L’affidamento in house nei lavori pubblici

Secondo la Corte di Giustizia la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del “controllo analogo”.

I giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

– il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

– l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen.; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling; anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati);

– le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (in questo senso, anche Cons. Stato, V, 8 gennaio 2007 n. 5).

E tuttavia, anche in presenza di questi elementi, i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono comunque essere interpretati restrittivamente (Corte di Giustizia, 6 aprile 2006, C-410/04).

L’in house infatti, non costituisce un principio generale, prevalente sulla normativa interna, ma è un principio derogatorio di carattere eccezionale che consente, e non obbliga, i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento.

In cosneguenza, per quanto concerne i lavori pubblici, e in particolare il settore dei beni culturali, nessuna previsione normativa interna consente il ricorso all’affidamento in house, da ciò l’illegittimità dei relativi atti di affidamento diretto.

. . . . . .

Consiglio di Stato, VI sezione

sentenza 3 aprile 2007 numero 1514

(presidente Varrone, estensore Chieppa)

(…)

Diritto

1. I ricorrenti di primo grado sono restauratori operanti in Roma, nonché in campo nazionale ed internazionale, nell’ambito del restauro, della conservazione dei beni culturali e della progettazione e direzione dei lavori di opere pubbliche.

Con il ricorso proposto in primo grado hanno impugnato alcune deliberazioni del Comune di Roma, lamentando che per effetto di queste una rilevante parte degli interventi di manutenzione ordinaria e di restauro dei beni culturali, nonché delle attività di progettazione dei lavori pubblici relativi ai beni culturali gestiti dal Comune di Roma, in precedenza aggiudicati in esito a procedure di gare, sarebbe stata affidata alla società Zetema.

In particolare, hanno impugnato:

– la deliberazione n. 286 del 3 novembre 2005, con cui il Consiglio comunale di Roma ha acquisito l’intero capitale sociale della Zetema Progetto Cultura s.r.l. e ha approvato il nuovo statuto sociale;

– la deliberazione n. 663 del 30 novembre 2005, con cui la Giunta comunale di Roma ha approvato il contratto di servizio tra il Comune e la Zetema Progetto Cultura s.r.l., relativamente alla fornitura dei servizi di progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali (mobili ed immobili) del Comune stesso.

Con sentenza n. 7373/2006 il Tar del Lazio ha così deciso:

a) ha dichiarato il difetto di interesse dei ricorrenti ad impugnare la stabilizzazione dei lavoratori LPU, avvenuta peraltro con la diversa deliberazione n. 1164 del 2000;

b) ha respinto il ricorso proposto avverso la deliberazione n. 286/2005, con cui il Comune ha acquisito l’intero capitale sociale della Zetema Progetto Cultura s.r.l.;

c) ha accolto il ricorso avverso la deliberazione n. 663/2005, ritenendo che il Comune non potesse procedere all’affidamento diretto alla Zetema dei servizi di progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali;

d) ha respinto la domanda di risarcimento del danno, ritenendo l’assenza di prova del danno subito dai ricorrenti, cui la decisione restituirebbe in forma specifica la chance di aggiudicarsi gare nel settore dei lavori sui beni culturali.

Con ricorso n. 7438/06 i restauratori menzionati in epigrafe hanno proposto appello avverso tale decisione e con successivo ricorso n. 8498/06 anche il Comune di Roma ha impugnato la sentenza nella parte a lui sfavorevole.

Nel giudizio n. 7438/06 Zetema Progetto Cultura s.r.l. ha proposto ricorso in appello incidentale autonomo, chiedendo la riforma della sentenza negli stessi termini del ricorso del Comune.

All’udienza del 5 dicembre 2006, fissata per la discussione del merito del ricorso n. 7438/06, questa Sezione rilevava che avverso la medesima sentenza pendeva il ricorso n. 8498/06 del Comune di Roma, fissato ai soli fini della decisione cautelare e che tale ricorso era stato notificato dal Comune alla sola società Ara s.n.c. e non alle altre parti ricorrenti in primo grado ed appellanti principali nel giudizio n. 7438/06.

La Sezione riteneva che, in caso di omessa notificazione del ricorso in appello a tutte le parti costituite in primo grado, si dovesse procedere, in analogia a quanto previsto dagli artt. 331 e 332 c.p.c., all’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altri parti necessarie (Cons. Stato, V, n. 2271/05; n. 5157/05; IV, n. 923/02; VI, n. 69/04) e, di conseguenza, previo ordine al Comune di integrare il contraddittorio, rinviava le cause all’odierna udienza, trattandosi di ricorsi da riunire necessariamente in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Integrato il contraddittorio, all’odierna udienza le cause sono state trattenute in decisione.

2. Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei due ricorsi proposti avverso la medesima sentenza.

3. Sempre in via preliminare, deve essere esaminata una eccezione relativa alla procura del difensore delle parti appellanti, sollevata da Zetema.

Secondo quanto sostenuto dalla Zetema, il ricorso in appello sarebbe stato ritualmente proposto soltanto da uno degli appellanti (Carla Tomasi s.r.l.), avendo solo questa conferito nuova procura al difensore per il giudizio di appello.

A prescindere dal fatto che il ricorso andrebbe comunque deciso con riguardo alla posizione di Carla Tomasi s.r.l., l’eccezione è comunque infondata.

Sulla necessità, o meno, di una procura speciale per il ricorso in appello davanti al Consiglio di Stato vi è un contrasto di giurisprudenza: secondo alcune pronunce per l’appello al Consiglio di Stato occorre comunque un nuovo mandato, dato che nel processo amministrativo – non diversamente da quanto avviene nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione – vale il principio del conferimento di una nuova delega per il superiore grado di giudizio (Cons. Stato,. V, 22 giugno 1989, n. 389); con altre decisioni, invece, è stato affermato che la procura speciale ad litem conferita con riferimento al giudizio in primo grado può essere estesa al grado di appello, ai sensi dell’art. 83 comma ultimo c.p.c., allorché la volontà del ricorrente sia in tale direzione desumibile dal contesto della procura medesima, idonea a superare la presunzione semplice, o iuris tantum della sua limitazione al giudizio dinanzi al TAR (Cons. Stato, VI, 11 gennaio 1990 , n. 62 e V, 6 marzo 1990 , n. 262).

La più recente decisione, citata dalla Zetema (Cons. Stato, IV, 17 marzo 2005 , n. 1109), si riferisce in realtà ad una fattispecie in cui il mandato conferito in primo grado era solo un mandato a resistere, ritenuto inidoneo al fine della proposizione del ricorso in appello.

Il Collegio ritiene che l’art. 35 del R.D. n. 1054/1924 non fornisca elementi utili per risolvere la questione, trattandosi di norma relativa ad un periodo in cui non vi era il doppio grado nella giurisdizione amministrativa e che, invece, in applicazione analogica dell’art. 83 c.p.c., la procura speciale alle liti si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo quando nell’atto non è espressa volontà diversa, mentre è ammesso un unico mandato per lo svolgimento dell’intero processo, nei due gradi di merito, ove tale volontà sia inequivocabilmente manifestata.

A conferma di tale tesi, questa Sezione ha affermato che il principio secondo cui la procura speciale ad impugnare una sentenza non può essere rilasciata in data anteriore alla pubblicazione della sentenza da impugnare è applicabile per il ricorso in Cassazione, vale a dire per un ricorso di sola legittimità, ma non può essere esteso all’appello davanti al Consiglio di Stato, che è giudizio di secondo grado di merito (Cons. Stato, VI, 6 maggio 2003 n. 2900).

Secondo la Cassazione, l’interpretazione della procura alle liti deve essere compiuta nel rispetto della regola della conservazione del negozio, sicché la procura alle liti conferita in primo grado con la locuzione “per il presente giudizio”, od altra equivalente, abilita il difensore alla proposizione dell’appello, senza necessità del rilascio di una ulteriore delega, salvo che dal contesto dell’atto non risulti l’esistenza di elementi limitativi (Cassazione civile , sez. I, 9 giugno 2005 , n. 12170).

Nel caso di specie, con la procura rilasciata in primo grado, i ricorrenti hanno conferito al difensore mandato a rappresentarli nel presente giudizio in ogni fase e grado, esprimendo quindi la chiara volontà di estendere il mandato anche alla fase di appello.

4. Passando al merito della controversia, si osserva che l’oggetto del giudizio è costituito dalla contestazione da parte del gruppo di restauratori ricorrenti di alcune deliberazioni del Comune di Roma con cui determinati servizi e lavori sono stati affidati direttamente, senza procedura di gara, a Zetema Progetto Cultura s.r.l..

Si tratta di due deliberazioni del novembre 2005, che si inseriscono in un unico disegno, con cui il Comune di Roma ha inteso valorizzare la società Zetema, partecipata dallo stesso Comune e che hanno fatto seguito ad altre deliberazioni, sempre impugnate dallo stesso gruppo di restauratori con altro giudizio, deciso anche in data odierna.

In primo luogo, si osserva che, come correttamente rilevato dal Tar, la questione della stabilizzazione dei lavoratori LPU non assume rilevanza nel presente giudizio, essendo inerente alla deliberazione n. 1164/00, impugnata (tardivamente) in altro giudizio.

Allo stesso modo deve essere confermata la sentenza del Tar, con cui non è stato accolto il ricorso proposto avverso la deliberazione n. 286 del 3 novembre 2005, con cui il Consiglio comunale di Roma ha acquisito l’intero capitale sociale della Zetema Progetto Cultura s.r.l. e ha approvato il nuovo statuto sociale.

Infatti, i ricorrenti, quali restauratori, non hanno interesse a contestare l’acquisto da parte del Comune di Roma del 25 % del capitale sociale di Zetema (quota che consente al Comune di possedere l’intero capitale), trattandosi di atto, il cui annullamento non gioverebbe ai ricorrenti, perché non riveste alcuna portata lesiva e non determina alcuna modificazione nè del contenuto degli affidamenti, nè della loro durata, limitandosi a disporre dell’assetto societario di Zetema.

Il ricorso dei restauratori deve, quindi, essere sul punto respinto.

4. Devono a questo essere esaminati congiuntamente i ricorsi proposti dal Comune di Roma e, in via incidentale autonoma, da Zetema.

I ricorsi sono diretti a contestare la parte di sentenza, con cui è stata annullata la deliberazione n. 663 del 30 novembre 2005, con cui la Giunta comunale di Roma ha approvato il contratto di servizio tra il Comune e la Zetema Progetto Cultura s.r.l., relativamente alla fornitura dei servizi di progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali (mobili ed immobili) del Comune stesso.

Il giudice di primo grado ha ritenuto che:

– a seguito della novella recata all’art. 113 del D. Lgs. n. 267/2000 dall’art. 14, c. 1 del D.L. 30 settembre 2003 n. 269 (convertito, con modificazioni, dalla l. 24 novembre 2003 n. 326), la p.a.. è sostanzialmente libera di scegliere, relativamente alla gestione dei servizi pubblici, tra l’affidamento mediante procedure d’evidenza pubblica e l’affidamento in house (s.p.a. a capitale interamente pubblico);

– nel settore dei beni culturali, in base al combinato disposto degli artt. 6 e 115, c. 3, lett. a) del D. Lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali), nel testo ratione temporis vigente prima della novella recata dall’art. 2, c. 1, lett. h) del D. Lgs. 24 marzo 2006 n. 156, le attività di valorizzazione di detti beni può avvenire pure con il modulo organizzativo dell’affidamento in house;

– in tale settore, tuttavia, per la progettazione delle opere e direzione lavori e per l’affidamento degli appalti, rimangono ferme le regole generali, che impongono la gara, in materia di lavori pubblici, benché siano state previste dal D. Lgs. 30 gennaio 2004 n. 30 specifiche previsioni tecniche in relazione alla natura delle opere;

– sono di conseguenza fondate le censure proposte dai ricorrenti nei confronti della deliberazione giuntale n. 663/2005, con cui il Comune ha disposto l’ affidamento diretto a Zetema dei servizi di progettazione, conservazione, manutenzione, documentazione e catalogazione dei beni culturali, aggirando le regole dell’evidenza pubblica, di cui agli artt. 1 e 7 del D. Lgs. n. 30/2004.

– l’art. 115, c. 3, lett. a) del D. Lgs. n. 42/2004 riguarda, infatti, non tutte le possibili competenze in tema di beni culturali, ma solo le attività di valorizzazione degli stessi e il dato testuale non autorizza a ritenere consentito l’affidamento in house, oltre alle attività espressamente normate.

I ricorsi in appello proposti dal Comune di Roma e dalla Zetema sono privi di fondamento.

Innanzitutto, va rilevato come la situazione della società Zetema sia diversa da quella esaminata nel ricorso n. 2051/06, deciso in data odierna e in cui la Sezione ha ritenuto neanche configurabile l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca (febbraio 2005) degli affidamenti in contestazione in quel procedimento.

L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude, infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house.

L’espressione in house providing identifica il fenomeno di “autoproduzione” da parte della pubblica amministrazione, che acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a “terzi” tramite gara (c.d. esternalizzazione) e dunque al mercato.

E’ noto che per un legittimo affidamento in house è necessario che concorrano i seguenti due elementi:

a) l’amministrazione aggiudicatrice deve esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;

b) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.

In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa (principi affermati dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98).

La Corte di Giustizia ha anche escluso che possa sussistere il controllo analogo in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato (Corte di giustizia, 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle; 11 maggio 2006, C-340/04).

Nella fattispecie che viene all’esame nel presente giudizio, all’epoca degli affidamenti impugnati (deliberazione n. 663 del 30-11-2005) il Comune di Roma possedeva ormai il 100 % della Zetema, avendo acquisito con deliberazione n. 286 del 3-11-2005 il 25 % di proprietà di un partner privato (Civita servizi s.r.l.).

Del resto, con la deliberazione n. 286/05, il Comune di Roma aveva giustificato l’acquisto del restante 25 % di Zetema, facendo presente che “per procedere ad un affidamento diretto dei servizi e delle attività .. è necessario che l’amministrazione comunale acquisisca l’intero capitale sociale di Zetema e che eserciti un controllo sulla stessa società analogo a quello esercitato sui propri servizi”.

Con la deliberazione n. 286/05 è stato anche modificato lo statuto di Zetema, in modo da renderlo conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria.

Secondo la Corte di Giustizia, infatti, la partecipazione pubblica totalitaria è elemento necessario, ma non sufficiente, per integrare il requisito del controllo analogo.

Con i richiamati precedenti, i giudici comunitari hanno ritenuto necessari maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile:

– il consiglio di amministrazione della s.p.a. in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;

– l’impresa non deve aver «acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo» dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta il territorio nazionale e all’estero (Corte di giustizia, 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen.; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling; anche Cons. Stato, V, 30 agosto 2006 n. 5072, ha escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati);

– le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (in questo senso, anche Cons. Stato, V, 8 gennaio 2007 n. 5).

Nel caso di specie, non è in contestazione che lo statuto di Zetema, divenuta società a partecipazione totalitaria pubblica, integri i suddetti requisiti, essendo previsto quel particolare e più penetrante controllo da parte del Comune di Roma, richiesto dalla citata giurisprudenza comunitaria.

La questione da risolvere è se il Comune di Roma potesse affidare a Zetema oltre ai servizi di valorizzazione dei beni culturali, anche lavori di manutenzione e restauro, compresa la progettazione.

A differenza della fattispecie esaminata nel giudizio n. 2051/06 (in cui tale punto era contestato), è, infatti, qui pacifico che con la deliberazione n. 663/05, e con all’allegato contratto di servizio, il Comune abbia affidato a Zetema anche detti lavori.

Il Collegio ritiene che Zetema possegga i requisiti per l’affidamento in house dei servizi, anche oggetto della deliberazione contestata, ma che il Comune non potesse affidare direttamente anche i menzionati lavori attinenti il settore dei beni culturali.

Si deve tenere presente che la Corte di Giustizia ha affermato che: i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente (Corte di Giustizia, 6 aprile 2006, C-410/04).

Ciò significa che l’in house non costituisce un principio generale, prevalente sulla normativa interna, ma è un principio derogatorio di carattere eccezionale che consente, e non obblighi, i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento.

Per quanto concerne i lavori pubblici, e in particolare il settore dei beni culturali, alcune previsione normativa interna consente il ricorso all’affidamento in house.

Una norma di carattere generale era stata proposta nel primo schema del c.d. codice appalti, ma non è stata poi inserita nel testo finale del D. Lgs. n. 163/2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture.

Per i beni culturali, ai sensi dell’art. 115 del D. Lgs. n. 42/2004 erano previste forme di gestione dell’attività di valorizzazione dei beni culturali anche attraverso società pubbliche in house (forme di gestione comunque ridimensionate dalla modifica apportata dall’art. 2, comma 1, lett. h), D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 156).

Anche l’art. 7 del D. Lgs. n. 30/2004, vigente all’epoca dei fatti di causa, disciplinava per i lavori attinenti ai beni culturali l’affidamento a trattativa privata, nel rispetto dei principi di adeguata pubblicità, trasparenza, imparzialità e fissava i limiti dei lavori in economia, ma in alcun modo era previsto l’affidamento in house di tali lavori.

Deve, quindi, ritenersi che l’affidamento diretto non potesse concernere che il servizio relativo alla valorizzazione, e non anche, in difetto di specifiche norme derogatrici, le attività di progettazione, conservazione e manutenzione, affidate con la deliberazione n. 663/2005.

Tali attività non sono sicuramente ascrivibili alla valorizzazione, con la conseguenza che non potevano essere affidate in house in assenza di espressa disposizione di legge, idonea a consentirlo.

Né rileva accertare se i singoli lavori potessero essere, o meno, svolti in economia, o se la progettazione potesse essere svolta direttamente alla p.a., in quanto l’affidamento diretto a terzi di un blocco di tali lavori di importo complessivamente superiore al limite dei lavori in economia è comunque consentito solo se ricorrono i presupposti del c.d. in house.

Devono quindi essere respinti i ricorsi in appello proposti dal Comune di Roma e da Zetema.

5.1. Deve a questo punto essere esaminata la domanda risarcitoria, oggetto del ricorso in appello dei restauratori, che si lamentano dei danni subiti per la contrazione del mercato dei lavori sui beni culturali in un comune particolarmente importante sotto tale profilo, come quello di Roma.

L’annullamento della deliberazione n. 663/2005 non può essere considerato pienamente satisfattivo delle pretese dei ricorrenti, come ritenuto dal Tar, in quanto la restituzione della chance in forma specifica a seguito delle gare che il Comune dovrà bandire in esecuzione della decisione giurisdizionale opera solo dal momento della pubblicazione della sentenza impugnata (23-8-2006).

La deliberazione n. 663/05 ha, quindi, avuto una esecuzione almeno parziale dal 30 novembre 2005 al 23 agosto 2006 e per tale periodo possono residuare profili risarcitori.

Con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione per i danni causati dall’esercizio illegittimo dell’attività amministrativa, questa Sezione ha già aderito a quell’orientamento favorevole a restare all’interno dei più sicuri confini dello schema e della disciplina della responsabilità aquiliana, che rivelano una maggiore coerenza della struttura e delle regole di accertamento dell’illecito extracontrattuale con i caratteri oggettivi della lesione di interessi legittimi e con le connesse esigenze di tutela, (Cons. Stato, VI, 23 giugno 2006 n. 3981; 9 novembre 2006 n. 6607; 9 marzo 2007 n. 1114; IV, 6 luglio 2004 n. 5012; 10 agosto 2004 n. 5500).

Sotto il profilo dell’elemento oggettivo dell’illecito, si rileva che i ricorrenti non possono pretendere i danni per non essere risultati aggiudicatari di appalti, in quanto l’illegittimità commessa dall’amministrazione è stata quella di affidare lavori in via diretta senza indire le gare e la lesione subita non può che essere limitata alla perdita della chance di aggiudicarsi la gare, mai bandite.

Dagli elementi forniti è in effetti emersa una contrazione del mercato dei lavori su beni culturali nel Comune di Roma, inevitabile conseguenza dell’affidamento diretto ad una società di parte di essi; contrazione del mercato che ha inciso anche sulle posizioni dei ricorrenti.

La perdita della chance di partecipare alle gare costituisce, quindi, un danno che si pone in rapporto di diretta consequenzialità con l’illegittimo affidamento alla società Zetema dei menzionati lavori.

Non è invece configurabile il presunto danno esistenziale, chiesto dai ricorrenti senza alcun supporto giuridico e probatorio.

5.2. Per quanto concerne, l’elemento soggettivo, sulla base dei richiamati precedenti giurisprudenziali, va ribadito che non è comunque richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare sforzo probatorio per dimostrare la colpa della p.a… Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione peri danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie.

Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile.

Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.

Si deve, peraltro, tenere presente che molte delle questioni rilevanti ai fini della scusabilità dell’errore sono questioni di interpretazione ed applicazione delle norme giuridiche, inerenti la difficoltà interpretativa che ha causato la violazione; in simili casi il profilo probatorio resta in larga parte assorbito dalla questio iuris, che il giudice risolve autonomamente con i propri strumenti di cognizione in base al principio iura novit curia.

Spetta, quindi, al giudice valutare, in relazione ad ogni singola fattispecie, la presunzione relativa di colpa, che spetta poi all’amministrazione vincere; inoltre, in assenza di discrezionalità o in presenza di margini ridotti di essa, le presunzioni semplici di colpevolezza saranno più facilmente configurabili, mentre in presenza di ampi poteri discrezionali ed in assenza di specifici elementi presuntivi, sarà necessario uno sforzo probatorio ulteriore, gravante sul danneggiato, che potrà ad esempio allegare la mancata valutazione degli apporti resi nella fase partecipativa del procedimento o che avrebbe potuto rendere se la partecipazione non è stata consentita.

Va, infine, precisato che alcun elemento contrario alla effettuata ricostruzione della nozione di colpa della p.a. può trarsi dalla giurisprudenza comunitaria.

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regolano la materia dei pubblici appalti alla allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente (Corte Giust., 14 ottobre 2004, C-275/03).

Tuttavia, tale decisione appare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della p.a. e non alla esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’amministrazione.

Come illustrato, nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della p.a. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari.

Inoltre, va considerato che la stessa Corte di Giustizia, pur non facendo riferimento alla nozione di colpa della p.a., utilizza, a fini risarcitori, il criterio della manifesta e grave violazione del diritto comunitario, sulla base degli stessi elementi, descritti in precedenza e utilizzati nel nostro ordinamento per la configurabilità dell’errore scusabile (Corte Giust. CE, 5 marzo 1996, C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur, in cui, al punto 78, viene riconosciuto che alcuni degli elementi indicati per valutare se vi sia violazione manifesta e grave sono riconducibili alla nozione di colpa nell’ambito degli ordinamenti giuridici nazionali).

Precisata la nozione di colpa della p.a., si tratta ora di applicare i suesposti principi alla fattispecie in esame.

Nel caso di specie, l’amministrazione ha proceduto agli affidamenti diretti in favore di Zetema in violazione della richiamata giurisprudenza comunitaria (già esistente al momento degli affidamenti) ed, inoltre, nonostante un invito a lei rivolto dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, con nota prot. n. 27146 del 29 agosto 2005, ad «…adottare iniziative idonee a rimettere in concorrenza le attività di manutenzione ordinaria e di restauro dei beni culturali, anche mediante una procedura ad evidenza pubblica…».

Si è trattato, quindi, di un errore, che in alcun modo può essere ritenuto scusabile e ciò conduce a ritenere sussistente l’elemento della colpa dell’amministrazione appellata.

5.3. Sotto il profilo della quantificazione del danno, si ritiene di dover fissare, ai sensi dell’art. 35, comma 2, del D. Lgs. n. 80/1998, i criteri in base ai quali il Comune di Roma dovrà proporre a favore dei restauratori ricorrenti il pagamento di una somma entro il termine di giorni 90 dalla pubblicazione della presente decisione.

Con riguardo ai criteri da seguire, la perdita di chance va rapportata in termini percentuali all’utile in astratto conseguibile in ipotesi di aggiudicazione delle gare non svolte.

L’utile economico che sarebbe derivato all’impresa dall’esecuzione dell’appalto viene presuntivamente quantificato nel 10% dell’importo a base d’asta, come ribassato dall’offerta presentata (Cons. Stato, V, 8 luglio 2002 n. 3796; Cons. Stato, IV, 6 luglio 2004 n. 5012), ma tale percentuale deve essere ridotta al 5 % nel caso in cui l’impresa non dimostra di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze per l’espletamento di altri servizi (Cons. Stato, V 24 ottobre 2002 n. 5860; VI, 9 novembre 2006 n. 6607).

Tale percentuale sarà fissata in misura non superiore al 5 % qualora i restauratori ricorrenti non forniscano al Comune idonee prove di aver tenuto ferma la propria organizzazione imprenditoriale o comunque di aver subito una rilevante contrazione dei propri bilanci nel periodo in questione (in base a tale documentazione, che i ricorrenti di primo grado sono tenuti a produrre al Comune entro 30 giorni dalla pubblicazione della presente decisione, il Comune fisserà la suddetta percentuale).

Come già detto, quando il ricorrente allega solo la perdita di una chance a sostegno della pretesa risarcitoria, la somma commisurata all’utile d’impresa deve essere proporzionalmente ridotta in ragione delle concrete possibilità di vittoria (Cons. Stato, VI, 8 maggio 2002 n. 2485).

A seguito dell’istruttoria svolta nel giudizio n. 2051/06, è emerso che nelle gare per l’affidamento dei lavori di restauro e di manutenzione partecipano di solito, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, un numero di concorrenti non inferiore a venti, con punte anche più alte e che tale numero si riduce notevolmente in caso di utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e di procedure ristrette. In quel giudizio, è stata ritenuta una presenza media di 15 concorrenti ad ogni gara e, di conseguenza, la perdita della chance è stata quantificata in un quindicesimo dell’utile di impresa, presumendo che ogni concorrente avesse le stesse possibilità di aggiudicarsi la gara.

Il Comune dovrà verificare le tipologie e gli importi degli affidamenti di lavori, avvenuti nel periodo in questione in esecuzione della deliberazione in parte annullata e stabilire il numero medio dei partecipanti ad ipotetiche gare in ragione delle proprie documentate pregresse esperienze.

Dovrà quindi:

– indicare l’importo dei lavori, affidati a Zetema in esecuzione della deliberazione annullata, che sarebbero stati invece affidati mediante gara in applicazione delle statuizioni della presente decisione;

– applicare la percentuale di utile secondo quanto detto in precedenza;

– quantificare la chance sempre alla luce dei principi indicati;

– stabilire così l’importo spettante a ciascun restauratore ricorrente, da considerarsi già attualizzato,

– aumentare detto importo, in via equitativa, dell’1 % (della somma di cui al punto precedente), in considerazione dell’ulteriore danno, consistente nell’incidenza del perdita della chance anche in relazione ai requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare.

6. In conclusione, devono essere respinti i ricorsi in appello proposti dal Comune di Roma e dalla società Zetema (il cui ricorso in appello incidentale non è stato menzionato nel dispositivo n. 132/07, pubblicato il 21-3-2007, trattandosi di appello avente ad oggetto le stesse censure proposte dal ricorso in appello principale del Comune di Roma, espressamente respinto anche nel dispositivo.

Deve, invece, essere in parte accolto il ricorso in appello proposto dai restauratori con riferimento alla domanda di risarcimento del danno nei termini in precedenza indicati ed ai sensi dell’art. 35, comma 2, del D. Lgs. n. 80/1998.

Alla soccombenza del Comune di Romano seguono le spese di lite nella misura indicata in dispositivo, mentre sussistono giusti motivi per compensare le spese tra i restauratori ricorrenti e la società Zetema.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, previa riunione dei ricorsi in epigrafe, respinge il ricorso in appello proposto dal Comune di Roma e accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso in appello n.7438/06 e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune di Roma al risarcimento del danno in favore degli appellanti ai sensi dell’art.35, comma 2, D.lgs. n.80/1998, in base ai criteri indicati in parte motiva.

Compensa le spese tra gli appellanti e Zetema spa, e condanna il Comune di Roma alla rifusione in favore degli appellanti, delle spese di giudizio quantificate in Euro 12.000,00, oltre IVA e C.P.A. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Redazione

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