La Corte Costituzionale, con sentenza depositata ieri, ha confermato la legittimita’
del divieto al dipendente pubblico in regime di part-time,
di svolgere la libera professione forense.
“L’unico problema che deve porsi in questa
sede è se debba ritenersi manifestamente irragionevole la scelta del
legislatore di escludere la sola professione forense dal novero di quelle – e
cioè di tutte le altre per l’esercizio delle quali è prescritta
l’iscrizione in un albo – alle quali i pubblici dipendenti a part-time
cosiddetto ridotto possono accedere”.
“Il rilievo del giudice a quo – secondo cui i possibili inconvenienti
derivanti dalla «commistione» tra pubblico impiego e libera professione
non sarebbero esclusivi della professione forense – non vale, di per
sé, a dimostrare la manifesta irragionevolezza dell’opzione legislativa,
non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione – operata
dal legislatore – di maggiore pericolosità e frequenza di tali
inconvenienti quando la «commistione» riguardi la professione forense.
Un rilievo del genere attiene all’opportunità della scelta ovvero all’opportunità della
non estensione di essa ad altre attività libero-professionali, non alla
manifesta irragionevolezza”.
. . . . . . . . .
Corte Costituzionale
Sentenza 21 novembre 2006 n. 390
(presidente Bile, relatore Cassese, redattore Vaccarella)
(…)
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli articoli
3 e 4 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli
articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio
della professione di avvocato).
L’art. 1 della legge impugnata prevede che le disposizioni di cui all’articolo
1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), – le quali consentono l’iscrizione dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale agli
albi professionali quando la prestazione lavorativa non sia superiore al 50
per cento di quella a tempo pieno (c.d. part time ridotto) – «non
si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi
i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive
modificazioni».
Il successivo art. 2, a sua volta, dispone: «I pubblici dipendenti
che hanno ottenuto l’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente alla
data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano
ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d’impiego,
dandone comunicazione al consiglio dell’ordine presso il quale risultano iscritti,
entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini
degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell’iscritto al proprio
albo» (comma 1); «Il pubblico dipendente, nell’ipotesi di cui al
comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno» (comma
2); «Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il
pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego
e conseguentemente mantenere l’iscrizione all’albo degli avvocati» (comma
3); «Il dipendente pubblico part time che ha esercitato l’opzione per
la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni
il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla
richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al
momento dell’opzione presso l’Amministrazione di appartenenza. In tal caso
l’anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio
e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione» (comma 4).
1.1.1.– In punto di rilevanza, riferisce il Tribunale che un dipendente
dell’Avvocatura dello Stato con qualifica di operatore amministrativo, in possesso
dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, aveva chiesto all’amministrazione,
ai sensi dell’art. 1, comma 58, della legge n. 662 del 1996, la trasformazione
del proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo
parziale (part time), al fine di esercitare la professione di avvocato; che
l’amministrazione gli aveva negato tale trasformazione, motivando il diniego
con il conflitto d’interessi che sarebbe scaturito dalla prosecuzione del rapporto
di lavoro con l’Avvocatura e dal contestuale esercizio della professione forense;
che il dipendente, lamentando l’illegittimità del diniego opposto dall’amministrazione,
poiché questa, ai sensi del citato art. 1, comma 58, avrebbe solo dovuto
prendere atto dell’opzione formulata dal ricorrente, chiedeva dichiararsi l’avvenuta
trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno con l’Avvocatura in rapporto
di lavoro part time, con condanna dell’amministrazione al risarcimento del
danno per perdita di chance; che si era ritualmente costituita la Presidenza
del Consiglio dei ministri, eccependo l’infondatezza delle ragioni poste a
base della domanda e concludendo per il suo rigetto; che si era altresì costituita,
in qualità di interventore volontario, l’associazione Adip-Avvocati
dipendenti pubblici a tempo parziale, deducendo che, essendo entrata in vigore – nel
corso del giudizio – la legge n. 339 del 2003, ai pubblici dipendenti
era nuovamente impedito di iscriversi all’albo degli avvocati, essendo stato
reso ad essi inapplicabile l’art. 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge n.
662 del 1996 ed essendo stato, invece, ripristinato il divieto di cui al r.d.l.
27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio
1934, n. 36, e successive modificazioni; che l’Adip aveva, pertanto, sollevato
eccezione di legittimità costituzionale, sotto numerosi profili, degli
artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003, comunque concludendo per il diritto
del dipendente ad ottenere la trasformazione in rapporto part time del proprio
rapporto di lavoro a tempo pieno con l’Avvocatura dello Stato.
1.1.2.– Ad avviso del Tribunale gli artt. 1 e 2 della legge n. 339
del 2003 violerebbero, anzitutto, l’art. 3 Cost., introducendo una serie di
disparità di trattamento sia rispetto a pubblici dipendenti che svolgono
attività professionali diverse da quella di avvocato, sia rispetto a
pubblici dipendenti in servizio presso amministrazioni statali diverse dall’Avvocatura
dello Stato.
Sotto il primo profilo, mentre l’esercizio della professione di avvocato è preclusa
ai pubblici dipendenti con rapporto di lavoro part time, analoga preclusione
non esiste per i pubblici dipendenti abilitati all’esercizio di altre professioni,
come, ad esempio, quella di commercialista o quella di ingegnere.
Sotto il secondo profilo, l’art. 3 del r.d.l. n. 1578 del 1933, richiamato
dall’impugnato art. 1 della legge n. 339 del 2003, nel ritenere incompatibile
la professione di avvocato con quella di pubblico dipendente, fa eccezione
per «i professori degli istituti secondari dello Stato». Questi
ultimi, pertanto, pur essendo dipendenti statali, non subiscono alcuna limitazione
ai fini dell’esercizio della professione forense, non essendo neanche richiesta
la trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di
lavoro part time.
Ulteriore disparità di trattamento sussisterebbe fra gli impiegati
pubblici cui è fatto divieto (salva la suddetta eccezione) di svolgere
la professione di avvocato successivamente all’entrata in vigore dell’art.
1 della legge n. 339 del 2003 e quelli che, prima dell’entrata in vigore di
tale legge, siano stati collocati in part time ridotto ed abbiano ottenuto
l’iscrizione all’albo degli avvocati, cui l’art. 2 della stessa legge riconosce
il diritto di optare entro 36 mesi tra l’impiego pubblico, con conseguente
cancellazione dall’albo, e la professione forense, con l’ulteriore possibilità,
entro cinque anni dall’eventuale decisione di proseguire la professione forense,
di rientrare nell’amministrazione di appartenenza.
Un’ultima disparità di trattamento si verificherebbe tra gli avvocati
iscritti all’albo dopo l’entrata in vigore della legge n. 662 del 1996, dei
quali l’art. 2 dispone la cancellazione d’ufficio da parte dei consigli dell’ordine,
e gli avvocati iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della legge n.
662 del 1996 e che dopo tale legge siano stati assunti da una pubblica amministrazione
come dipendenti pubblici a tempo parziale.
Questi ultimi dipendenti, oltre a non avere nessun onere di opzione tra avvocatura
e pubblico impiego, non sarebbero, infatti, neanche soggetti alla cancellazione
d’ufficio in mancanza di opzione nel triennio e andrebbero incontro alla cancellazione
dall’albo solo nell’ipotesi in cui, a seguito di una revisione dell’albo, risultasse
la loro situazione di incompatibilità.
Aggiunge il rimettente che gli art. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003 contrastano
anche con l’art. 4 Cost., poiché la discrezionalità del legislatore
nello stabilire i modi e i tempi di attuazione del diritto al lavoro sarebbe
stata, nella specie, «esercitata […] in modo irragionevole nella
misura in cui le disposizioni soggette a censura sono intese a impedire, ovvero
a limitare, l’accesso di tutti i soggetti, in possesso dei prescritti requisiti,
alla libera professione, nell’ambito di un mercato concorrenziale. E ciò tanto
più se si tiene conto, avuto riguardo all’attività forense, di
recenti interventi del legislatore (d.lgs. n. 96 del 2001) volti a facilitare
l’esercizio permanente della stessa attività da parte degli avvocati
cittadini di uno Stato membro dell’Unione Europea».
1.2.– Si sono costituiti il ricorrente nel giudizio principale e l’interveniente
Adip-Avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale, entrambi ribadendo le ragioni
a sostegno dell’illegittimità costituzionale delle norme impugnate;
l’Adip ha altresì depositato memoria nell’imminenza dell’udienza.
1.2.1.– Si è altresì costituito, ed ha successivamente
depositato memoria, l’Oua-Organismo unitario dell’avvocatura, ritenendosi legittimata
ad intervenire in giudizio, «quale organo del Congresso nazionale forense», «per
rappresentare e tutelare gli interessi giuridici appartenenti alla classe forense
nelle sue vesti istituzionalizzate».
2.– Il Tribunale di Cuneo – nel corso di un giudizio nel quale
un dipendente della Provincia di Cuneo con qualifica di impiegato di livello
C3, profilo di agente caccia e pesca, aveva impugnato il provvedimento col
quale l’amministrazione provinciale aveva respinto la sua domanda di trasformazione
del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part time, con orario
pari al 50 per cento di quello a tempo pieno, motivata con l’intenzione di
esercitare la professione di avvocato – ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1 della legge 25 novembre 2003 n. 339, in riferimento agli artt.
3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
2.1.1.– Riferisce il Tribunale che il part time era stato negato dall’amministrazione
sul rilievo che la legge n. 339 del 2003 aveva sancito l’incompatibilità tra
la posizione di pubblico dipendente in regime di c.d. part time ridotto (vale
a dire con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella
a tempo pieno) e l’esercizio della professione di avvocato.
Sollevata dal ricorrente la questione di legittimità costituzionale
di tale ultima disposizione, il giudice l’ha ritenuta rilevante e non manifestamente
infondata con riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
2.1.2.– In punto rilevanza, osserva il Tribunale che l’unico ostacolo
allo svolgimento della libera professione di avvocato da parte del ricorrente è rappresentato
dal divieto reintrodotto dall’art. 1 della legge n. 339 del 2003, divieto che
costituisce altresì l’unico motivo in base al quale la Provincia di
Cuneo ha negato il part time al ricorrente, avendo quest’ultimo dichiarato
nella relativa domanda che la richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro
a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale era finalizzata allo svolgimento
dell’attività di avvocato.
2.1.3.– Quanto alla violazione dell’art. 3 Cost., osserva il remittente
che, nel quadro legislativo attuale, in cui vige il “principio generale” secondo
cui il pubblico dipendente in regime di part time ridotto può esercitare
la libera professione per la quale abbia conseguito la richiesta abilitazione,
il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati, fatto rivivere dall’art.
1 della legge n. 339 del 2003, rappresenta una lex specialis, dal momento che
analogo divieto non vale con riferimento a tutte le altre libere professioni
(medici, ingegneri, architetti, commercialisti, geometri, ragionieri, ecc.).
Peraltro, la normativa censurata non trova giustificazione né in principi
di rango costituzionale, né in ragioni che rendano effettivamente diversa
la situazione del pubblico dipendente che esercita la professione di avvocato
da quella del pubblico dipendente che svolge qualsiasi altra “professione
liberale”, né in esigenze proprie della pubblica amministrazione.
In particolare, non sarebbe persuasiva l’affermazione, ricorrente nei lavori
preparatori della legge n. 339 del 2003, per cui il divieto di esercizio della
professione di avvocato da parte del pubblico dipendente in regime di part
time c.d. ridotto avrebbe come finalità quella di assicurare l’indipendenza
del difensore (intesa in senso ampio e tecnico di mancanza di subordinazione)
e l’inviolabilità del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della
Costituzione. Invero, l’idoneità allo svolgimento della professione
di avvocato è attestata, per quanto riguarda il possesso delle capacità e
delle cognizioni tecniche, dal superamento dell’esame di Stato che l’aspirante
deve obbligatoriamente sostenere per conseguire l’abilitazione all’esercizio
della professione. Quanto, poi, alla fedeltà al mandato conferito dal
cliente, «essa non appare affatto pregiudicata dal rapporto di dipendenza
con la pubblica amministrazione, in quanto nell’esercizio della professione
di avvocato il pubblico dipendente non è soggetto agli ordini e alla
direttive della datrice di lavoro, ma esclusivamente alle norme deontologiche
valide per tutti gli iscritti all’ordine (e al riguardo vengono in considerazione
il Codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile
1997 e quello europeo, approvato dal Consiglio degli ordini forensi europei
il 28 ottobre 1998), norme la cui osservanza è presidiata da sanzioni
disciplinari e, ove occorra, anche da sanzioni penali (artt. 380 e 622 c.p.)».
Ancor meno convincente, secondo il Tribunale, sarebbe l’ulteriore affermazione,
pur essa ricorrente nei lavori parlamentari, secondo la quale la possibilità che
i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possano essere iscritti agli albi
degli avvocati verrebbe ad instaurare «uno strano rapporto di interazione
pubblico-privato per cui il prestigio del difensore non sarà più basato
sulla sua professionalità, ma sul suo potere nell’ambito dell’amministrazione,
con creazione di una clientela al di fuori di una corretta concorrenza professionale
e di una commistione di interessi privati in attività pubbliche».
A giudizio del rimettente, situazioni del genere «vanno, se del caso,
affrontate e risolte con la previsione di limitazioni territoriali all’esercizio
della professione di avvocato da parte del pubblico dipendente» che occupi,
in seno all’amministrazione, «una posizione suscettibile di fungere da “richiamo
di clientela” (si pensi all’avvocato che contemporaneamente è anche
cancelliere o ufficiale giudiziario) e non già con l’introduzione di
un divieto generale ed indiscriminato avente come destinatario qualsiasi pubblico
dipendente e quindi anche quello che dalle mansioni svolte presso l’amministrazione
di appartenenza non può trarre alcun indebito vantaggio ai fini del
reperimento della clientela (come è il caso del ricorrente, dipendente
della Provincia di Cuneo con qualifica di impiegato di livello C3, profilo
di agente caccia e pesca)». In ogni caso, la medesima “commistione
di interessi” varrebbe per altre professioni “liberali” (si
pensi all’esercizio della professione di architetto o di geometra da parte
di un impiegato in servizio presso un ufficio tecnico comunale), con riferimento
alle quali, tuttavia, non è previsto analogo divieto. Del resto, il
timore che il prestigio del difensore possa basarsi, anziché sulle qualità personali,
sulle funzioni pubbliche ricoperte «non ha impedito al legislatore di
sancire la compatibilità dell’esercizio della professione di avvocato
con l’attività di professore di università o istituti secondari
statali o con incarichi quali quelli di giudice di pace, giudice tributario,
giudice onorario di tribunale e vice procuratore onorario (anzi addirittura
i V.P.O. possono esercitare la professione di avvocato anche nella stessa circoscrizione
purché in sedi distaccate)».
Quanto, poi, all’esigenza di garantire l’imparzialità e il buon andamento
dell’amministrazione, la normativa vigente già prevede – continua
il rimettente – una serie di limiti che appare idonea a salvaguardare
l’anzidetta esigenza, come ha messo in luce la Corte costituzionale con la
sentenza n. 189 del 2001, che ha dichiarato non fondate tutte le questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 56 e 56-bis, della
legge n. 662 del 1996, sollevate dal Consiglio nazionale forense con riferimento
agli artt. 3, 4, 24, 97 e 98 Cost. Invero, l’art. 1 della legge n. 662 del
1996, nell’abrogare il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati nei confronti
dei pubblici dipendenti in regime di part time ridotto, ha stabilito:
al comma 56-bis (introdotto dal d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140), che ai suddetti dipendenti
non solo non possono essere conferiti incarichi da parte della pubblica amministrazione,
ma che non è neppure consentito loro di assumere il patrocinio in controversie
di cui questa sia parte;
al comma 58, che l’amministrazione possa negare la trasformazione del rapporto
a tempo pieno in part time nel caso in cui l’ulteriore attività di lavoro
(subordinato o autonomo) del dipendente «comporti un conflitto di interessi
con la specifica attività di servizio svolta», ovvero di differire
la trasformazione stessa, per un periodo non superiore a sei mesi, allorché possa
derivarne grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione medesima;
al comma 58-bis (pur esso introdotto dal citato d.l. n. 79 del 1997), che
le singole amministrazioni – ferma la valutazione in concreto dei singoli
casi di conflitto di interesse – individuino (con decreto ministeriale
emanato di concerto con il Ministro per la funzione pubblica) le attività da
considerare «comunque non consentite», in «ragione della
interferenza con i compiti istituzionali». In attuazione di tale norma
sono state emanate istruzioni generali da parte della Presidenza del Consiglio
dei ministri (in particolare, la circolare del 18 luglio 1997) e specifiche
previsioni ad opera di singole amministrazioni statali.
Infine, il comma 2-ter dell’art. 18 della legge n. 109 del 1994 (inserito
dall’art. 9, comma 30, della legge n. 415 del 1998) esclude in modo assoluto
che i pubblici dipendenti possano espletare, nell’ambito territoriale del proprio
ufficio, incarichi professionali per conto delle amministrazioni di appartenenza.
2.1.4.– La disparità di trattamento creata dal denunciato art.
1 della legge n. 339 del 2003 risulta ancor più accentuata, secondo
il remittente, ove si ponga mente alla normativa comunitaria. L’art. 2 della
direttiva 98/5/CE stabilisce, infatti, che «gli avvocati hanno diritto
di esercitare stabilmente le attività di avvocato in tutti gli Stati
membri con il proprio titolo professionale di origine». Il successivo
art. 5, comma 1, dispone che «l’avvocato che esercita con il proprio
titolo professionale di origine svolge le stesse attività professionali
dell’avvocato che esercita con il corrispondente titolo professionale dello
Stato membro ospitante». La stessa direttiva prevede inoltre la possibilità di
costituire società tra avvocati e società con avvocati di altri
Stati membri.
Orbene, il dipendente pubblico italiano, anche se in regime di part time
c.d. ridotto e anche se in possesso dell’abilitazione professionale, non può,
in base alla legge n. 339 del 2003, iscriversi agli albi degli avvocati italiani
e consequenzialmente non può esercitare la professione di avvocato neppure
negli altri Stati membri, in quanto l’art. 3 della direttiva, al comma 2, stabilisce
che «lo Stato membro ospitante procede all’iscrizione dell’avvocato straniero
su presentazione del documento attestante l’iscrizione di questi presso la
corrispondente autorità competente dello Stato membro di origine».
Viceversa, l’avvocato straniero che sia anche pubblico dipendente può esercitare
in Italia e può partecipare a società di avvocati con professionisti
italiani.
2.1.5.– L’ostacolo frapposto dalla norma censurata allo svolgimento
dell’attività professionale per la quale si è conseguita la prescritta
abilitazione sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 4 Cost., che riconosce
a tutti i cittadini il diritto al lavoro, e con l’art. 35 Cost., che tutela
il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
2.1.6.– Appare infine vulnerato anche l’art. 41 Cost., in quanto il
divieto posto dall’art. 1 della legge n. 339 del 2003 all’esercizio della professione
di avvocato da parte dei pubblici dipendenti non può dirsi dettato da “fini
sociali”, laddove, come ha evidenziato l’Autorità garante della
concorrenza e del mercato nel parere n. 48/01 e come ha affermato anche la
Corte costituzionale nella citata sentenza n. 189 del 2001, le disposizioni
della legge n. 662 del 1996, delle quali la norma impugnata esclude l’applicazione
con riguardo alla sola professione forense, «sono intese a favorire l’accesso
di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione
e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è naturalmente
concorrenziale».
2.2.– Si è costituito, ed ha depositato memoria nell’imminenza
dell’udienza, il ricorrente nel giudizio principale, il quale ha sostenuto
le ragioni che depongono per la fondatezza della questione di costituzionalità.
2.2.1.– Si è costituito, ed ha presentato memoria l’Oua-Organismo
unitario dell’avvocatura, sostenendo l’infondatezza della questione e, ancor
prima, la sua inammissibilità.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3 e 4
della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli
1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio
della professione di avvocato). A sua volta, il Tribunale di Cuneo dubita della
legittimità costituzionale dell’art. 1 della citata legge, in riferimento – oltre
che agli artt. 3 e 4 Cost. – anche agli artt. 35 e 41 Cost.
2.– Poiché le due ordinanze sollevano questioni in gran parte
analoghe nei confronti della medesima legge n. 339 del 2003, i relativi giudizi
devono essere riuniti.
3.– Preliminarmente deve essere ribadito quanto disposto con ordinanza,
della quale si è data lettura in udienza, circa l’inammissibilità dell’intervento
spiegato in entrambi i giudizi – sulla base di una pretesa legittimazione
a «rappresentare e tutelare gli interessi giuridici appartenenti alla
classe forense nelle sue vesti istituzionalizzate» – dall’O.U.A. – Organismo
unitario dell’Avvocatura.
4.– La questione sollevata dal Tribunale di Napoli è inammissibile.
Nell’ordinanza di rimessione, infatti, si precisa che il giudizio era stato
originato dal rifiuto dell’Amministrazione – nella specie, Avvocatura
dello Stato – di consentire la trasformazione del rapporto di lavoro
a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale; rifiuto motivato con
il conflitto di interessi che sarebbe scaturito dalla contestuale sussistenza
del rapporto di lavoro e dell’esercizio della professione forense.
La sopravvenuta legge n. 339 del 2003 impedisce certamente l’accoglimento
della domanda di trasformazione del rapporto di lavoro del pubblico dipendente,
in quanto tale domanda presupponeva la possibilità di iscrizione all’albo
degli avvocati. Altrettanto certamente, tuttavia, ciò non è sufficiente
per giustificare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale,
dal momento che il rifiuto dell’Amministrazione era fondato sul disposto dell’art.
58 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a norma del quale l’Amministrazione
ha il potere di negare il suo consenso alla domanda del dipendente ove ciò «comporti
un conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta
dal dipendente»: ed è evidente che tale norma – non incisa,
in quanto tale, dalla legge censurata – comporta di per sé il
rigetto della domanda, ove il diniego dell’Amministrazione sia ritenuto legittimo,
e conseguentemente preclude che venga in rilievo il divieto di iscrizione all’albo
degli avvocati introdotto dalla legge n. 339 del 2003.
5.– La questione sollevata dal Tribunale di Cuneo – certamente
rilevante nel giudizio a quo, in quanto il diniego dell’Amministrazione è stato
opposto esclusivamente in ragione del disposto della legge censurata – non è fondata.
5.1.– L’argomentazione svolta dal Tribunale rimettente a sostegno dell’asserita
violazione dell’art. 3 della Costituzione si articola, in primo luogo, in una
critica delle ragioni, emergenti dai lavori preparatori della legge n. 339
del 2003, addotte a giustificazione della lex specialis che, rispetto alla
legge n. 662 del 1996, si andava ad introdurre nell’ordinamento: ragioni tutte
riconducibili ad inconvenienti («strano rapporto di interazione pubblico-privato
per cui il prestigio del difensore non sarà più basato sulla
sua professionalità, ma sul suo potere nell’ambito dell’amministrazione»; «commistione
di interessi») che non sarebbero esclusivi dell’intreccio tra pubblico
impiego ed esercizio della professione forense.
In secondo luogo, il giudice rimettente sottolinea come già questa
Corte, con la sentenza n. 189 del 2001, abbia ritenuto infondate le censure
sollevate nei confronti dell’art. 1, commi 56 e 56 bis, della legge n. 662
del 1996, abrogativa del divieto di iscrizione agli albi degli avvocati in
precedenza esistente per i pubblici dipendenti.
In terzo luogo, osserva il giudice a quo come la legge censurata crei una
disparità di trattamento «ancor più accentuata, ove si
ponga mente alla normativa comunitaria», ed in particolare agli artt.
2 e 5, comma 1, della direttiva 98/5/CE, in quanto «l’avvocato straniero
che sia pubblico dipendente può esercitare in Italia» mentre l’omologo
italiano, non potendo iscriversi all’albo degli avvocati italiani, «non
può esercitare la professione di avvocato neppure negli altri Stati
membri».
5.1.1.– La censura da ultimo ricordata – concernente la disparità di
trattamento che sarebbe prodotta dalla legge de qua in relazione all’ordinamento
comunitario – è priva di consistenza, dal momento che essa trascura
il disposto dell’art. 8 della citata direttiva, a norma del quale «l’avvocato
iscritto nello Stato membro ospitante con il titolo professionale di origine
può esercitare la professione come lavoratore subordinato […]
di un ente pubblico o privato, qualora lo Stato membro ospitante lo consenta
agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia».
Tale norma, dettata in attuazione del “considerando” n. 13 della
direttiva, esclude in radice che possa realizzarsi la disparità di trattamento
ipotizzata dal rimettente, come peraltro inequivocabilmente chiarisce il decreto
legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 (Attuazione della direttiva 98/5/CE volta
a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato
membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale),
il cui art. 5, comma 2, estende agli avvocati di altri Stati membri – sia “stabiliti” sia “integrati” in
Italia – «le norme sull’incompatibilità che riguardano l’esercizio
della professione di avvocato», inclusa quella (art. 3, comma quarto)
relativa agli uffici legali istituiti presso enti pubblici.
5.1.2.– Il secondo profilo di preteso contrasto con l’art. 3 della
Costituzione, fondato su quanto questa Corte ha statuito con la sentenza n.
189 del 2001, sembra presupporre che le considerazioni allora svolte per argomentare
la non manifesta irragionevolezza della disciplina che consentiva ai pubblici
dipendenti a part-time cosiddetto ridotto di iscriversi agli albi degli avvocati
valgano anche a dimostrare l’irragionevolezza (rectius, la manifesta irragionevolezza)
dell’opposta disciplina introdotta dalla legge n. 339 del 2003.
Al contrario, è evidente che non c’è equivalenza tra il dire
(come diceva la citata sentenza) che – nel quadro di una generale elisione
del «vincolo di esclusività della prestazione in favore del datore
di lavoro pubblico» – il legislatore aveva posto, con i commi 56
bis e 58, adeguati limiti «per evitare eventuali conflitti di interessi» e
che, conseguentemente, non poteva parlarsi di «assoluta mancanza di ragionevolezza
e logicità» delle disposizioni allora censurate, ed il dire (come
fa il giudice rimettente) che al legislatore sarebbe inibito di reintrodurre
il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati dei pubblici dipendenti a
part-time ridotto.
E’ ovvio che la non irragionevolezza di una disciplina non esclude la non
irragionevolezza di una opposta disciplina e che il legislatore conserva integro – con
il solo limite, appunto, della non manifesta irragionevolezza – il potere
di disciplinare diversamente la medesima materia che abbia superato, in precedenza,
il vaglio di legittimità costituzionale.
5.1.3.– Poste queste premesse, l’unico problema che deve porsi in questa
sede è se debba ritenersi manifestamente irragionevole la scelta del
legislatore di escludere la sola professione forense dal novero di quelle – e
cioè di tutte le altre per l’esercizio delle quali è prescritta
l’iscrizione in un albo – alle quali i pubblici dipendenti a part-time
cosiddetto ridotto possono accedere.
Il rilievo del giudice a quo – secondo cui i possibili inconvenienti
derivanti dalla «commistione» tra pubblico impiego e libera professione
non sarebbero esclusivi della professione forense – non vale, di per
sé, a dimostrare la manifesta irragionevolezza dell’opzione legislativa,
non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione – operata
dal legislatore – di maggiore pericolosità e frequenza di tali
inconvenienti quando la «commistione» riguardi la professione forense.
Un rilievo del genere attiene all’opportunità della scelta ovvero all’opportunità della
non estensione di essa ad altre attività libero-professionali, non alla
manifesta irragionevolezza.
Peraltro, la valutazione che questa Corte deve operare a norma dell’art.
3 Cost. non può prescindere dal considerare come il divieto ripristinato
dalla legge n. 339 del 2003 sia coerente con la caratteristica – peculiare
della professione forense (tra quelle il cui esercizio è condizionato
all’iscrizione in un albo) – dell’incompatibilità con qualsiasi «impiego
retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o
consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario» (art.
3 del R.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, recante «Ordinamento delle professioni
di avvocato e procuratore»).
Le eccezioni, alla regola che sancisce l’incompatibilità con qualsiasi
rapporto implicante subordinazione, non vulnerano la coerenza del sistema allo
stato vigente: in particolare, l’eccezione che riguarda i docenti deve essere
considerata alla luce del principio costituzionale della libertà dall’insegnamento
(art. 33 Cost.), dal quale discende che il rapporto di impiego (ed il vincolo
di subordinazione da esso derivante), come non può incidere sull’insegnamento
(che costituisce la prestazione lavorativa), così, ed a fortiori, non
può incidere sulla libertà richiesta dall’esercizio della professione
forense; a sua volta, quella che riguarda gli uffici legali presuppone – secondo
la costante giurisprudenza – la creazione di una struttura autonoma rispetto
a quella amministrativa dell’ente e l’assenza di ogni vincolo di subordinazione
dei legali inseriti in tali uffici rispetto all’organizzazione amministrativa
dell’ente.
Da questi rilievi discende che, come non poteva dirsi priva di qualsiasi
ragionevolezza la disciplina del 1996, così non può dirsi irragionevole
l’opposta disciplina del 2003, e deve concludersi che il legislatore ha, nell’un
caso e nell’altro, esercitato null’altro che il suo discrezionale potere (art.
28 legge n. 87 del 1953).
5.2.– La non fondatezza delle censure mosse in riferimento agli artt.
4 e 35 Cost. è palese, non avendo il legislatore, al quale è affidata
l’attuazione del diritto al lavoro e la sua tutela, malamente esercitato, per
quanto si è detto sopra, il suo potere.
5.3.– La censura relativa all’art. 41 Cost. non merita accoglimento,
in quanto fondata su un argomento – svolto dalla citata sentenza n. 189
del 2001 e riprodotto dal parere del 6 dicembre 2001 dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato – addotto per negare che la disciplina
del 1996 fosse contrastante (come anche allora lamentato) con l’art. 4 Cost.;
e che quell’argomento non sia idoneo a far ritenere sussistente la violazione
del precetto di cui all’art. 41 Cost. è confermato dal rilievo che,
subito dopo, la predetta sentenza (al n. 10 del Considerato in diritto) richiamava
il d.lgs. n. 96 del 2001, attuativo della direttiva 98/5/CE, del quale si è chiarita
l’irrilevanza ai fini delle questioni qui esaminate.
P.Q.M.
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi;
dichiara inammissibile l’intervento in entrambi spiegato dall’OUA – Organismo
Unitario dell’Avvocatura;
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia
di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato), sollevata,
in riferimento agli articoli 3 e 4 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli
con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo
1 della medesima legge sollevata, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41
della Costituzione, dal Tribunale di Cuneo con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, l’8 novembre 2006. Depositata in Cancelleria il 21 novembre
2006.