della professione, così come stabilito dall’art.
2233 c.c.";

2) in mancanza di accordo, si applica l’art. 2233 c.c., che
prevede il ricorso alle tariffe
e agli usi;

3) il decreto Bersani non
ha abrogato gli artt. 253 e 92 del Codice dei Contratti Pubblici (d.lgs. n.
163/2006) e, pertanto, continuano ad applicarsi per gli iscritti all’albo
le tabelle dei corrispettivi di cui al d.m. 4 aprile 2001;

4) se anche il decreto Bersani avesse abrogato
i citati artt. 253 e 92, le stazioni appaltanti dovrebbero, in ogni caso, dar
conto dei criteri e della
base
adottata
per la determinazione dei compensi professionali, "con specifica motivazione
della loro adeguatezza con riferimento alle procedura di evidenza pubblica
promossa";

5) se anche il decreto Bersani avesse abrogato
i citati artt. 253 e 92, risulterebbero "abrogate esclusivamente le disposizioni
delle leggi regionali che operano un rinvio formale alla disciplina legislativa
nazionale";

6) per quanto concerne le leggi regionali che hanno operato un
rinvio materiale alla disciplina nazionale "continua ad essere vigente quanto
previsto
nel D.M. 4 aprile 2001".

Di seguito, il testo integrale della circolare.


. . . . . . .

Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti
e
Conservatori

Determinazione: nr. 2/2006

Oggetto: Regime dei compensi professionali a seguito dell’entrata in vigore
del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, così come convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 248/2006

A seguito della entrata in vigore del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223,
così come
convertito, con modificazioni, della legge 4 agosto 2006, n. 248, il Consiglio
nazionale, nella seduta del 7 settembre 2006, ha adottato la seguente determinazione
al fine di offrire una prima ricostruzione della disciplina legislativa, sulla
cui base promuovere una interpretazione condivisa dalle competenti Autorità ed
Amministrazioni, centrali e territoriali, che assicuri la certezza del diritto
a salvaguardia del legale esercizio della professione e degli interessi generali
ad esso connessi.

Considerato in fatto

Con riferimento al regime in epigrafe, in data 4 luglio 2006 è entrata
in vigore la disposizione dell’art. 2 del decreto legge n. 223/2006, che
prevede quanto segue:
“1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello
di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al
fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio
dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla
data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni
legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero
professionali e intellettuali:
a) la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime ovvero il divieto di
pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;
(…).
2. Sono fatte salve le disposizioni riguardanti (…) le eventuali tariffe
massime prefissate in via generale a tutela degli utenti.
(…)”.

In sede di conversione, la lett. a) della disposizione è stata così modificata:
1

(…)
a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime ovvero il divieto di pattuire
compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti;
(…)”.
E il secondo comma è stato così modificato:
2. Sono fatte salve le disposizioni riguardanti (…) le eventuali tariffe
massime prefissate in via generale a tutela degli utenti. (…) Nelle procedure
ad evidenza pubblica, le stazioni appaltanti possono utilizzare le tariffe, ove
motivatamente ritenute adeguate, quale criterio o base di riferimento per la
determinazione dei compensi per attività professionali.

La legge di conversione è entrata in vigore il 12 agosto 2006 ed è tale
disciplina che trova attualmente vigenza nell’ordinamento interno.

Ritenuto in diritto

1. Alla data del 4 luglio 2006, il regime dei compensi delle
prestazioni rese
dagli iscritti agli albi è così articolato:

a) La disciplina legislativa a carattere generale ha indice:

– nell’articolo unico della legge 4 marzo 1958, n. 143: “Le tariffe
degli onorari e delle indennità ed i criteri di rimborso delle spese agli
ingegneri ed agli architetti sono stabilite mediante decreto del Ministro per
la grazia e giustizia, di concerto con il Ministro per i lavori pubblici, su
proposta dei Consigli nazionali riuniti degli ingegneri e degli architetti, sentite,
da parte dei Consigli stessi, le organizzazioni sindacali a carattere nazionale
delle due categorie”;
– nell’articolo unico della legge 5 maggio 1976, n. 340, che ha aggiunto
il seguente comma all’articolo unico della legge n. 143/1958: “I
minimi di tariffa per gli onorari a vacazione, a percentuale ed a quantità,
fissati dalla legge 2 marzo 1949, n. 143, o stabiliti secondo il disposto della
presente legge, sono inderogabili. L’inderogabilità non si applica
agli onorari a discrezione per le prestazioni di cui all’art. 5 del testo
unico approvato con la citata legge 2 marzo 1949, n. 143”.

b) Il regime delle prestazioni rese dagli iscritti all’albo nel settore
dei lavori pubblici ha indice:

– negli artt. 253 e 92 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e in particolare:
– nell’art. 253, comma 17: “Fino all’emanazione del decreto di cui
all’articolo 92, comma 2, continua ad applicarsi quanto previsto nel decreto
del Ministro della giustizia del 4 aprile 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 96 del 26 aprile 2001”;
– nell’art. 92, comma 2: “Il Ministro della giustizia, di concerto
con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, determina, con proprio
decreto, le tabelle dei corrispettivi delle attività che possono essere
espletate dai soggetti di cui al comma 1 dell’articolo 90, tenendo conto delle
tariffe previste per le categorie professionali interessate. I corrispettivi
sono minimi inderogabili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo unico della
legge 4 marzo 1958, n. 143, introdotto dall’articolo unico della legge 5 maggio
1976, n. 340. Ogni patto contrario è nullo”;

c) Il criterio ordinatore ai sensi dell’art. 117 Cost. del riparto della
competenza legislativa tra lo Stato e le Regioni è dato dell’art.
4 del d.lgs. n. 163/2006, che vale qui richiamare integralmente:

“ Competenze legislative di Stato, Regioni e Province autonome
1. Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la potestà normativa
nelle materie oggetto del presente codice nel rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e delle disposizioni relative a materie di competenza
esclusiva dello Stato.
2. Relativamente alle materie oggetto di competenza concorrente, le Regioni
e le Province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la potestà normativa
nel rispetto dei principi fondamentali contenuti nelle norme del presente codice,
in particolare, in tema di programmazione di lavori pubblici, approvazione dei
progetti ai fini urbanistici ed espropriativi, organizzazione amministrativa,
compiti e requisiti del responsabile del procedimento, sicurezza del lavoro.
3. Le Regioni, nel rispetto dell’articolo 117, comma secondo, della Costituzione,
non possono prevedere una disciplina diversa da quella del presente codice
in relazione: alla qualificazione e selezione dei concorrenti; alle procedure
di
affidamento, esclusi i profili di organizzazione amministrativa; ai criteri
di aggiudicazione; al subappalto; ai poteri di vigilanza sul mercato degli
appalti
affidati all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture;alle attività di progettazione e ai piani di sicurezza;
alla stipulazione e all’esecuzione dei contratti, ivi compresi direzione dell’esecuzione,
direzione dei lavori, contabilità e
collaudo, ad eccezione dei profili di organizzazione e contabilità amministrative;
al contenzioso.
Resta ferma la competenza esclusiva dello Stato a disciplinare i contratti
relativi alla tutela dei beni culturali, i contratti nel settore della difesa,
i contratti
secretati o che esigono particolari misure di sicurezza relativi a lavori,
servizi, forniture.
4. Nelle materie di competenza normativa regionale, concorrente o esclusiva,
le disposizioni del presente codice si applicano alle Regioni nelle quali non
sia ancora in vigore la normativa di attuazione e perdono comunque efficacia
a decorrere dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione adottata
da ciascuna Regione.
5. Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano
adeguano la propria legislazione secondo le disposizioni contenute negli statuti
e nelle
relative norme di attuazione”.

2. Ciò premesso, vale ora entrare nel merito della portata e del significato
della disposizione dell’art. 2, comma 1, lett. a) della legge n. 248/2006,
muovendo dalla constatazione che – diversamente da quanto previsto nella
legge n. 143/1958 e nel d.lgs. n. 163/2006 (art. 92, comma 2) – il suo ambito
applicativo è declinato non in ragione della “qualifica” del
soggetto, ma piuttosto in ragione della “natura” dell’attività (v.,
infra, §. 6).

Esso infatti assume a termine di riferimento “le prestazioni libero-professionali” e
quelle “intellettuali”, tra l’altro operando un distinguo le
cui implicazioni meritano di essere attentamente valutate, se è vero che:
(i) non tutte le prestazioni “professionali” sono “libero-professionali” (v.
art. 90 d.lgs. n. 163/2006);
(ii) non tutte le prestazioni “intellettuali” sono “professionali” (v.
art. 2751.bis, comma 1, nr. 2, c.c.);
(iii) non tutte le prestazioni “professionali” hanno
carattere intellettuale (v. d.lgs. 8 agosto 1991, n. 258).

Con tale considerazione – che rimette in discussione ogni facile identificazione
dell’ambito applicativo della legge n. 248/2006 con le tariffe ex lege
n. 143/1958 e d.lgs. n. 163/2006 – non si vuole certo, qui, enfatizzare l’importanza
del criterio definitorio ai fini della ricognizione della portata della legge,
ma semplicemente evidenziare che il dato normativo va colto nella sua oggettività e
la disposizione deve essere interpretata senza pregiudiziali prese di posizione.

Al contempo, si vuole sottolineare che la portata concreta dell’art. 2
può essere apprezzata solo svolgendo il giudizio di comparazione con riferimento
alle disposizioni degli ordinamenti di settore, che regolano i compensi dei professionisti.

3. Il dato di partenza è costituito dalla constatazione che la legge n.
248/2006, diversamente da quanto originariamente disposto dal decreto-legge n.
223, non abroga le disposizioni che fissano le tariffe, minime e fisse, ma piuttosto,
la loro “obbligatorietà” (ove prevista).

Se ne deduce che l’articolo unico della legge n. 143/1958 è tutt’ora
vigente con riferimento al primo comma.

3.1. Più problematica appare invece la valutazione dei termini di incidenza
dell’art. 2 sul successivo comma, introdotto dalla legge n. 340/1976.

Dal confronto tra quest’ultimo e il dettato testuale della legge n. 248/2006
emerge come il primo riconosca alle tariffe il carattere della “inderogabilità”,
mentre la seconda assume a riferimento quello della “obbligatorietà”.

E’ evidente che l’affermazione per la quale l’inderogabilità configura
una forma di obbligatorietà delle tariffe deve costituire l’eventuale
risultato, e non certamente il punto di partenza, di una ricostruzione della
disciplina legislativa che non può prescindere dalla valutazione del contesto
normativo nel quale la disposizione dell’art. 2 viene a inserirsi.

A questo riguardo, si rileva come negli ordinamenti delle professioni intellettuali – e,
in particolare, in quello degli architetti – l’inderogabilità,
in difetto di una espressa previsione, non comporti di per sé la sanzione
della nullità – e cioè a dirsi non determina la nullità del
patto convenuto in deroga alle tariffe professionali – per cui sul piano normativo
non è così agevole riconoscere quella valenza obbligatoria, che
consentirebbe di ricondurre la legge n. 143/1958 nell’ambito operativo
della legge n. 248/2006.

Entrando nel merito della legge n. 340/1976, il suo valore è stato chiarito
dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che è costante nel ritenere
– con le parole della sentenza 19 ottobre 1988, n. 5675, che per la sua chiarezza
e completezza merita di essere riportata – che:
“non è affetto da nullità (ai sensi dell’art. 1428, 1° comma,
cod. civ.), in difetto di previsione espressa in tal senso – secondo l’insegnamento
costante di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 224-86, 260-83, 6034-82,
2875-2877-82, 1053-80 delle sezioni unite, 3273-79 di sezione semplice) – il
patto in deroga ai minimi inderogabili di tariffe professionali, essendo questi
stabiliti nell’interesse (al decoro ed alla dignità) delle categorie
professionali, – che può essere tutelato adeguatamente, in sede disciplinare
(oltre la giurisprudenza citata, vedi Cass. n. 669-71) -, e non
già nell’interesse generale dell’intera collettività,
il solo idoneo ad attribuire carattere di imperatività al precetto ed
a rendere nulli patti (ed in genere, negozi) ad esso contrari (ai sensi del citato
art. 1418, 1° comma. c.c.).

Ora la disposizione (articolo unico della legge
5 maggio 1976 n. 340) – che stabilisce l’inderogabilità di
(alcuni dei) minimi della tariffa professionale per ingegneri e architetti – non
reca la previsione espressa di nullità dei patti in deroga (quale previsione
dell’art. 24, ultimo comma, della legge 13 giugno 1942, n. 794, con riferimento
ai minimi di avvocati e procuratori). Peraltro ha carattere prioritario – nella
gerarchia delle fonti di determinazione del compenso per prestazioni professionali
(ai sensi dell’art. 2233 c.c.) e può risultare “per facta
concludentia” (vedi per tutte, Cass. n. 224-86 cit., anche in motivazione)
il patto (anche in deroga ai minimi tariffari) che sia stato stipulato fra le
parti”.

Secondo la Corte, il carattere della inderogabilità è funzionale
a presidiare l’interesse della categoria professionale, per cui non è in
grado di incidere sulla previsione del 1° comma dell’art. 2233 c.c.
che riconosce alle parti il potere di stabilire liberamente il compenso professionale.

Esso opera “in sede disciplinare”, per cui spetta al sistema ordinistico
determinare le conseguenze del mancato rispetto delle tariffe da parte del professionista,
senza che ciò abbia effetti sulla validità dell’accordo stipulato
con il cliente.

Ne consegue che l’obbligatorietà non è un effetto immediato
della disposizione normativa, ma piuttosto il (possibile) risultato della concorrente
applicazione della (eventuale) regola dettata, in sede disciplinare, dagli organi
rappresentativi della categoria (sul potere di autogoverno degli Ordini, cfr.,
per tutti Cass., 15 maggio 1990, n. 4187; Cass. 17 gennaio 1991, n. 401).

E se è vero che, nel caso di specie, la deontologia svolge una funzione
integratrice della norma che dispone la inderogabilità, è altresì vero
che quest’ultima, a sua volta, si connota (anche) in funzione del secondo
comma dell’art. 2233 c.c. che stabilisce che “in ogni caso la misura
del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al
decoro della professione”.

In altre parole, quando la legge n. 340/1976 stabilisce l’inderogabilità delle
tariffe disposte dalla legge n. 143/1958 non definisce un sistema chiuso e autoreferenziale,
ma svolge e dà attuazione al codice civile e, più precisamente,
al principio generale per il quale il compenso professionale deve “in ogni
caso” essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro
della professionale (v., infra, §. 9).

Ciò emerge, a tutta evidenza, dal primo comma dell’art. 2233 c.c.
che stabilisce non solo che, se non convenuto, il compenso è stabilito
dalle tariffe, ma vincola alle stesse il sindacato del giudice.

E che l’art. 2233 c.c. sia espressione di un principio generale dell’ordinamento
risulta anche dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione che, ancora di recente,
ha affermato che "l’esigenza di tutela del decoro della professione da parte
dei Consigli dell’Ordine è configurabile anche in relazione ad atti formalmente
legittimi" (Cass. 6 aprile 2001, n.5156).

Il che consente di comprendere la decisione del Parlamento di emendare la versione
originale del decreto-legge al fine di salvaguardare le disposizioni che fissano
le tariffe minime e fisse.

3.2. In questo quadro, è da escludere che l’entrata in vigore dell’art.
2 della legge n. 248/2006 abbia modificato il regime che disciplina il compenso
professionale degli architetti nei termini in cui – diversamente da quanto
previsto per altre categorie, come gli avvocati – lo stesso è liberamente
pattuibile tra le parti e le tariffe trovano applicazione solo in mancanza di
accordo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2233 c.c.

4. Tale conclusione ha delle significative implicazioni sul
piano delle regole di deontologia professionale.

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2, l’autonomia del
professionista trova il suo unico limite nel principio generale per cui il compenso
deve essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della
professione.

Si tratta di un limite inderogabile, che come tale è suscettibile di assumere
rilevanza in sede disciplinare.

Ciò comporta l’esigenza di valutare di volta in volta e con riferimento
al regolamento di interessi concretamente adottato dalle parti la conformità del
compenso ai criteri dettati dall’art. 2233 c.c.

Ora non si può fare a meno di ritenere che di tale valutazione le tariffe
ex lege n. 143/1958 rappresentano il primario parametro di riferimento nei termini
in cui, ai sensi dello stesso art. 2233 c.c., le stesse costituiscono la fonte
integrativa del mancato accordo tra le parti.

Con l’avvertenza, però, che le tariffe possono configurare un importante
indice di valutazione con esclusivo riferimento a quei criteri di
calcolo che assumono come valore l’importanza dell’opera o il decoro
della professione; con l’avvertenza, infine, che più che dal criterio
in quanto tale, è dalla regola di cui quest’ultimo è espressione
che deve essere tratto, in sede disciplinare, l’indice per svolgere il
giudizio di conformità ai sensi del combinato disposto dell’art.
2233 c.c. e della legge n. 340/1976.

E’ in questa prospettiva che può ritenersi che l’articolo
unico della legge n. 340/1976 sia ancora in vigore quale norma di chiusura della
previsione dell’art. 2233 c.c.

5. Per le ragioni e nei termini di cui innanzi, in conclusione è da
ritenersi
che:

a) le parti sono tenute a definire il loro compenso in modo adeguato all’importanza
dell’opera e al decoro della professione ai sensi dell’art. 2233,
primo comma, c.c.;

b) in caso di mancato accordo, il compenso è definito dalle tariffe emanate
ai sensi dell’art. 1 della legge n. 143/1958;

c) quanto stabilito nelle tariffe costituisce primario termine di riferimento
per apprezzare l’adeguatezza del compenso, convenuto pattiziamente, all’importanza
dell’opera e al decoro della professione, così come richiesto dall’art.
2233, primo comma, c.c.;

d) il mancato rispetto dei criteri posti dall’art. 2233, primo comma, c.c.
per la determinazione del compenso professionale può assumere rilevanza
in sede disciplinare.

5.1 Vale infine richiamare l’attenzione sul fatto che:

a) le considerazioni appena svolte circa la fonte pattizia e i criteri dell’importanza
dell’opera e del decoro della professione valgono per tutte le categorie
iscritte all’albo;

b) mentre le considerazioni circa il ruolo e la funzione delle tariffe riguardano
le sole categorie destinatarie della legge n. 143/1958 e, quindi, gli architetti
e, se del caso, gli architetti junior.

6. Con riferimento alle prestazioni rese nel settore dei
lavori pubblici, occorre
valutare se o in che termini l’ambito operativo dell’art. 2 della
legge n. 248/2006 si estenda a quanto previsto nel d.lgs. n. 163/2006.

Solo successivamente sarà possibile affrontare la questione con riferimento
alle leggi regionali.

6.1. Si è già richiamata l’attenzione sulla circostanza di
fatto e di diritto per cui l’abrogazione disposta dall’art. 2 della
legge n. 248/2006 ha ad oggetto le disposizioni, legislative e regolamentari, “con
riferimento alle attività libero professionali e intellettuali” (v.,
supra, §. 2).

Ciò comporta che il criterio distintivo in ragione del quale accertare
l’ambito operativo dell’abrogazione è costituito dalla “natura” dell’attività.

E’ evidente che l’assunzione di un tale criterio pone un problema
significativo circa i termini di incidenza sull’art. 253, comma 17, del
d.lgs. n. 163/2006 secondo cui – fino alla ridefinizione delle tabelle dei corrispettivi
ad opera del Ministro della Giustizia – “continua ad applicarsi quanto
previsto nel decreto del Ministro della giustizia del 4 aprile 2001, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 26 aprile 2001”.

Ciò in quanto tali tabelle hanno ad oggetto le “attività che
possono essere espletate dai soggetti di cui al comma 1 dell’articolo 90” (art.
92, comma 2).

Ciò significa che il d.lgs. n. 163/2006 assume a riferimento non la “natura” dell’attività,
ma piuttosto il “soggetto” che la pone in essere, risultando affatto
indifferente se tale attività abbia carattere “professionale”, “libero-professionale” ovvero “intellettuale”.

Ed è agevole constatare che tra i soggetti abilitati ai sensi dell’art.
90 non ci sono solo i professionisti, ma anche le loro forme organizzative unitamente
a soggetti pubblici e alle società di ingegneria.

Volendo qui circoscrivere le considerazioni ai soli operatori privati, si deve
osservare che in dottrina e giurisprudenza non si dubita che le società di
ingegneria siano riconducibili nell’ambito della categoria delle imprese
commerciali in quanto “l’attività dei professionisti si integra
in una più complessa attività di impresa, con il conseguente acquisto
della qualità di imprenditore commerciale (art. 2238 c.c.)” (A.GAMBINO,
Impresa e società di persone, Torino, 2004, p. 119), fondandosi il distinguo
rispetto alle società professionali ora in ragione del dato quantitativo
e dimensionale del soggetto (cfr. Pret. Pen. Genova, 16 luglio 1977) ora in ragione
del dato discretivo, di tipo qualitativo, basato sul risultato della prestazione
dedotta nel contratto (cfr. Cass., 10 giugno 1994, n. 5648).

A ciò si aggiunga che, sempre in dottrina, si contesta che, al di là della
denominazione, le stesse “società di professionisti” – originariamente
previste dall’art. 17 della legge c.d. Merloni ed oggi disciplinate dall’art.
90, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 – possano essere esentate dal regime
dell’impresa ex art. 2238 c.c. in quanto il loro modulo organizzativo non è conforme
al principio di professionalità specifica di cui all’art. 33, comma
5, Cost. (su tale principio cfr. C.Cost., 15-22 gennaio 1976, n. 17; Cons.Stato
pareri nn. 35/1998 e 72/1998).

Va altresì tenuto conto che ai sensi dell’art. 90, comma 1, del
d.lgs. n. 163/2006 le prestazioni possono essere rese anche dalle società professionali
ex lege n. 1815/1939, dai “raggruppamenti temporanei” e dai “consorzi
stabili di società di professionisti e di società di ingegneria,
anche in forma mista” (art. 90, comma 1): tutti soggetti che non possono
erogare prestazioni “libero professionali”, ma piuttosto prestazioni
assimilabili a queste ultime.

6.2. In questo quadro, alla riconduzione dell’art. 253
nell’ambito
operativo dell’art. 2 non conseguirebbe l’abolizione del regime tariffario
nel settore dei lavori pubblici, ma piuttosto l’instaurazione di un doppio
regime: le prestazioni rese dal libero professionista sarebbero soggette all’art.
2233 c.c., mentre quelle rese da(gl)i (altri) soggetti di cui all’art.
90 continuerebbero ad essere soggette alla tabella dei corrispettivi ex art.
253.

Un risultato, quest’ultimo, che non solo renderebbe inapplicabile la disciplina
legislativa sugli appalti di servizi al settore dei lavori pubblici – ordinata
sul confronto concorrenziale – ma la esporrebbe a gravi riserve di costituzionalità per
violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 e del principio di imparzialità dell’amministrazione
ex art. 97.

6.3. Si tratta di un risultato inaccettabile in quanto secondo
il costante indirizzo
della Corte costituzionale “le leggi non si dichiarano incostituzionali
perché è possibile darne una interpretazione incostituzionale,
ma perché non è possibile darne una interpretazione costituzionale” (sentt.
Corte cost., nn. 356 del 1996; 200 del 1999 e numerose altre).

Ed è evidente che è possibile dare una interpretazione della disciplina
legislativa conforme a Costituzione proprio muovendo e attenendosi al dettato
testuale dell’art. 2 che identifica il suo ambito operativo con “le
disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero
professionali e intellettuali: a) l’obbligatorietà di tariffe fisse o
minime (…)”.

Tali disposizioni – lo si è visto – sono certamente identificabili
con quelle che declinano le tariffe che hanno tipicamente ad oggetto le prestazioni
professionali, ossia con le c.d. tariffe professionali.

6.4. Vero è che la rubrica dell’art. 2 fa riferimento
al “settore
dei servizi professionali”, per cui si potrebbe essere tentati di estendere
la sua portata anche i servizi resi dalle società di ingegneria in ragione
del fatto che includono prestazioni professionali.

Tale ipotesi ricostruttiva non può, però, trovare accoglimento
in quanto, svolgendone le implicazioni, poiché alla formula “servizi
professionali” non corrisponde contenuto normativo alcuno, non si può fare
a meno di ritenere che l’abrogazione dovrebbe interessare non solo quelli
resi dalle società di ingegneria, ma tutti i servizi imprenditoriali alla
cui erogazione concorrono i professionisti, posto che non sono rinvenibili concreti
indici di diritto positivo in ragione dei quali stabilire quando la prestazione
professionale per la sua rilevanza (qualitativa e/o quantitativa) connoti in
senso professionale il servizio di cui costituisce una articolazione.

Un risultato, quest’ultimo, che sembra andare ben al di là del disposto
dell’art. 2, quando ha definito il suo ambito applicativo con riferimento
alle “prestazioni libero-professionali”.

D’altro canto – e a definitiva conferma della tesi qui sostenuta
– è proprio con riferimento alle prestazioni professionali che l’espressione “servizi
professionali” viene assunta nella letteratura antitrust (cfr. Autorità Garante
del Mercato e della Concorrenza, “Indagine conoscitiva nel settore degli
ordini e collegi professionali”).

7. Sul piano della valutazione legislativa, si deve ancora
notare che l’estraneità delle
tabelle dei corrispettivi all’ambito operativo dell’art. 2 della
legge n. 248/2006 trova ulteriore fondamento – ai sensi dell’art. 15 delle “Disposizioni
preliminari al codice civile” – in ragione della valenza sistematica rivestita
dal d.lgs. n. 163/2006.

Come emerge dalla rubrica – “Codice dei contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE” – il
provvedimento si connota come fonte di recepimento del diritto comunitario e,
ai sensi dell’art. 4, detta i principi fondamentali nel rispetto dei quali
le Regioni possono esercitare la loro potestà legislativa ai sensi dell’art.
117 Cost.

Ciò porta a ritenere che il d.lgs. n. 163/2006 configura un nucleo organico
di norme, con un autonomo assetto di valori, che designando un “micro-sistema”, deve essere valutato in ragione della propria logica settoriale
(cfr. N.IRTI, L’età della decodificazione, Milano, 1999, p. 71).

Tale logica va ovviamente colta alla luce dei principi del diritto comunitario,
a cui il provvedimento dà attuazione nell’ordinamento interno.

Si tratta dei principi che vengono espressamente richiamati anche dalla legge
n. 248/2006 quando, all’art. 2, dichiara – tra le finalità –
che il provvedimento è stato assunto: “In conformità al principio
comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione
delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti
un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di
comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in
vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari
che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali:
(…)”.

Per poter cogliere la valenza dei suddetti principi nel settore degli appalti
di servizi il riferimento obbligato è alle Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE,
di cui il d.lgs. n. 163/2006 dispone il recepimento.

Ebbene l’analisi normativa evidenzia, senza dubbio alcuno, che il diritto
comunitario di settore è favorevole alla ammissibilità di tariffe
per la remunerazione di specifici servizi.

L’art. 53 delle Direttiva 18/2004, nel dettare i criteri di aggiudicazione
dell’appalto, dispone che sono “Fatte salve le disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative nazionali relative alla rimunerazione di servizi
specifici”.

Sotto il profilo sistematico, ciò porta a concludere che la lettura qui
svolta – secondo la quale le tabelle dei corrispettivi stabilite per i lavori
pubblici, ai sensi del combinato disposto degli artt. 253 e 92 del d.lgs. n.
163/2006, continuano a trovare applicazione anche a seguito della entrata in
vigore della legge n. 248/2006 in quanto estranee all’ambito applicativo,
soggettivo ed oggettivo, dell’art. 2 – trova pieno riscontro normativo
e conferma nelle stesse finalità della legge n. 248/2006, nei termini
in cui quest’ultima dichiara di porsi in attuazione dei principi dell’ordinamento
comunitario (per l’insegnamento secondo cui le finalità della legge
costituiscono criterio per l’interpretazione della disposizione denunciata
che consenta di escludere la illegittimità costituzionale, cfr., per tutti,
C.Cost., 16 aprile 1998, n. 117; C.Cost., 18 luglio 1996, n. 331); principi che – per
quanto attiene al settore dei servizi pubblici – trovano espressione nella
Direttiva 18/2006, che all’art. 53 riconosce l’ammissibilità di
tariffe per specifici servizi.

Un’impostazione che, in sede di recepimento, ha trovato riscontro nella
previsione dell’art. 81, comma 1, che dispone che “Nei contratti
pubblici, fatte salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
relative alla remunerazione di servizi specifici, la migliore offerta è selezionata
con il criterio del prezzo più basso o con il criterio dell’offerta economicamente
più vantaggiosa”.

7.1. Né vale sostenere che la Direttiva si limita a
salvaguardare le remunerazioni stabilite dalla legge interna, per cui – dato
che è quest’ultima
a stabilire se o in che termini i regimi tariffari trovino applicazione – l’entrata
in vigore della legge n. 248/2006 avrebbe comportato l’abrogazione della
tabella dei corrispettivi per i lavori pubblici.

Vero è che, infatti, che l’art. 2 della legge n. 248/2006 non ha
ad oggetto l’abrogazione del combinato disposto dell’art. 253 e 92
del d.lgs. n. 163/2006.

Pertanto, in mancanza di una espressa indicazione legislativa, la questione
della sua abrogazione deve essere affrontata in via interpretativa sulla base
delle
regole che presiedono il processo ermeneutico, con particolare riferimento
agli artt. 12 e 15 delle “Disposizioni preliminari al codice civile”,
che – anche volendo trascurare le differenze terminologiche tra il dettato
testuale della legge n. 248/2006, che parla di “tariffe”, e il d.lgs.
n. 163/2006, che discorre di “tabelle dei corrispettivi” – risolvono
il giudizio di comparazione a favore della legge speciale.

Sotto il profilo storico, va ancora rilevato che il d.lgs. n. 163/2006 era
già stato
oggetto di un apposito intervento legislativo in questa legislatura. Con la legge
12 luglio 2006, n. 228 – di conversione del decreto-legge 12 maggio 2006,
n. 173 (c.d. Milleproroghe) – è stata disposta dal Governo la sospensione
di una serie di norme del Codice degli appalti, ma nessuna di esse ha avuto ad
oggetto il regime dei corrispettivi.

Il che non può non costituire un ulteriore, significativo indice a favore
della (volontà di) permanenza delle tabelle dei corrispettivi dettati
dal d.lgs n. 163/2006.

8. In questo quadro, vale ora esaminare la portata del comma
2 dell’art.
2, che prevede che “Nelle procedure ad evidenza pubblica, le stazioni appaltanti
possono utilizzare le tariffe, ove motivatamente ritenute adeguate, quale criterio
o base di riferimento per la determinazione dei compensi per attività professionali”.

Si è detto che la disposizione è stata introdotta in sede di conversione
del decreto-legge n. 223/2006.

In prima approssimazione sembrerebbe che tale norma, facendo riferimento alle “procedure
di evidenza pubblica”, miri a colmare il vuoto normativo che consegue all’operatività dell’art.
2 nel settore degli appalti pubblici, con ciò fornendo un possibile riscontro
normativo all’ipotesi dell’abrogazione degli artt. 253 e 92 del d.lgs.
n. 163/2006.

La lettura, però, non convince in quanto il secondo comma dell’art.
2 non sembra connotarsi come norma di chiusura a carattere generale dato che
esso, logicamente ancorché implicitamente, trova applicazione solo a condizione
che:
(i) le leggi di settore non prevedano altre discipline (anche solo orientative);
(ii) e siano, in ogni caso, rinvenibili tariffe professionali di settore.

Ne consegue che la stessa portata del secondo comma va colta in funzione dei
singoli ordinamenti di settore e, quindi, con riferimento ai lavori pubblici
non può fornire un argomento definitivo a favore dell’operatività della
legge n. 248/2006.

D’altra parte non si può fare a meno di constatare che nel d.lgs.
n. 163/2006 non tutte le procedure per l’affidamento dei servizi de quibus
si connotano come di evidenza pubblica (con riferimento alla legge n. 109/1994
cfr. Cons. Stato, 30 agosto 2006, n. 5063): si pensi all’art. 57 che regola
la “procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara”.

8.1. Con tale constatazione non si vuole qui negare che il
secondo comma dell’art.
2 possa avere come destinatarie le stazioni appaltanti del settore dei lavori
pubblici.

Vero è, infatti, che le tabelle dei corrispettivi non coprono tutte le
prestazioni che possono essere rese dai professionisti, per cui è da ritenersi
che quelle non regolate ai sensi del combinato disposto degli artt. 253 e 92
del d.lgs. n. 163/2006 possono essere remunerate ai sensi e per gli effetti dell’art.
2, comma 2, della legge n. 248/2006.

9. Quanto previsto all’art. 2, comma 2, impone una ulteriore
considerazione,
che ha implicazioni operative di assoluto rilievo.

La legge richiede che le stazioni appaltanti possano assumere le tariffe professionali
quale criterio per gli appalti pubblici “ove motivatamente ritenute adeguate”.

La stazione appaltante deve, pertanto valutare e spiegare le ragioni per cui
le tariffe costituiscono il riferimento più adeguato per la procedura
di appalto.

Si tratta di un onere, che può essere considerato quale espressione di
un più ampio dovere, che grava sulla stazione appaltante in attuazione
dell’art. 97 Cost., di adottare i criteri e i parametri più adeguati
con riferimento alla proceduta posta in essere.

Certo è, infatti, che intanto la stazione appaltante potrà o meno
adottare le tariffe professionali in quanto abbia valutato se o in che termini
le tariffe o la diversa base prescelta costituiscano il parametro più adeguato
per la determinazione dei compensi professionali.

Anche in considerazione del fatto che il principio di adeguatezza trova espressione
nell’art. 2233 c.c. (v., supra, §. 3.1), è pertanto da ritenersi
che lo stesso abbia valenza di ordine generale, per cui deve tassativamente informare
la determinazione dei compensi professionali.

Con riferimento alle stazioni appaltanti, ciò implica che il criterio
concretamente assunto deve essere oggetto di apposita motivazione in occasione
dell’adozione delle procedure di evidenza pubblica e può essere
oggetto di sindacato di legittimità.

In questo quadro, non si dovrebbe essere troppo lontani dal vero nel ritenere
che l’art. 2, comma 2, si colloca nella prospettiva di quelle disposizioni
che come l’art. 4, comma 12 bis, della legge 26 aprile 1989, n. 155, sono
poste “a garanzia della credibilità della prestazione professionale
resa nei confronti dell’Ente pubblico” (Tar Umbria 6 maggio 1997).

10. Un secondo ordine di problemi riguarda il profilo dei
rapporti tra l’art.
2 della legge n. 248/2006 e il regime dei corrispettivi delle prestazioni rese
dai professionisti stabilito dalla leggi regionali.

La ricostruzione sin qui svolta porta ad escludere che l’ambito operativo
dell’art. 2 della legge n. 248/2006 si estenda al combinato disposto degli
art. 253 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.

Ove si accolga la diversa e denegata tesi dell’abrogazione, è tuttavia
necessario valutare se o in che termini la stessa abbia ricadute sulle leggi
regionali nel settore dei lavori pubblici.

10.1. Si è rilevato come, ai sensi dell’art. 4,
il d.lgs. n. 163/2006:

a. detti i principi fondamentali nel rispetto dei quali le Regioni possono
esercitare la loro potestà normativa relativamente alle materia di legislazione concorrente,
in particolare in tema di programmazione di lavori pubblici, approvazione dei
progetti ai fini urbanistici ed espropriativi, organizzazione amministrativa,
compiti e requisiti del responsabile del procedimento, sicurezza del lavoro;

b. escluda che le Regioni possano prevedere una disciplina diversa da quella
del codice in relazione: alla qualificazione e selezione dei concorrenti; alle
procedure di affidamento, esclusi i profili di organizzazione amministrativa;
ai criteri di aggiudicazione; al subappalto; ai poteri di vigilanza sul mercato
degli appalti affidati all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
di lavori, servizi e forniture; alle attività di progettazione e ai piani
di sicurezza; alla stipulazione e all’esecuzione dei contratti, ivi compresi
direzione dell’esecuzione, direzione dei lavori, contabilità e collaudo,
ad eccezione dei profili di organizzazione e contabilità amministrative;
al contenzioso;

c. stabilisca la competenza esclusiva dello Stato a disciplinare i contratti
relativi alla tutela dei beni culturali, i contratti nel settore della difesa,
i contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza relativi
a lavori, servizi, forniture;

d. preveda che nelle materie di competenza normativa regionale, concorrente
o esclusiva, le disposizioni del codice si applicano alle regioni nelle quali
non
sia ancora in vigore la normativa di attuazione e perdono comunque efficacia
a decorrere dalla data di entrata in vigore della normativa di attuazione adottata
da ciascuna regione;

e. vincoli le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e
Bolzano ad adeguare la propria legislazione e le disposizioni contenute negli
statuti
e nelle relative norme di attuazione;

f. vincoli le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano ad esercitare
la potestà normativa nelle materie oggetto del codice nel rispetto degli
obblighi derivanti
dall’ordinamento comunitario e delle disposizioni relative a materie di competenza
esclusiva dello Stato.

E’ in questo quadro che è necessario valutare con riferimento alle
singole leggi delle amministrazioni territoriali le ricadute della legge n. 248/2006.

10.2. L’analisi va, tuttavia, preceduta da due ordini
di considerazioni.

10.2.1. Il primo attiene al profilo delle fonti e porta,
ovviamente, ad escludere
che all’abrogazione del combinato disposto degli artt. 253 e 92 consegue
automaticamente l’abrogazione delle disposizioni che nelle leggi regionali
stabiliscono delle tariffe per gli appalti di servizi professionali.

Tale risultato si può determinare solo ed esclusivamente con riferimento
alle leggi che hanno operato un rinvio formale (o mobile o non recettizio) alla
disciplina nazionale – ossia nel caso in cui “il rinvio non viene
fatto tanto alla disposizione richiamata quanto alla fonte di questa, cosicché se
un atto successivo modifica la disposizioni a cui si rinvia, il rinvio si trasferisce
automaticamente alla nuova disposizione: l’operatore deve pur sempre unire
la disposizione rinviante con quella rinviata, ma questa seconda non è quella
vigente storicamente nel momento in cui fu operato il rinvio, ma quella effettivamente
vigente nel momento in cui l’operatore applica la disposizione rinviante” (G.U.RESCIGNO,
L’atto normativo, Bologna, 1998, p. 176) -; in tal caso è da ritenersi
che la abrogazione della disciplina nazionale comporti la cessazione della legge
regionale.

Non è certo questa la sede per entrare nel merito delle singole discipline
regionali; l’analisi legislativa spetterà agli Ordini territoriali
che a tal fine potranno richiamarsi all’insegnamento della Corte costituzionale,
di cui si riportano alcuni passaggi fondamentali:

– “che si tratti di mero rinvio formale … è attestato, sul
piano della struttura linguistica della norma rinviante, dal rilievo che il richiamo
si riferisce genericamente al regolamento, cioè a un complesso di norme
non meglio determinate, laddove, perché sia possibile configurare un rinvio
recettizio (spirando la presunzione favorevole al rinvio formale), occorre che
il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla
stessa norma che lo effettua” (C.Cost., 11 giugno 1993, n. 311);

– “che si tratti di un rinvio formale alla disciplina …, è reso
palese dalla latitudine della sua formulazione letterale ed ancor più dalla
ricomprensione nell’ambito della normativa richiamata, non solo di uno
specifico testo ma anche del progressivo concretarsi dell’evoluzione modificativa
ed integrativa di esso, ciò esprime l’intentio legis di un riferimento
alla fonte stessa della detta disciplina più che allo specifico contenuto
di determinate regole” (C.Cost. n. 18/1996).

A opposte conclusioni si perviene, invece, ove il rinvio operato dal legislatore
regionale abbia carattere materiale (o fisso o recettizio), che si verifica
quando “la
disposizione rinviante intende appropriarsi esattamente di quel testo e di quel
contenuto normativo posto con quel testo a cui si rinvia nel momento in cui l’atto
rinviante ha operato il rinvio: per conseguenza l’operatore, per applicare
la disposizione rinviante, deve unire a tale disposizione quel contenuto normativo
della disposizione a cui la prima rinvia che viene manifestato mediante il testo
storicamente vigente nel momento in cui il rinvio è stato voluto dall’autorità che
ha approvato la disposizione rinviante” (G.U.RESCIGNO, op. cit., p. 176).

In tal caso il contenuto della disciplina nazionale abrogata continuerà ad
essere vigente a seguito del recepimento ad opera della legge regionale.

10.2.2. Il secondo ordine di considerazioni si pone nella
prospettiva de iure
condendo e concerne la possibilità di ritenere l’opzione abrogativa
della legge nazionale alla stregua di un “principio fondamentale” dell’ordinamento
al cui rispetto, ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cost. sono tenute le
singole Regioni nell’esercizio della potestà normativa.

Va anzitutto osservato che al riconoscimento della valenza generale dell’abrogazione
dell’art. 2 non consegue il riconoscimento del valore di principio fondamentale
posto che, sempre ai sensi dell’art. 2, l’opzione si colloca in funzione
dell’adeguamento dell’ordinamento interno a quello comunitario, che
quindi concorre al processo definitorio.

In questa prospettiva, l’opzione abrogativa del legislatore nazionale deve
essere apprezzata alla luce dell’art. 53 della Direttiva 18/2004/CE che
consente di assoggettare specifici servizi a una determinata remunerazione.

La valutazione dello Stato di non tener conto – nella sua autonomia e per quanto
di propria competenza – di tale possibilità non può certo comprimere
la portata della disposizione comunitaria, che detta un criterio generale per
l’esercizio della potestà normativa da parte degli Stati membri.

Come emerge a tutta evidenza dall’art. 4 del d.lgs. n. 163/2006, la materia
dei lavori pubblici può essere oggetto, a seconda dei profili, della competenza
legislativa (esclusiva e concorrente) dello Stato e quella (concorrente e residuale)
delle Regioni.

Ne deriva che spetta a ciascun decisore, nella sua autonomia, determinarsi,
nelle materia di competenza, sulla opportunità di avvalersi o meno della regola
posta dall’art. 53 delle Direttiva 18/2006.

A ciò si aggiunga che la valutazione operata dallo Stato non può che
avere ad oggetto gli interessi di cui lo stesso è titolare, se è vero
che secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, relativo alla connessione
tra il 2° e il 3° comma dell’art. 117 Cost., la legge regionale,
se del caso, può sempre specificare con riferimento ai profili propri
dell’esercizio professionale la disciplina dettata dello Stato.

Si tratta di uno spazio che deve essere apprezzato con riferimento agli interessi
e valori che vengono ad emergere nel caso di specie e, in particolare, alla
loro frazionabilità alla stregua del principio per cui rientra “nella
competenza delle regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico
collegamento con la realtà regionale” (C.Cost., 30 settembre 2005,
n. 355).

Per comprendere la portata di tale indicazione valga qui ricordare come con
la sentenza 4-12 aprile 2005, n. 147, la Corte ha riconosciuto la legittimità della
legge n. 350/2003 con cui la Regione Piemonte ha vietato al medico veterinario
di svolgere attività professionale nell’ambito territoriale dell’azienda
sanitaria di appartenenza e ha impedito allo stesso di essere titolare di una
struttura ambulatoriale privata.

Nella sentenza, la Corte ha ricordato “la previsione della legge statale,
secondo la quale l’attività professionale del veterinario non debba
porsi ‘in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità sanitaria
locale”, sostenendo che la stessa “è all’origine delle
limitazioni poste dalla legge regionale in questione allo svolgimento dell’attività libero-professionale
dei veterinari, nonché di una differenziata disciplina nei diversi settori
di attività libero-professionale”.

Ciò detto, con riferimento alle tariffe professionali sono due gli indici
che devono essere tenuti conto prima di affermare l’esistenza di un principio
fondamentale:

a) la ammissibilità di regimi tariffari per specifici servizi da parte
dell’ordinamento comunitario;

b) la funzione suppletiva per la determinazione dei compensi professionali
che, secondo l’ordinamento interno, le tariffe possono assumere sia nel settore
privato che in quello pubblico.

In questo quadro, è difficile ritenere che a fronte della (pretesa) abolizione
delle tabella dei corrispettivi sia rinvenibile un principio fondamentale per
il quale sia precluso alle Regioni di disporre regimi di remunerazione per “quegli
aspetti che presentino uno specifico collegamento con la realtà regionale”.

Sulla base delle suesposte considerazioni

Per quanto di propria competenza, il Consiglio nazionale:

a) ritiene che a seguito della entrata in vigore della legge n. 248/2006 il
compenso professionale sia liberamente contrattabile tra cliente e iscritti
all’albo
nel rispetto dell’importanza dell’opera e del decoro della professione,
così come stabilito dall’art. 2233 c.c.;

b) ritiene che, in mancanza di accordo, si applichi l’art. 2233 c.c., che
dispone per gli architetti e gli architetti junior il ricorso alle tariffe e
agli usi;

c) ritiene che l’art. 2 della legge n. 248/2006 non abbia disposto l’abrogazione
degli artt. 253 e 92 del d.lgs. n. 163/2006 e che, pertanto, continuano ad applicarsi
per gli iscritti all’albo le tabelle dei corrispettivi di cui al d.m. 4
aprile 2001;

d) segnala che nella denegata ipotesi di abrogazione dei sopraccitati artt.
253 e 92, le stazioni appaltanti, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge
n. 248/2006 debbano, in ogni caso, dar conto dei criteri e della base adottata
per la determinazione dei compensi professionali, con specifica motivazione della
loro adeguatezza con riferimento alle procedura di evidenza pubblica promossa;

e) segnala che nella denegata ipotesi di abrogazione dei sopraccitati artt.
253 e 92 risultano abrogate esclusivamente le disposizioni delle leggi regionali
che operano un rinvio formale alla disciplina legislativa nazionale;

f) segnala che per quanto concerne le leggi regionali che hanno operato un
rinvio materiale alla disciplina nazionale continua ad essere vigente quanto
previsto
nel D.M. 4 aprile 2001.

In considerazione della grave incertezza circa le stesse fonti della disciplina
legislativa, che rischia di compromettere il legale esercizio della professione
e di pregiudicare gli interessi generali ad esso connessi, il
Consiglio nazionale al fine di promuovere una condivisa lettura dell’ordinamento
di settore:
a) sottoporrà la presente determinazione alla Autorità per la vigilanza
sui lavori pubblici al fine di promuovere l’adozione di un atto di regolazione
e/o determinazione in materia;
b) sottoporrà la presente determinazione al Consiglio Superiore dei Lavori
Pubblici al fine di promuoverne un parere in materia;
c) sottoporrà la presente determinazione ai Consigli nazionali delle professioni
tecniche al fine di acquisirne le opportune valutazioni;
d) sottoporrà la presente determinazione alle Organizzazioni nazionali
degli operatori del settore dei lavori pubblici al fine di acquisirne le opportune
valutazione;
e) invita gli Ordini territoriali a rivolgere, anche alla luce della presente
determinazione, una istanza alle Amministrazioni regionali affinché prendano
posizione circa la disciplina vigente e le relative fonti, se del caso con la
emanazione di apposita circolare.
Dispone che la presente determinazione sia pubblicata sul sito del Consiglio
nazionale: www.archiworld.it e sia comunicata agli Ordini territoriali al fine
di assicurane la massima diffusione tra gli iscritti e le Amministrazioni locali.

Roma, 7 settembre 2006

Redazione

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