La Corte Costituzionale 103/2007 sullo spoils system

E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali di livello generale “cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione”.

La norma, prevedendo un meccanismo – cosiddetto spoil system una tantum – di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 Cost.: infatti, le recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione hanno disegnato un nuovo modulo d’azione, che misura il rispetto del canone dell’efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico.

Pertanto, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza soltanto di un’accertata responsabilità, all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.

E’ necessario che sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni per cui ritiene di non consentire la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista e, dall’altro, sia assicurata al dirigente la possibilità di far valere il diritto di difesa, nel rispetto dei principi del giusto procedimento, finalizzati a garantire scelte trasparenti e verificabili, in ossequio al precetto dell’imparzialità dell’azione amministrativa. (Massime a cura della Corte Costituzionale)

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Corte Costituzionale

Sentenza numero 103 del 2007

(presidente Bile, estensore Quaranta)

(…)

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale di Roma, con le sette ordinanze indicate in narrativa, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), e comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), per violazione, nel complesso, degli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione.

Innanzitutto, i rimettenti censurano l’art. 3, comma 7, nella parte in cui è disposta la cessazione automatica degli incarichi dirigenziali di livello generale al sessantesimo giorno dall’entrata in vigore della legge stessa. Tale questione viene ritenuta, con argomentazioni sostanzialmente analoghe, rilevante dai vari giudici a quibus, in quanto la norma censurata precluderebbe l’accoglimento delle richieste di ripristino delle originarie funzioni espletate dai ricorrenti ovvero delle domande risarcitorie derivanti dalla interruzione anticipata del rapporto.

Gli stessi rimettenti, fatta eccezione per quanto attiene all’ordinanza n. 159 del 2006, assumono che sia, altresì, rilevante la questione concernente il comma 1, lettera b), del medesimo art. 3, nella parte in cui – modificando l’art. 19, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – ha ridotto la durata massima degli incarichi dirigenziali in esame da sette a tre anni. Si sostiene, infatti, che, pure se fosse dichiarata la incostituzionalità del comma 7, la riduzione del predetto termine impedirebbe il ripristino dei rapporti cessati nella loro originaria consistenza temporale ovvero inciderebbe sulla misura del risarcimento del danno, attesa la maggiore durata degli incarichi stabilita convenzionalmente. In particolare, nella ordinanza n. 157 del 2006, si afferma che «il limite triennale della durata massima dell’incarico, fissato da una norma imperativa di legge sopravvenuta al contratto originario», è suscettibile, come tale, di conformarlo anche quanto alla durata.

2.— Avendo i suddetti giudizi ad oggetto questioni sostanzialmente analoghe, se ne deve disporre la riunione ai fini della loro trattazione unitaria.

3.— In via preliminare, occorre verificare se ed in quali limiti le questioni di costituzionalità sollevate dai rimettenti siano ammissibili.

Devono, in primo luogo, essere esaminate le ordinanze numeri 97, 107 e 159 del 2006, con le quali i rimettenti hanno riproposto le questioni di legittimità costituzionale delle norme sopra indicate a seguito dell’ordinanza n. 398 del 2005, con cui questa Corte aveva loro restituito gli atti a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14-sexies del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione), inserito dalla legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, il quale ha reintrodotto, per gli incarichi in esame, una durata minima, fissandola in tre anni, e ha portato quella massima da tre a cinque anni. In particolare, con la citata ordinanza questa Corte ha ritenuto che «siffatta sopravvenuta modifica di una delle due norme censurate – pur se i nuovi limiti temporali non si applicano agli incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali resi vacanti prima della scadenza dei contratti dei relativi dirigenti per effetto della impugnata cessazione automatica – comporta comunque un rilevante mutamento del complessivo quadro normativo di riferimento da cui tutti i rimettenti hanno tratto argomentazioni in ordine alla non manifesta infondatezza delle questioni riguardanti l’altra norma impugnata, ossia l’art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002».

Nella riproposizione delle predette questioni i giudici a quibus – dopo avere sottolineato che il citato art. 14-sexies non rileva ai fini della definizione dei rispettivi giudizi – hanno fatto rinvio, espressamente o implicitamente, alle motivazioni contenute nelle precedenti ordinanze di rimessione.

3.1.— Le questioni così prospettate sono inammissibili.

La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, costante nell’affermare che non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalità questioni motivate solo per relationem, dovendo il rimettente rendere esplicite in ciascuna ordinanza le ragioni per le quali ritenga rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata, mediante una motivazione autosufficiente, non sostituibile dal rinvio al contenuto di altre ordinanze, anche se emanate dallo stesso giudice nel medesimo giudizio (vedi, tra le altre, ordinanze n. 33 del 2006 e nn. 364 e 141 del 2005).

3.2.— Devono essere, in secondo luogo, dichiarate inammissibili le questioni sollevate dai rimettenti, con le ordinanze numeri 38, 158 e 547 del 2006, in relazione all’art. 3, comma 1, lettera b), in quanto esse non contengono alcuna motivazione sulla non manifesta infondatezza delle stesse. Dalla lettura delle predette ordinanze emerge, infatti, che i giudici a quibus argomentano soltanto il contrasto dell’art. 3, comma 7, con gli evocati parametri costituzionali, omettendo di esplicitare i motivi che dovrebbero giustificare anche la caducazione delle disposizioni contenute nel comma 1, lettera b), del medesimo articolo.

3.3.— Resta da stabilire, infine, se possa considerarsi ammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 3, comma 1, lettera b), sollevata con l’ordinanza n. 157 del 2006.

L’esame della disposizione censurata deve essere condotto, partitamente, sia con riferimento alla mancata fissazione di un termine minimo di durata degli incarichi dirigenziali, sia in relazione alla riduzione del termine massimo da sette a tre anni.

Sotto entrambi i profili la questione è inammissibile.

Quanto al primo aspetto, va considerato che il rimettente non è chiamato a fare applicazione nel giudizio a quo della disposizione nella parte in cui essa non prevede un termine minimo di durata dell’incarico dirigenziale, a suo tempo conferito al ricorrente. Né a giustificare il rinvio a questa Corte rileva il fatto che il giudice a quo ritenga di ricavare argomenti dalla norma stessa al fine di motivare la non manifesta infondatezza della questione relativa al comma 7 del medesimo art. 3, di cui il rimettente è chiamato, invece, a fare applicazione e che è, dunque, certamente rilevante nel giudizio medesimo.

Anche sotto il secondo aspetto, non può ritenersi ammissibile la questione di costituzionalità sollevata con riferimento alla previsione, contenuta nella suindicata lettera b) del comma 1 dell’art. 3, nella parte in cui riduce da sette a tre anni il termine massimo di durata dell’incarico per i dirigenti generali. Ciò per due concomitanti ragioni: in primo luogo, perché il rimettente non ha adeguatamente motivato in ordine alla non manifesta infondatezza della questione stessa, con specifica indicazione delle ragioni per cui dovrebbe ritenersi incostituzionale la riduzione a soli tre anni della suddetta durata dell’incarico; in secondo luogo, perché ha omesso di indagare in ordine ad una possibile opzione interpretativa che consenta di attribuire alla norma in esame, introdotta dalla legge n. 145 del 2002, soltanto efficacia ultrattiva, con decorrenza, cioè, dalla data di entrata in vigore della legge citata e con conseguente applicazione della durata originaria ai contratti precedentemente stipulati. In definitiva, sulla base di tale possibile interpretazione adeguatrice, il nuovo termine massimo di durata potrebbe valere soltanto per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della stessa legge n. 145 del 2002.

4.— Alla luce delle considerazioni che precedono deve, pertanto, ritenersi che l’esame di merito delle censure formulate sia limitato alla sola questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della predetta legge, sollevata dal Tribunale di Roma con le ordinanze numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006.

5.— La questione è fondata.

Allo scopo di inquadrare la problematica sollevata dai rimettenti nell’ambito della nuova disciplina della dirigenza statale, è necessario soffermarsi sugli aspetti rilevanti della complessa evoluzione legislativa che ha investito il settore in esame e, in particolare, sul rapporto tra politica e amministrazione.

Occorre, al riguardo, partire dalla cosiddetta “prima privatizzazione” della dirigenza, allo scopo di verificare in quale modo si siano atteggiati, nel tempo, gli aspetti relativi alla distinzione funzionale delle competenze tra livello politico e livello burocratico e i profili strutturali connessi alla fonte di regolazione del rapporto di lavoro dei dirigenti, nonché alle modalità di disciplina degli incarichi dirigenziali. In altri termini, occorre esaminare come sia stata in concreto regolamentata la relazione tra vertice politico e dirigenti sul piano delle rispettive funzioni e come su di essa abbiano eventualmente inciso la contrattualizzazione del rapporto di servizio, l’introduzione del principio di temporaneità degli incarichi, nonché, infine, la previsione, che rileva in questa sede, della cessazione automatica ex lege degli incarichi stessi.

6.— Come è noto, la legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), a suo tempo ha autorizzato l’Esecutivo a stabilire «con uno o più decreti, salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, primo comma, e 26, primo comma, della legge 29 marzo 1983, n. 93, siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti individuali e collettivi» (art. 2, comma 1, lettera a).

In attuazione della delega è stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che, in relazione al profilo strutturale di disciplina del rapporto, ha provveduto alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, superando, ad eccezione di taluni settori, il tradizionale regime pubblicistico e stabilendo l’applicazione della disciplina giuslavoristica di diritto privato (art. 2, comma 2), «ritenuta più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale sottese alla riforma» (sentenza n. 313 del 1996).

Questo processo ha investito anche il settore della dirigenza: l’art. 2, comma 4, del citato d.lgs. n. 29 del 1993, nella sua versione originaria, escludeva, però, espressamente dalla contrattualizzazione del rapporto di impiego i «dirigenti generali».

La riforma del 1993 ha, infatti, dettato una disciplina differenziata della dirigenza che ha preso le mosse proprio dalla diversità delle fonti di regolazione del rapporto.

In particolare, l’art. 21 del citato d.lgs. ha stabilito che i dirigenti generali dovessero essere nominati «con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente» e che l’incarico fosse conferito a soggetti in possesso dei requisiti prescritti dal medesimo art. 21.

L’«accesso alla qualifica» doveva avvenire «per concorso per esami» indetto dalle singole amministrazioni, ovvero per corso-concorso selettivo di formazione presso la Scuola superiore della pubblica amministrazione (art. 28).

Dopo l’acquisizione della «qualifica», ai dirigenti generali in servizio presso l’amministrazione interessata sarebbero stati conferiti – con decreto del Ministro competente, sentito il Presidente del Consiglio dei ministri – «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2). Con la medesima procedura sarebbero stati attribuiti «gli incarichi di funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca di livello dirigenziale generale» (art. 19, comma 2).

Ai dirigenti non generali, invece, la legge in esame ha autorizzato il conferimento – con decreto del Ministro, su proposta del dirigente generale competente – di «incarichi di direzione degli uffici di ciascuna amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, di livello dirigenziale», con la possibilità dell’attribuzione di incarichi per l’esercizio della funzione ispettiva e di consulenza, studio e ricerca «di livello dirigenziale» (art. 19, comma 3).

Per quanto attiene alla scelta dei dirigenti, lo stesso art. 19, al comma 1, ha previsto che si dovesse tenere conto «della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente, anche in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, applicando di norma il criterio della rotazione degli incarichi».

6.1.— Con riferimento al profilo relativo al rapporto tra politica e amministrazione, la legge n. 421 del 1992, come è noto, ha autorizzato il Governo a prevedere: «la separazione tra i compiti di direzione politica e quelli di direzione amministrativa; l’affidamento ai dirigenti – nell’ambito delle scelte di programma degli obiettivi e delle direttive fissate dal titolare dell’organo – di autonomi poteri di direzione, di vigilanza e di controllo, in particolare la gestione di risorse finanziarie attraverso l’adozione di idonee tecniche di bilancio, la gestione delle risorse umane e la gestione di risorse strumentali; ciò al fine di assicurare economicità, speditezza e rispondenza al pubblico interesse dell’attività degli uffici dipendenti» (art. 2, comma 1, lettera g, numero 1).

In attuazione di tale delega, l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 29 del 1993 ha previsto che ai dirigenti spettasse «la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo», con la precisazione della loro responsabilità per la gestione e per i relativi risultati.

L’art. 14, comma 1, del medesimo d.lgs. ha, poi, stabilito che spetti al Ministro, anche sulla base delle proposte dei dirigenti generali, periodicamente, e comunque ogni anno, entro sessanta giorni dall’approvazione del bilancio: a) definire gli obiettivi ed i programmi da attuare, indicare le priorità ed emanare le conseguenti direttive generali per l’azione amministrativa e per la gestione; b) assegnare, a ciascun ufficio di livello dirigenziale generale, una quota-parte del bilancio dell’amministrazione, commisurata alle risorse finanziarie, riferibili ai procedimenti o subprocedimenti attribuiti alla responsabilità dell’ufficio, e agli oneri per il personale e per le risorse strumentali allo stesso assegnati.

Il comma 3 del medesimo art. 14 ha previsto, inoltre, che «gli atti di competenza dirigenziale non sono soggetti ad avocazione da parte del Ministro, se non per particolari motivi di necessità ed urgenza, specificamente indicati nel provvedimento di avocazione».

7.— Le innovazioni legislative introdotte negli anni 1997–1998 hanno, da un lato, completato, sul piano strutturale, il processo di contrattualizzazione del rapporto di impiego dei dirigenti, modificando rilevanti aspetti della previgente disciplina, in relazione anche alle modalità di svolgimento degli incarichi dirigenziali; dall’altro, hanno accentuato, sul piano funzionale, la distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori.

In particolare, l’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha previsto che si dovesse «estendere il regime di diritto privato del rapporto di lavoro anche ai dirigenti generali ed equiparati delle amministrazioni pubbliche» (lettera a) e che il Governo dovesse attenersi «ai principi contenuti negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ai criteri direttivi di cui all’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, a partire dal principio della separazione tra compiti e responsabilità di direzione politica e compiti e responsabilità di direzione delle amministrazioni».

In attuazione della predetta legge delega sono stati emanati i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), che hanno modificato, in più parti, il d.lgs. n. 29 del 1993.

7.1.— Con i citati decreti delegati è stato esteso il regime della contrattualizzazione ai dirigenti generali, i quali, pertanto, non sono più inclusi nell’ambito del personale che è, invece, rimasto disciplinato, in deroga alla regola della privatizzazione, secondo il previgente regime di diritto pubblico (vedi il nuovo art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 29 del 1993).

La riforma del 1998 ha, inoltre, previsto «l’accesso alla qualifica di dirigente» esclusivamente a seguito di «concorso per esami» seguito dalla stipulazione del contratto di lavoro (art. 28), nonché l’iscrizione dei soggetti, in tal modo selezionati, nel «ruolo unico dei dirigenti» istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri ed articolato in due fasce (art. 23); ed è al predetto ruolo unico che ciascuna amministrazione statale avrebbe dovuto rivolgersi per il conferimento dei relativi incarichi, determinando così la costituzione del rapporto di ufficio.

In particolare, l’art. 19 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo modificato dai citati decreti, ha previsto tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l’organo politico.

Innanzitutto, sono stati previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta degli incarichi dirigenziali “apicali”, conferiti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della prima fascia del ruolo unico (art. 19, comma 3).

Sono stati poi contemplati «gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, ai dirigenti della «prima fascia del ruolo unico o, in misura non superiore ad un terzo, ai dirigenti del medesimo ruolo unico» ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso di specifiche qualità professionali (comma 4). Ed è su tale tipologia di incarichi che vertono le disposizioni censurate in questa sede.

Infine, sono stati previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale, ai dirigenti assegnati al suo ufficio» (comma 5).

Gli stessi criteri di scelta dei soggetti cui conferire gli incarichi sono rimasti sostanzialmente immutati, anche in relazione alla vigenza del criterio della rotazione (art. 19, comma 1), con la puntualizzazione che non trova applicazione l’art. 2103 del codice civile.

Detto ciò, va sottolineato che per tutti i predetti incarichi, per espressa previsione contemplata al comma 2 del novellato art. 19, è stato previsto il conferimento «a tempo determinato», in tal modo introducendosi, a livello legislativo, il principio di temporaneità degli incarichi, aventi «durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni con facoltà di rinnovo». La stessa disposizione ha puntualizzato che tale durata dovesse essere definita contrattualmente unitamente all’oggetto e agli obiettivi da conseguire.

Quanto, poi, alla scadenza dell’incarico, si è stabilito, in mancanza di riconferma, il “collocamento in disponibilità” dell’interessato presso il ruolo unico. In particolare, secondo il comma 10 dello stesso art. 19, «i dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento».

È stata anche sancita la cessazione dell’incarico come misura conseguente all’accertamento di una responsabilità dirigenziale. Il successivo art. 21, prima delle modifiche apportate dalla legge n. 145 del 2002, ha, infatti, stabilito che «i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o il mancato raggiungimento degli obiettivi» avrebbero potuto comportare «la revoca dell’incarico (…) e la destinazione ad altro incarico». Il comma 2 dello stesso art. 21 ha, altresì, previsto che «nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente o di ripetuta valutazione negativa (…), il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi, di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni». Infine, quale terza tipologia di misura, si è disposto che «nei casi di maggiore gravità», riferiti alle fattispecie da ultimo menzionate, l’amministrazione avrebbe potuto recedere dallo stesso rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.

7.2.— Quanto al momento funzionale relativo alle competenze gestionali dei dirigenti ed al rapporto di essi con gli organi politici, deve sottolinearsi come i citati d.lgs. nn. 80 e 387 del 1998, modificando, in parte, anche gli artt. 3 e 14 del d.lgs. n. 29 del 1993, abbiano «accentuato il principio della distinzione tra funzione di indirizzo politico-amministrativo degli organi di Governo e funzione di gestione e attuazione amministrativa dei dirigenti» (ordinanza n. 11 del 2002).

In particolare, l’art. 3, a differenza della previgente formulazione, contiene una elencazione puntuale degli atti di competenza degli organi di Governo, con attribuzione ai dirigenti di una competenza generale e residuale.

Il citato art. 14 ha, poi, chiaramente escluso che il Ministro possa «revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti», riconoscendo così esplicitamente che il rapporto tra politica e amministrazione non è più ricostruibile pienamente in termini di gerarchia, bensì di coordinamento funzionale e di collaborazione tra i due livelli.

8.— Il quadro normativo sin qui descritto – confluito, poi, nel d.lgs. n. 165 del 2001 – ha, in sostanza, delineato un modello articolato di regolamentazione della dirigenza.

In sintesi, può dirsi che, con la suddetta riforma del 1997-1998, sul piano strutturale, è stata completata l’attuazione del processo di contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti ed è stato definitivamente introdotto il principio della temporaneità degli incarichi connessi al rapporto di ufficio.

La disciplina legislativa, qui presa in esame, del lavoro dirigenziale – basato sul contratto di servizio su cui si innesta il predetto rapporto – ha, pertanto, determinato il definitivo passaggio da una concezione della dirigenza intesa come status, quale momento di sviluppo della carriera dei funzionari pubblici, ad una concezione della stessa dirigenza di tipo funzionale.

Sul piano delle competenze, il legislatore – abbandonando il modello incentrato esclusivamente sul principio della responsabilità ministeriale, che negava, di regola, attribuzioni autonome ed esterne agli organi burocratici – ha fatto perno sulla distinzione tra il potere di indirizzo politico-amministrativo e l’attività gestionale svolta dai dirigenti. Tale netta distinzione ha, da un lato, ampliato le competenze dirigenziali, l’esercizio delle quali deve essere valutato tenendo conto, in particolare, dei risultati «dell’attività amministrativa e della gestione» (art. 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, recante «Riordino e potenziamento dei meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59»); dall’altro lato e conseguentemente, ha comportato un maggiore rigore nell’accertamento della responsabilità dei dirigenti stessi (sentenza n. 193 del 2002), che presuppone un efficace sistema valutativo in relazione agli obiettivi programmati.

Analizzando i profili di possibile interferenza tra l’aspetto della distinzione funzionale dei compiti e quello strutturale relativo alla disciplina del rapporto, questa Corte ha già avuto modo di affermare – sia pure con riferimento ai dirigenti non generali, ma con enunciazioni estensibili anche a quelli di livello immediatamente superiore – che la prevista contrattualizzazione della dirigenza non implica che la pubblica amministrazione abbia la possibilità di recedere liberamente dal rapporto stesso (sentenza n. 313 del 1996). Se così fosse, è evidente, infatti, che si verrebbe ad instaurare uno stretto legame fiduciario tra le parti, che non consentirebbe ai dirigenti generali di svolgere in modo autonomo e imparziale la propria attività gestoria.

Di qui la logica conseguenza per la quale anche il rapporto di ufficio, sempre sul piano strutturale, pur se caratterizzato dalla temporaneità dell’incarico, debba essere connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongano che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione. Ciò al fine di consentire che il dirigente generale possa espletare la propria attività – nel corso e nei limiti della durata predeterminata dell’incarico – in conformità ai principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). In tale prospettiva, è, dunque, indispensabile, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (sentenza n. 193 del 2002 e ordinanza n. 11 del 2002), che siano previste adeguate garanzie procedimentali nella valutazione dei risultati e dell’osservanza delle direttive ministeriali finalizzate alla adozione di un eventuale provvedimento di revoca dell’incarico per accertata responsabilità dirigenziale.

9.— In questo contesto si colloca la legge n. 145 del 2002, contenente le disposizioni impugnate.

Tale legge, per quanto attiene al rapporto di servizio, ha ripristinato l’accesso alla qualifica mediante concorso per esame e corso-concorso selettivo di formazione ed ha abolito il ruolo unico, prevedendo il ruolo dei dirigenti per ciascuna amministrazione statale.

Con riferimento al rapporto di ufficio, l’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, come innovato dalla citata legge n. 145 del 2002, ha disposto, per i profili relativi ai criteri di conferimento dell’incarico, che si debba tenere conto, «in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del Ministro» (comma 1); è stato, inoltre, eliminato il riferimento, contenuto nella precedente formulazione della stessa disposizione, all’applicazione «di norma» del «criterio della rotazione degli incarichi».

Inoltre, lo stesso art. 19, al comma 2, prevede che il «provvedimento di conferimento dell’incarico», e non il relativo contratto, individui «l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può eccedere», per gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale, che sono quelli che rilevano in questa sede, «il termine di tre anni»; alla fase di definizione consensuale rimane affidata unicamente la determinazione del corrispondente trattamento economico.

Per quanto attiene ai criteri di accertamento della responsabilità dirigenziale e alle consequenziali misure adottabili, la nuova versione dell’art. 21 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce che «il mancato raggiungimento degli obiettivi ovvero l’inosservanza delle direttive» – valutati con i sistemi e le garanzie di cui al citato art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1999 – comportano «l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale». La medesima disposizione prevede che «in relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può, inoltre, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’art. 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo».

9.1.— È, dunque, sulla base delle esposte considerazioni che emerge la fondatezza della censura con la quale i rimettenti hanno dedotto l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002, nella parte in cui si prevede che gli incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale «cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore» della legge stessa.

Al riguardo va, innanzitutto, precisato che il citato comma 7 prevede due diversi meccanismi transitori di incidenza sul rapporto di ufficio, in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa, a seconda che vengano in rilievo incarichi di funzioni dirigenziali di livello generale o non generale.

In relazione a questi ultimi, non oggetto di contestazione, la norma prescrive che gli stessi possono essere sottoposti, entro novanta giorni dall’entrata in vigore della predetta legge, ad un giudizio di revisione e ridistribuzione «secondo il criterio della rotazione», con la specificazione che «decorso tale termine, gli incarichi si intendono confermati, ove nessun provvedimento sia stato adottato».

Le censure dei giudici rimettenti si incentrano, come si è precisato, esclusivamente sull’altra parte del medesimo comma 7, il quale, in relazione agli «incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», stabilisce che gli stessi cessano automaticamente il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge.

Deve, dunque, essere ribadito, ai fini della delimitazione dell’ambito applicativo della normativa impugnata, che la questione proposta non riguarda la posizione dei dirigenti ai quali siano stati conferiti incarichi “apicali”, vale a dire quelli di maggiore coesione con gli organi politici (segretario generale, capo dipartimento e altri equivalenti).

Le modalità di cessazione di quest’ultimi incarichi sono, infatti, contenute nel comma 8 dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, che è stato anch’esso oggetto di modifiche da parte della predetta legge n. 145 del 2002. La nuova disposizione, con previsione a regime, stabilisce che, tra l’altro, i suddetti incarichi «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo».

9.2.— Orbene, la norma impugnata – prevedendo un meccanismo (cosiddetto spoils system una tantum) di cessazione automatica, ex lege e generalizzata degli incarichi dirigenziali di livello generale al momento dello spirare del termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge in esame – si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione.

La suddetta disposizione, così formulata, infatti – determinando una interruzione, appunto, automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito – viola, in carenza di garanzie procedimentali, gli indicati principi costituzionali e, in particolare, il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa. Le recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, in precedenza illustrate, hanno, infatti, disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone dell’efficacia e dell’efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita. È evidente, dunque, che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità al modello di azione sopra indicato.

A regime, per i motivi sin qui esposti, la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti, in questa sede presi in considerazione, può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all’esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato (sentenza n. 193 del 2002).

Deve, pertanto, ritenersi necessario che – alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale prima richiamata – sia comunque garantita la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato.

L’esistenza di una preventiva fase valutativa si presenta essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), come modificata dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, il rispetto dei principi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativa. Precetto, questo, che è alla base della stessa distinzione funzionale dei compiti tra organi politici e burocratici e cioè tra l’azione di governo – che è normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, la quale, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata, invece, ad agire senza distinzioni di parti politiche e dunque al «servizio esclusivo della Nazione» (art. 98 Cost.), al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento (in questo senso, sia pure con riferimento ad un ambito di disciplina diverso da quello in esame, vedi sentenza n. 453 del 1990, nonché sentenza n. 333 del 1993).

Né può ritenersi, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che la norma in esame, data la sua natura transitoria, rinvenga la propria giustificazione nell’esigenza di consentire l’attuazione della riforma recata dalla legge n. 145 del 2002 per il tramite di un equilibrato passaggio da un sistema all’altro.

Tale legge, come è emerso dall’analisi in precedenza svolta, pur apportando modifiche alla previgente disciplina, ne ha mantenuto sostanzialmente fermo l’impianto complessivo che si regge, nei suoi aspetti qualificanti, sulla scelta dei dirigenti guidata da criteri oggettivi, sulla temporaneità dell’incarico conferito, nonché su meccanismi di revoca dell’incarico stesso in presenza di peculiari profili di responsabilità dirigenziali. Ciò rende evidente come la disposizione censurata – a differenza di quanto affermato da questa Corte, in una diversa fattispecie, con la sentenza n. 233 del 2006, in relazione ad una norma concernente la dirigenza regionale (art. 2, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 12 agosto 2005, n. 27) dettata per «rendere immediatamente operativa la nuova disciplina» – non assolva ad alcuna funzione di disciplina transitoria volta a consentire l’attuazione di un innovativo sistema della dirigenza statale e dei rapporti di questa con gli organi politici e, dunque, ad agevolare un graduale ed armonico passaggio da uno ad altro ordinamento delle funzioni della dirigenza medesima.

La scelta del legislatore, pertanto, all’esito di un giudizio complessivo di bilanciamento dei valori, non può essere giustificata dalla esigenza di permettere l’applicazione immediata delle norme sulla dirigenza nelle parti modificate dalla legge n. 145 del 2002, tanto più tenendo conto che la natura provvedimentale dell’atto legislativo impone, sotto il profilo della non arbitrarietà e della ragionevolezza delle scelte, un sindacato ancora più rigoroso (vedi, tra le altre, sentenza n. 153 del 1997). Del resto, se il fine perseguito fosse stato effettivamente quello di consentire l’avvio della riforma attuata dalla predetta legge, da un lato, non si spiegherebbe perché il legislatore abbia imposto la cessazione automatica ex lege ed una tantum dei soli incarichi dirigenziali di livello generale e non anche degli altri incarichi per i quali è previsto, come si è precisato, un diverso meccanismo di valutazione di quelli in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima; dall’altro, non troverebbe, allo stesso modo, una sua giustificazione l’adozione di una misura revocatoria ex lege non proporzionata all’obiettivo che si intendeva perseguire.

La stessa inesistenza di un termine minimo di durata dell’incarico dirigenziale, ancorché la relativa disposizione – sotto questo aspetto – non formi oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità per le ragioni precedentemente esposte, è indice di una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale, che si presenta (quando il termine sia eccessivamente breve) difficilmente compatibile con un adeguato sistema di garanzie per il dirigente che sia idoneo ad assicurare un imparziale, efficiente ed efficace svolgimento dell’azione amministrativa.

E non è senza significato, che, successivamente, con l’art. 14-sexies del decreto-legge n. 115 del 2005, il termine minimo di durata dell’incarico sia stato reintrodotto.

9.3.— Deve, pertanto, essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge n. 145 del 2002 per contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione».

Restano assorbite le altre censure prospettate dai rimettenti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui dispone che «i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione»;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, lettera b), e 7 della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze r.o. numeri 97, 107 e 159 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 33, 35, 36, 41, 70, 97, 98 e 113 della Costituzione;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, lettera b), della predetta legge n. 145 del 2002, sollevate dal Tribunale di Roma con le ordinanze r.o. numeri 38, 157, 158 e 547 del 2006, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 70, 97, 98 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2007. Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2007.

Redazione

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