L’ingegnere civile non puo’ accedere alla professione di architetto, su un piano
di perfetta parità con il laureato in architettura. E’ quanto ha affermato
il Consiglio di Stato, con sentenza pubblicata l’11 settembre scorso
Il Consiglio di Stato ammette che “nell”attuale ordinamento universitario
il laureato in ingegneria civile deve avere acquisito una specifica preparazione anche nel campo dell’architettura, talche’ potrebbe ritenersi ormai anacronistica la limitazione posta alla competenza professionale dell’odierno laureato in ingegneria, e in ogni
caso meritevole di essere adeguata alla mutata disciplina delle professioni di
architetto e di ingegnere civile”.
Tocca dunque al legislatore nazionale eventualmente intervenire. Ne’ la direttiva
CEE 10 giugno 1985 n. 384 (recepita in Italia con D.Lgs. 27 gennaio 1992 n.
129) impone agli Stati
membri di porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile
su un piano
di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso alla professione
di architetto.
In conseguenza, la riserva alla "professione
di architetto" delle
"opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico, e il
restauro
e il ripristino
degli edifici contemplati dalla legge 1089/39, è in atto pienamente legittima.
. . . . . . .
Consiglio di Stato, VI sezione
Sentenza 11 settembre 2006 n. 5239
(presidente Varrone, estensore Balucani)
(…)
DIRITTO
1. Va preliminarmente disposta, per evidenti ragioni di connessione, la riunione
dei due atti di appello in esame con i quali il dott. ing. Francesco Rauty, da
un lato, e l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Pistoia, dall’altro,
impugnano la sentenza del TAR Toscana che ha respinto il ricorso proposto dallo
stesso ing. Rauty avverso il provvedimento della Soprintendenza che negava la
competenza professionale degli ingegneri in tema di lavori da effettuarsi su
immobili tutelati dalla legge n. 1089/1939.
2. Le questioni sulle quali il Collegio deve pronunciarsi possono essere riassunte
nei termini che seguono:
a) se la limitazione posta dall’art. 52 del regolamento approvato con R.D.
23 ottobre 1925, n. 2537 (che riserva alla “professione di architetto” “le
opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico, e il restauro
e il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20 giugno 1909, n. 364” (poi
legge 1° giugno 1939, n. 1089), salvo che la “parte tecnica” che
può essere compiuta anche dall’“ingegnere”), risulti
o meno superata dalla legislazione successiva;
b) se in virtù della direttiva CEE 10 giugno 1985, n. 384 (recepita in
Italia con D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 129) debba ritenersi che il titolo di ingegnere
in ingegneria civile sia ormai equiparato a quello di architetto, ai fini dell’accesso
alle attività nel settore dell’architettura, con il conseguente
superamento della limitazione posta dal citato art. 52 R.D. n. 2537/1925;
c) se appartenga o meno alla competenza della Soprintendenza stabilire quando
il progetto delle opere di cui al citato art. 52 debba essere redatto da un ingegnere
o da un architetto.
3. Iniziando, per ordine logico, da quest’ultimo profilo non può essere
condivisa la tesi sostenuta nell’atto di appello dell’ing. Rauty,
che ha negato il potere della Soprintendenza di verificare la paternità professionale
del progetto richiamandosi ad un risalente parere del Consiglio di Stato (parere
Cons. St., 12 luglio 1969, n. 663/68).
Se è vero infatti che spetta alla Soprintendenza ai sensi dell’art.
18 L. n. 1089/1939 di autorizzare i progetti delle opere concernenti i beni sottoposti
alla legge stessa, il controllo del progetto – che mira ad assicurare la conformità dell’intervento
alla salvaguardia del valore storico-artistico del bene – non può non
estendersi anche alla verifica della idoneità professionale del progettista
(come stabilita dal legislatore), secondo quanto riconosciuto in un più recente
parere di questo Consiglio (Cfr. Cons. St. II, 23 luglio 1997, n. 386/97).
4. Assodato, per quanto precede, che nella fattispecie in esame il Soprintendente
aveva il potere di controllare se il progetto presentato si conformasse alle
regole in tema di competenza professionale, si tratta di stabilire se la disposizione
contenuta nell’art. 52 del Regolamento per la professione di ingegnere
e di architetto (approvato con R.D. n. 2537/1925) debba considerarsi abrogata,
come hanno prospettato gli odierni appellanti.
Nella ordinanza n. 2379 dell’11.5.2005, con la quale era stato rimesso
alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee di decidere pregiudizialmente
sulla interpretazione della direttiva comunitaria n. 384/1985, la Sezione ha
già riconosciuto che tale asserita abrogazione non può essere comprovata
facendo riferimento al T.U. del 1933 sulla istruzione superiore (art. 173 e tabelle
allegate), ove il legislatore si è limitato ad equiparare le lauree di
architettura e di ingegneria civile in funzione dell’accesso alla professione
di architetto; e neppure richiamando la legge 7 dicembre 1961, n. 1264 (art.
15, 3° comma) che, laddove prevede come requisito per ricoprire il ruolo
di architetto presso le Soprintendenze il possesso della laurea in architettura
o in ingegneria civile, non stabilisce con ciò alcuna equipollenza tra
le due lauree ai fini dello svolgimento della attività professionale.
Occorre aggiungere che la ripartizione delle competenze professionali tra architetto
e ingegnere, come delineata nel citato art. 52, R.D. n. 2537/1925, non è venuta
meno per effetto della normativa successiva che ha innovato la disciplina per
il conseguimento del titolo di architetto e di ingegnere.
È
bensì vero infatti che nel 1925 per conseguire tali titoli era sufficiente
il semplice diploma di istruzione secondaria (e non già il diploma di
laurea), e che nell’attuale ordinamento universitario il laureato in ingegneria
civile deve avere acquisito una specifica preparazione anche nel campo dell’architettura,
talché potrebbe ritenersi ormai anacronistica la limitazione posta dal
citato art. 52 alla competenza professionale dell’odierno laureato in ingegneria,
e in ogni caso meritevole di essere adeguata alla mutata disciplina delle professioni
di architetto e di ingegnere civile.
Nondimeno la norma in questione, nella misura in cui vuole garantire che a progettare
interventi edilizi su immobili di interesse storico-artistico siano professionisti
forniti di una specifica preparazione nel campo delle arti, e segnatamente di
un adeguata formazione umanistica, deve ritenersi tuttora vigente.
Fermo restando che, alla stregua della anzidetta disposizione, non la totalità degli
interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere
affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo <<le
parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse
alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito
del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico>>;
restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica,
cioè <<le attività progettuali e di direzione dei lavori
che riguardano l’edilizia civile vera e propria …>> (in questi
termini Cons. St. II, n. 2038/2002 del 24 novembre 2004).
5. Si deve infine passare alla questione sulla quale si è maggiormente
incentrato il giudizio, vale a dire se la direttiva comunitaria 10 giugno 1985,
n. 384 abbia determinato la equiparazione dei titoli di architetto e di ingegnere
civile ai fini dell’esercizio delle attività professionali nel campo
della architettura, con conseguente superamento della normativa racchiusa nell’art.
52 R.D. cit..
Al riguardo giova premettere che gli artt. 2 e segg. della direttiva dettano
le norme per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio conseguiti dai
cittadini degli Stati membri a conclusione di studi universitari riguardanti
l’architettura, introducendo anche un regime transitorio di reciproco riconoscimento
di taluni titoli tassativamente indicati.
Tra i titoli che beneficiano di tale riconoscimento automatico l’art. 11
menziona per l’Italia:
<<
– i diplomi di “laurea in architettura” rilasciati dalle università,
dagli istituti politecnici e dagli istituti superiori di architettura di Venezia
e di Reggio Calabria, accompagnati dal diploma di abilitazione all’esercizio
indipendente della professione di architetto, rilasciato dal ministro della Pubblica
Istruzione una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad
un’apposita Commissione, l’esame di Stato che abilita all’esercizio
indipendente della professione di architetto (dott. architetto);
i diplomi di “laurea in ingegneria” nel settore della costruzione
civile rilasciati dalle università e dagli istituti politecnici, accompagnati
dal diploma di abilitazione all’esercizio indipendente di una professione
nel settore dell’architettura, rilasciato dal ministro della Pubblica Istruzione
una volta che il candidato abbia sostenuto con successo, davanti ad un’apposita
Commissione, l’esame di Stato che lo abilita all’esercizio indipendente
della professione (dott. ing. architetto o dott. ing. in ingegneria civile>>.
Con la ordinanza n. 2379 dell’11.5.2005 la Sezione ha rimesso alla Corte
di Giustizia delle Comunità Europee di decidere pregiudizialmente se per
effetto della applicazione degli artt. 10 e 11 della Direttiva dovesse ritenersi
attuata nell’ordinamento interno la equiparazione anzidetta. Con la stessa
ordinanza si sottoponeva alla Corte di Giustizia la prospettazione degli odierni
appellanti secondo cui, in difetto di una siffatta equiparazione, la normativa
italiana avrebbe potuto dar luogo ad una discriminazione alla rovescia poiché,
diversamente dagli ingegneri civili che hanno conseguito il titolo rilasciato
in Italia, i soggetti in possesso di un titolo di ingegnere civile rilasciato
da altro Stato membro avrebbero accesso (ove tale titolo sia menzionato nell’elenco
di cui all’art. 11 della Direttiva) alle attività che in Italia
sono riservate agli architetti, ai sensi del ripetuto art. 52 R.D. n. 2537/1925.
Ma alla ordinanza della Sezione la Corte ha risposto trasmettendo la decisione
già assunta in fattispecie del tutto identica a quella in esame, nella
quale si afferma che <<la Direttiva 85/384 non si propone di disciplinare
le condizioni di accesso alla professione di architetto, né di definire
la natura delle attività svolte da chi esercita tale professione>>;
ma ha invece ad oggetto solamente <<il reciproco riconoscimento, da parte
degli Stati membri, dei diplomi, dei certificati e degli altri titoli rispondenti
a determinati requisiti qualitativi e quantitativi minimi in materia di formazione
allo scopo di agevolare l’esercizio effettivo del diritto di stabilimento
e di libera prestazione dei servizi per le attività del settore della
architettura…>>.
In definitiva, secondo la Corte, la direttiva non impone allo Stato membro di
porre i diplomi di laurea in architettura e in ingegneria civile indicati all’art.
11 su un piano di perfetta parità per quanto riguarda l’accesso
alla professione di architetto in Italia; né tantomeno può essere
di ostacolo ad una normativa nazionale che riservi ai soli architetti i lavori
riguardanti gli immobili d’interesse storico-artistico sottoposti a vincolo.
Alla stregua delle conclusioni formulate dalla Corte deve dunque ritenersi infondata
la tesi degli appellanti secondo cui la disposizione dell’art. 52 R.D.
cit. sarebbe stata superata dalla direttiva comunitaria.
Residua il problema, prospettato nella stessa pronuncia della Corte di Giustizia,
se la disposizione in questione per effetto della direttiva comunitaria realizzi
una discriminazione vietata dal diritto nazionale in relazione al trattamento
che sarebbe riservato a chi è in possesso di uno dei titoli di ingegneria
civile elencati all’art. 11 della direttiva; e se dunque possa essere sospettata
di illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 35 e 41
Cost. secondo quanto sostenuto dalle parti appellanti.
Ma siffatti dubbi non hanno ragion d’essere ove si consideri che la stessa
Corte di Giustizia ritiene che la direttiva non imponga allo Stato membro di
porre su un piano di perfetta parità i diplomi di laurea in architettura
e in ingegneria civile per quanto riguarda l’accesso all’attività di
architetto in Italia.
In altri termini, dalla applicazione della direttiva non consegue affatto che
chi è in possesso di un diploma di laurea in ingegneria civile conseguito
in un altro Stato della Comunità possa accedere all’esercizio di
attività professionali riservate specificatamente agli architetti (secondo
la legislazione italiana), a differenza di chi tale titolo abbia conseguito in
Italia.
6. Alla stregua delle considerazioni che precedono i due atti di appello all’esame
del Collegio vanno respinti dovendosi riconoscere che nelle fattispecie in questione
la Soprintendenza ha correttamente applicato la disposizione di cui all’art.
52 R.D. n. 2537/1925.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese processuali del presente grado
di giudizio tra le parti in causa.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, riunisce i due
ricorsi in appello in epigrafe indicati e, definitivamente pronunciando sui medesimi,
li respinge.