Il testo del Saluto del Presidente del Consiglio di Stato Mario Egidio Schinaia

Riportiamo di seguito il testo integrale del Saluto del Presidente uscente del Consiglio di Stato, Mario Egidio Schinaia, tenuto a Palazzo Spada, il 22 scorso:

“Signor Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, illustrissimo Signor Presidente della Corte dei Conti, Signor Presidente emerito della Corte Costituzionale e caro ex collega Chieppa, Signor giudice costituzionale Napolitano, Signor Segretario Generale del Presidente del Consiglio dei Ministri, carissimi Avvocati dell’Avvocatura dello Stato e del libero foro, Signori componenti del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, Autorità, Signore e Signori, carissimi amici tutti, Vi ringrazio, molto commosso, per la Vostra partecipazione a questo incontro per il mio saluto di commiato quale Presidente del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa e del Consiglio di Stato che sta per andare in pensione per limiti di età.

Mi sia consentito di ringraziare in particolare tutti coloro che, a diverso titolo, mi hanno rivolto parole di apprezzamento, facendo anche riferimento specifico alla mia persona, che molto mi hanno lusingato per quello che ho fatto, elogio che, comunque, va oltre i miei meriti. Questi saluti ed apprezzamenti, che so sentiti, costituiranno la parte più bella dei miei ricordi di pensionato. In particolare ringrazio il mio illustre successore Presidente Paolo Salvatore che qui, nella sua qualità di Presidente di Sezione decano del Consiglio di Stato, secondo il nostro rito, ha voluto tratteggiare la mia presidenza, la mia persona, rappresentando di me un quadro “virtuoso”, che devo alla Sua benevolenza, piuttosto che ai miei modesti meriti.

Colgo l’occasione per formulargli i migliori auguri per la sua imminente assunzione della carica di Presidente del Consiglio di Stato: sarà un ottimo presidente, sicuramente migliore di chi lo ha preceduto immediatamente. Ed oggi, al vostro cospetto, iniziano le consegne.

1) E’ consuetudine, che intendo pienamente rispettare, vincendo il senso di una mia certa ritrosia, fare un consuntivo della mia vita di magistrato amministrativo, che ho svolto per lunghissimi anni e precisamente 42 come Consigliere di Stato, avendo peraltro indossato per la prima volta la toga del giudice cinquant’anni fa.

Mi sono laureato nell’Università di Bari con il massimo dei voti e nel minor tempo possibile con una tesi tra il diritto penale e la filosofia del diritto, svolta con molta presunzione, che aveva come scusante, verosimilmente, il mio essere “homo novus” nel campo del diritto.

Non rientrava allora neppure nei miei sogni l’idea di diventare Consigliere di Stato, che per me rappresentava per altro un mito confuso, solo per sentito dire. Avevo avuto prima una breve esperienza di studente-lavoratore (che per la verità mi lasciava tutto il tempo per studiare e, magari, per tentare nelle more qualche concorso di gruppo B). Ne feci uno solo presso l’INPS, che mi consentì, per effetto della graduatoria, di restare nella città in cui vivevo, Taranto. Fu una esperienza formidabile: conobbi cos’era l’amministrazione ed a quali esigenze essa rispondesse. Però, questo si che rientrava nei miei sogni, desideravo ardentemente di diventare giudice, desiderio acuito dal periodo storico che ci era dato di vivere, reso esaltante col viatico di una fresca Costituzione, con l’aggiunta, allora, del rispetto del ruolo del giudice nel mio profondo sud.

Vinsi in prima battuta quel difficile concorso. Nel privato ebbi come premio, che poi si sarebbe ripetuto in ogni occasione della mia carriera, la callosa, vigorosa, stretta di mano di mio padre, che però girò la testa dall’altra parte per celare la sua commozione.

Diventai giudice ed assunsi le mie funzioni di Pretore, per mia scelta, in una delle più difficili preture di Puglia, che a torto – come sperimentai personalmente – tale veniva ritenuta dei miei predecessori. Lavorai moltissimo, con energia e gioia gratificante per quello che facevo. Azzerai il ruolo civile, ma soprattutto mi occupai di penale, passando in rassegna i vari articoli del codice penale, sino ad istruire per delega del Procuratore della Repubblica due omicidi volontari. Molto mi interessai dei minori come giudice tutelare. Lo studio teorico – ma non quello pratico dei rami bassi che toccavano il Pretore – era un di là da venire, mi interessava solo lavorare, insomma studiavo molto per fini concreti.

In un momento di scoramento nell’esercizio delle funzioni penali, per via delle frequentissime amnistie, cui man mano si andava aggiungendo (per effetto della mia esperienza sul carcere mandamentale di cui ero direttore in quanto pretore periferico) una profonda sfiducia sugli effetti delle sanzioni penali. Insomma, all’esaltazione iniziale stava sostituendosi, pericolosamente, un senso di inutilità per quello che facevo.

In breve, per reazione, avendone avuto occasionalmente notizia, partecipai ad un concorso come sostituto avvocato nello Stato, che parimenti vinsi in prima battuta e, a mia richiesta, fui assegnato all’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bari.

Fu questa l’occasione per farmi conoscere nella varietà delle attribuzioni di quella Avvocatura distrettuale, le altre facce dello Stato dall’interno e, in primo luogo, quella dell’amministrazione. Conobbi colleghi valorosi, intessendo con loro rapporti di amicizia e di signorile cordialità. Apprezzai il diritto processuale nei suoi vari rami, ma soprattutto, ancorchè in una posizione più comoda dell’avvocato del libero foro, capii davvero cosa significava essere avvocato e trovarsi di fronte al giudice. Questa esperienza è stata per me fondamentale, mi fece capire che dote del buon magistrato doveva essere quella del sapere ascoltare le ragioni delle parti, reprimendo decisamente il delirio di onnipotenza, che spesso può colpire il giudice, alle prime armi, quale io ero.

Nondimeno, passata la prima euforia, quasi subdolamente, andavano emergendo vaghi sentimenti di colpa per una missione tradita, insomma quello che forse è simile al rimorso che assale il prete spretato.

In breve, dopo un biennio pieno della mia attività di avvocato, seppi pochi giorni prima, dai miei cari e più anziani colleghi dell’Avvocatura distrettuale, che ormai stavano per scadere i termini di un concorso a Referendario del Consiglio di Stato, sul quale conoscevo solo la novella di Pirandello, ma appresi anche che avrei potuto fare il giudice, in tale veste, ed era ciò che m’interessava, non essendo allora consentito il ritorno in magistratura.

Con grande impudenza superai gli avvertimenti sulle difficoltà che qualche collega veterano di quel concorso mi aveva prospettato, presentai la domanda, superai il concorso, ed entrai nel Consiglio di Stato come referendario il 31 marzo 1965.

Ora – e non avrei mai creduto che accadesse il miracolo di giungere al vertice del Consiglio di Stato – sono il superstite di quel concorso, ancora per pochi giorni in servizio. Mi sia perciò consentito di rivolgere un mesto pensiero alla cara memoria di due colleghi valorosi di quel concorso che ora non sono più: a Danilo Felici e ad Enzo Caianiello, con il quale ben presto iniziammo un sodalizio, che solo la sua dipartita ha sciolto, affrontando con spirito battagliero i problemi che emergevano, tra i quali non va dimenticata la nostra reazione in difesa dell’indipendenza del nostro Istituto, quando il Governo sembrava intenzionato a sommergerci con ben 17 nomine dirette a Consigliere di Stato.

Vedo ora qui presenti due cari ed affettuosi colleghi di quel concorso, che mi onorano con la loro presenza, Sebastiano Scarcella e Giovanni Imperatrice. Li ringrazio e saluto con l’affetto di sempre, aumentato con gli interessi del tempo che passa, così come saluto il collega Lorenzo Cuonzo. La mia permanenza nell’Avvocatura dello Stato era durata circa un biennio, ma fu validissima per la mia formazione professionale e culturale, oltre che per i rapporti di amicizia intessuti con i colleghi. Il vice avvocato generale dello Stato Giancarlo Mandò nell’indirizzo di saluto che mi ha rivolto ha fatto generosamente riferimento alla mia attività di avvocato dello Stato e lo ringrazio, così come lo ringrazio per le sue attestazioni sulla mia attività di giudice amministrativo. Mi sia consentito di salutare, per il suo tramite, tutti i componenti dell’Avvocatura dello Stato, che tanto vicini sono al nostro lavoro.

2) L’ingresso al Consiglio di Stato operò in me una rivoluzione copernicana, era troppo grande la gioia di ritornare a fare il giudice, di scrivere nelle intestazioni delle decisioni di cui ero relatore: “In nome del popolo italiano”.

Insomma, il mio imprinting di giudice aveva avuto il sopravvento, perciò portai dietro la mia toga di pretore in cotone alla quale avevo solo cambiato i cordoni d’argento in cordoni d’oro, propri della divisa di una giurisdizione superiore.

Quella toga per me è stata una sorta di coperta di Linus, della mia buona coscienza, che per lungo tempo mi son portato dietro, ormai ingrigita, sino a quando mia moglie, con alquanta insistenza, mi convinse a cambiarla con una sfolgorante toga di seta che indossai la prima volta a Milano come Presidente del TAR Lombardia. Ma la vecchia toga mia moglie l’ha conservata accuratamente e la ringrazio per la sua sensibilità.

3) Il Consiglio di Stato mi mostrò come la funzione amministrativa fosse fondamentale, se bene svolta, per la vita ordinata dei cittadini e che con la nostra attività di giudici amministrativi, rendendo giustizia piena ai ricorrenti, oltre che a soddisfare i loro legittimi interessi e diritti, contribuivamo a realizzare la buona amministrazione, con l’ausilio del nostro separato svolgimento della funzione consultiva, che serve ad attuarla. L’amministrazione infatti non deve essere considerata inefficiente e perciò ingiusta nella sostanza o peggio partigiana e vessatoria, ma se non amata – quale sarebbe l’ideale – almeno rispettata.

In particolare, ciò che mi colpì, sin dalla prima camera di consiglio della VI sezione, cui immediatamente fui assegnato con parziale applicazione ad una sezione consultiva (allora si parlava di applicazione a scavalco), fu la constatazione di non essere solo e che mi si dava la possibilità di entrare subito nel cuore della giustizia amministrativa con l’ausilio dei colleghi tutti, non solo di quelli provenienti da concorso, ma anche di quelli di nomina diretta, che avevano per noi novellini, presunti mostri di dottrina, molta considerazione.

Ma ciò che più mi colpì, facendo per altro cadere qualsiasi barriera anagrafica, fu l’apporto dei consiglieri anziani di nomina diretta, i quali mi insegnarono, vedendo le carte, a far emergere il fatto, nonostante gli schemi formali ed al di là di forme stantie, talvolta buone per ogni evenienza. E così prendeva corpo l’eccesso di potere, che bisognava scovare e fare emergere. Prendeva inoltre consistenza reale quel misterioso personaggio libresco che era l’interesse legittimo, tanto difficile da spiegare ancora oggi ai non addetti ai lavori.

Il tempo cominciava a passare ed il senso di appartenenza ad una antica e nobile istituzione, che mi aveva fatto l’onore di accogliere, cresceva. Contribuiva anche la bellezza, il fascino di Palazzo Spada? Un po’, forse.

4) Per alcuni anni, per un mio pregiudizio, un po’ manicheo, sulla sacralità del giudice, non cercai alcun incarico estraneo alle mie funzioni di istituto, anzi, ne rifiutai qualcuno. Solo dopo un decennio di esclusivo servizio al Consiglio di Stato (i TAR erano entrati in funzione da poco, ma ancora non avevano inciso sulla giustizia amministrativa, svolta in un unico grado dal Consiglio di Stato) accettai un incarico esterno (restando, però, orgogliosamente in ruolo, nonostante enormi sacrifici per tutelare la mia indipendenza) dietro la spinta di un altro mio amico e collega, Giuseppe Carbone, che poi sarebbe diventato presidente della Corte dei Conti. L’incarico suddetto era quello di Capo dell’ufficio legislativo presso il Ministro per le Regioni Toros, di cui capo di gabinetto era Franco Bassanini. L’accettazione fu determinata dalla considerazione che si trattava di una svolta particolarmente incidente sul diritto amministrativo, consistente nell’attuazione dello Stato Regionale, secondo la legge di delega n. 382 del 1975, quindi non doveva mancare il mio modesto apporto.

Fu un’esperienza di grande spessore, ancorché tormentata a ridosso della prestigiosa commissione di studio che prende il nome del compianto professor Giannini, che io vissi in pieno, specie quando al Ministro Toros subentrò il Ministro Morlino (del quale serbo un ricordo indelebile come probo uomo di Stato), con il quale collaborai con una parte attiva e forse, in qualche momento, determinante per la nascita del DPR n. 616 del 1977, al quale è stata riconosciuto rilievo quasi costituzionale. Ho detto esperienza tormentata e spiego il perché. Da una parte la nostra amministrazione accentrata non voleva cessare di essere tale e dall’altra, sotto alcuni aspetti, la Commissione Giannini voleva attribuire molto alle Regioni, anche a discapito, almeno in prima battuta dei lavori di detta commissione, dei poteri dei Comuni e delle Province.

Mi trovai, quindi, tra Scilla e Cariddi, anche con i miei colleghi che numerosi rappresentavano i ministeri, tra conservatori e regionalisti ad oltranza. Alla fine fu trovato un punto di equilibrio grazie all’opera mia e del collega Giovanni Imperatrice, al quale devo molto per la riuscita dell’impresa del 616, che minacciava di non nascere, e che per tanto tempo, invece, ci ha retto e, nonostante tutto, ancora continua a reggerci.

Con la caduta del Governo rientrai subito al Consiglio di Stato, di cui avevo tanta nostalgia, per poi uscirne, nuovamente chiamato a collaborare come capo di gabinetto dal Ministro delle Finanze Franco Reviglio. Mi trovai così al centro dei problemi emergenti del diritto tributario. Si riteneva allora, e così dovrebbe essere, che il Fisco deve avere un ruolo centrale e che un regime fiscale equo, ma chiaro ed efficiente, sia strumento non solo per procurare le entrate, ma anche per la coesione tra cittadini.

Si fece molto in quel lasso di tempo ed io ne fui pienamente compartecipe, sacrificando anche sacrosanti doveri familiari, ma poi, col successore di Reviglio, cominciò la caduta di credibilità del fisco con l’invenzione del c.d. condono tombale, che ebbe purtroppo fortuna.

La mia permanenza in queste varie attività nella posizione di fuori ruolo complessivamente durò meno di due anni.

Da quel momento ripresi in pieno la mia esclusiva attività di giudice, prestando particolarmente attenzione alla realtà che cambiava ed al volto nuovo che la giustizia amministrativa andava assumendo in seguito all’entrata in funzione dei Tribunali regionali amministrativi, che mi hanno dato nuovo vigore, avendo ormai messo da parte la coperta di Linus.

La mia attività, a partire del 1981 e sino alla fine del 2006, in cui sono stato nominato presidente del Consiglio di Stato, ininterrottamente è stata rivolta all’esercizio della giurisdizione. Ciò mi ha permesso di poter seguire, applicare e favorire all’occorrenza in via evolutiva le nuove regole del processo e dei nuovi istituti giuridici che andavano sorgendo o che venivano modificati, tanto in primo quanto in secondo grado.

Ormai erano un lontano ricordo quelli che ritenevamo essere nel passato orientamenti giurisprudenziali avanzati, quale, ad esempio, la messa a punto nel 1966, in VI Sezione, della giurisprudenza sugli effetti “erga omnes” dell’annullamento di atti regolamentari o generali.

Urgevano ora nuovi avanzamenti verso l’affermazione della piena giurisdizione del giudice amministrativo.

Faccio un solo accenno alla mia attività “a latere”, oltre quella di sporadico insegnamento, di partecipazione a convegni e continua elaborazione di articoli sulle varie questioni emergenti, che mi sono sempre sforzato di seguire in una visione generalista, propria del Consigliere di Stato.

In particolare, sono stato per lunghi anni presidente del Consiglio Superiore delle finanze e mi sono occupato in maniera determinante della elaborazione dello statuto del contribuente; ho coordinato la Commissione di studio che ha elaborato i decreti istitutivi del nuovo contenzioso tributario numeri 545 e 546 del 1991; ho presieduto, sin dalla sua istituzione per la durata consecutiva di sei anni, il Comitato antielusione; sono stato, passando in un campo del tutto estraneo, presidente della Commissione ministeriale per la elaborazione e successiva stipulazione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla Cattolica e, sotto la mia guida, è stato stipulato il maggior numero delle vigenti intese.

Sempre “a latere” della mia attività di giudice amministrativo, sono stato per lunghissimi anni, a partire dal 1979, componente della commissione tributaria centrale, presidente di una sua sezione ed infine presidente della stessa; incarico questo che cesserà contemporaneamente a quello di Presidente del Consiglio di Stato per limiti di età.

Ma veniamo al mio esercizio della giurisdizione amministrativa. Sono stato presidente del Tribunale regionale della Lombardia per oltre un anno a partire dal 1981 e poi presidente del TAR dell’Abruzzo per oltre quattro anni, sino al maggio del 1986.

Da quella data, sino alla primavera del 1991 sono stato il Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione Siciliana.

Memore di ciò rivolgo un saluto particolare al Presidente del Consiglio di Giustizia ed ai suoi componenti, che sono qui cortesemente presenti, consentendomi di riannodare i fili, almeno nel ricordo, di quella bella esperienza.

5) Poi è venuta la presidenza del TAR del Lazio, ed ho ripreso la mia precedente esperienza del primo grado, estesa però, per alcuni importantissimi provvedimenti, che non starò qui ad elencare, all’intero territorio nazionale.

Dire della rilevanza di questo Tribunale nell’ambito della giustizia amministrativa sarebbe un fuor d’opera.

Mi preme qui sottolineare che ho avuto l’onore ed anche il gravoso onere di presiederlo per oltre dieci anni, battendo solo per la durata, la fondamentale presidenza del compianto presidente Osvaldo Tozzi, che è sicuramente uno dei fondatori (se non, nella prassi, addirittura il primo) della giustizia amministrativa di primo grado, la quale ha determinato sicuramente una svolta dell’intero apparato della giustizia amministrativa nel nostro Paese, molto prendendo dal Consiglio di Stato, attraverso l’opera dei suoi magistrati, in primo luogo dal Presidente Tozzi e poi restituendo vitalità all’intero apparato. Di Tozzi fui molto amico in Consiglio di Stato e per breve tempo lo incontrai al TAR del Lazio nella mia prima e breve esperienza presidenziale precedente quella lombarda. Mi sia consentito, quindi, di rinnovare in questa sede il suo ricordo.

Per me la guida del TAR del Lazio ha costituito, sia per la durata che per la qualità dell’attività, l’impegno più rilevante della mia lunga carriera.

Nel decennio 1991-2001 mi sono trovato al centro della giustizia amministrativa che cambiava, crescendo di rilievo nel Paese. Di ciò, ritengo di avere avuto piena e responsabile consapevolezza. Infatti è proprio agli inizi degli anni 90 che nascono le autorità amministrative indipendenti che tanta parte hanno nell’attività economica del nostro Paese, ed è proprio in quel torno di tempo che, in un continuo crescendo, aumentavano le competenze del TAR del Lazio estese all’intero territorio nazionale, forse eccessivamente, come da taluno è stato rilevato in questi ultimi tempi.

Per quanto mi concerne ritenni di affrontare in prima persona il contenzioso più scottante. Credo – e mi sia perdonata la presunzione – di avere svolto il mio ruolo nella piena consapevolezza della sua delicatezza, ma senza cedimenti e senza trionfalistiche esternazioni. Mi riferisco, ad esempio, al delicato contenzioso concernente il rapporto d’impiego dei giudici tutti, senza distinzione di diversi ordinamenti; ovvero alla difficile partenza delle autorità amministrative indipendenti ed in particolare al decollo dell’autorità per la tutela della concorrenza e del mercato, reso possibile dall’impegno del TAR del Lazio (per la verità subito assecondato dal Consiglio di Stato), che doveva adattare i suoi consueti schemi processuali alla realtà nuova per noi giudici amministrativi, in quanto ci trovavamo ad operare su un crinale tra giudizio di legittimità e giudizio di merito nel campo dell’economia.

E’ proprio in questi anni che nasce per il giudice amministrativo la problematica relativa alla c.d. discrezionalità tecnica ed alla sua verificabilità in sede giurisdizionale, ben distinguendo, peraltro, questo tipo anomalo di discrezionalità, per lungo tempo nella sostanza quasi assimilato alla discrezionalità pura o amministrativa propriamente detta, che è invece territorio esclusivo dell’Amministrazione, che perciò non deve essere invaso dal giudice amministrativo.

Non starò a fare la storia della evoluzione del diritto amministrativo e del passaggio progressivo dal giudizio sull’atto, al giudizio sul rapporto, prima timidamente e poi più risolutamente, con la conclamata piena verificabilità dei fatti oggetto del provvedimento impugnato, così superando la barriera della ricostruzione indiscutibile dei fatti rappresentata dall’Amministrazione.

Il che non ha significato però, sia chiaro, sacrificare l’interesse pubblico che le amministrazioni debbano perseguire: tutt’altro.

Infatti con il giudizio sul rapporto non può essere disconosciuta “la natura principalmente impugnatoria dell’azione dinanzi al giudice amministrativo, cui spetta di tutelare non solo l’interesse privato ma di considerare e valutare anche gli interessi collettivi che con esso si confrontano e, non solo di annullare, bensì di confermare l’azione amministrativa affinché si realizzi un soddisfacente e legittimo equilibrio tra gli uni e gli altri interessi”, così come è stato affermato dalla decisione dell’Adunanza Plenaria n. 12 del 22 ottobre 2007 pubblicata qualche ora fa. Il che, tra l’altro, si riflette e spiega i diversi caratteri del giudizio amministrativo rispetto a quello civile.

6) Mi sia consentito – come è già emerso da qualche accenno – di incrociare le tappe della mia lunga carriera di giudice amministrativo con i mutamenti, talvolta tumultuosi, che si sono succeduti e che ancora premono per un cambiamento richiesto dalla società civile, con conseguente riflesso sulla giustizia amministrativa. Nell’autunno del 2001 sono rientrato al Consiglio di Stato, facendomi destinare alla mia cara VI Sezione, divenuta sempre più prestigiosa sotto la presidenza dei miei due immediati predecessori Presidenti Laschena e de Roberto non solo, ma anche per il valore dei magistrati addetti, alcuni molto giovani, che la componevano. E’ doveroso in questa sede ringraziare quei colleghi che con me hanno collaborato per la loro dedizione ed i loro contributi preziosi, che ho saputo accogliere e, forse, anche sollecitare. Così come il mio ringraziamento va ai presidenti che con me hanno collaborato nella guida della VI Sezione: il collega Ruoppolo, che poi mi è succeduto nella sua titolarità alla fine dello scorso anno 2006, quando sono stato nominato Presidente del Consiglio di Stato, il collega Giovannini ed il collega Varrone.

Era accaduto che da poco tempo era entrata in vigore, semplifico nella citazione delle norme, la legge n. 205 del 2000, che attribuiva al giudice amministrativo la competenza a decidere anche sul risarcimento del danno derivante dalla violazione di interessi legittimi, come risposta dell’ordinamento legislativo, resa indispensabile a seguito della nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999, nonché salvo quale lieve variante meramente lessicale, il risarcimento del danno ingiusto richiesto nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, oltre che per equivalente, e gli altri diritti consequenziali.

Non starò qui a fare la storia della svolta che ha avuto la giurisdizione amministrativa per effetto della legge n. 205 e delle correlate norme sul processo amministrativo contenute nella stessa legge, cui hanno fatto seguito le nuove regole dell’azione amministrativa con le leggi n.15 e n.80 del 2005.

Questa storia, infatti, è stata vissuta sin dall’inizio e narrata dai due miei immediati predecessori nella carica attuale: il Presidente Laschena ed il Presidente de Roberto nell’occasione simile a questa di oggi in cui ho l’onore di parlare. Non starò quindi a ripetere ciò che da loro è stato detto con maggiore autorevolezza della mia, essendomi immesso nel solco da essi tracciato, non per comodo continuismo, ma per sviluppare con coerenza ciò che si era fatto.

Ringrazio di cuore anche per essere intervenuto a questa cerimonia, molto onorandomi, il Presidente de Roberto, con il rammarico di non vedere qui presente il Presidente Laschena impedito da ragioni sopravvenute, così come ringrazio per la loro affettuosa presenza i Presidenti emeriti Pescatore e Crisci. La serie dei Presidenti emeriti dopo il Presidente Crisci è stata interrotta da due illustri Presidenti che ci hanno lasciato prematuramente, il Presidente Quartulli ed il Presidente Anelli, il quale sin dal mio ingresso in VI Sezione mi fu di guida insieme all’amico de Roberto e con il quale mi sono ininterrottamente consultato. Vada agli scomparsi il mio mesto ricordo. Però non posso non ricordare, memore del loro insegnamento, i Presidenti Uccellatore e Barra Caracciolo.

Grazie all’opera dei vari Presidenti che mi hanno preceduto alla guida di questo antico ma vitale organo ed ai colleghi tutti che con essi collaborarono, l’albero della giustizia amministrativa è cresciuto su un solido tronco che continua a produrre nuovi rami vigorosi.

Il Presidente Laschena nel saluto di commiato del giugno 2001 disse: “che quel che oggi conta è che il giudice amministrativo è il giudice della pubblica amministrazione al servizio del cittadino”.

Ebbene, a distanza di questi ultimi sei difficili anni, quella riforma epocale che Egli auspicava in tal senso si va effettivamente realizzando. Ciò si sta verificando specie dopo che la Corte Costituzionale, cui va il mio grato e deferente saluto, ponendo termine a talune non meditate illazioni, ha riconosciuto al giudice amministrativo la piena dignità di giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica, cui compete, in diretta applicazione dei principi di effettività e di concentrazione della tutela (ora autorevolmente riconosciuta anche dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione), conoscere non solo le domande intese all’annullamento degli atti emanati dall’amministrazione aventi carattere autoritativo, ma anche le domande relative al risarcimento del danno.

Ciò in quanto, come è stato ben presto chiarito dal giudice delle leggi, il risarcimento del danno ingiusto sofferto per l’esercizio della funzione pubblica, non costituisce una nuova materia attribuita alla cognizione del giudice amministrativo, ma uno “strumento di tutela ulteriore” e non solo per l’esigenza di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera protezione del cittadino di fronte all’illegittimo esercizio del potere pubblico, ma anche perché, come ribadito dalla Corte Costituzionale, quel giudice è idoneo ad offrire “piena tutela”. Quindi, il giudice amministrativo quale giudice dell’amministrazione è ormai dotato di “giurisdizione piena”.

Nella mia relazione sull’andamento della giustizia amministrativa nel 2006 sostenevo, riferendomi al crinale della tutela risarcitoria con il giudice ordinario, che il giudice amministrativo “era disponibile a rivedere e limare i propri orientamenti, se il fine era quello di rendere effettiva la tutela giurisdizionale”.

L’effettività infatti non si realizza se, costantemente si agitano tra i due giudici questioni sulla rispettiva giurisdizione, frastornando il cittadino che chiede giustizia.

Il che a me sembra che ora sia il sentimento comune che ispira la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa, come è emerso da alcune decisioni delle Sezioni Unite e da qualche nostro recente incontro che il primo presidente della Corte di Cassazione ha oggi richiamato. E’, infatti, comune l’esigenza di considerare le due giurisdizioni, su basi di pari dignità, un arricchimento di possibilità data ai cittadini per la piena realizzazione dei loro legittimi interessi e non più come una complicazione per chi chiede giustizia, derivante dall’incertezza del giudice da adire. In tal senso emergono sicuri segnali di un rapporto armonioso, che si va realizzando al posto di un arroccamento su posizioni teoriche risalenti, talvolta esasperate.

Sembra profilarsi il tempo in cui sarà possibile, per consolidare quel rapporto, a tutto beneficio degli utenti delle due giurisdizioni, la previsione di un giudice della giurisdizione a composizione mista che possa valutare le singole fattispecie, facendo opera di giustizia equilibrata tra esigenze del pubblico e del privato. Del resto vi è già un esempio valido, a quanto mi risulta incontestato, sia pure in campo ridotto, che è quella del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche composto da magistrati ordinari e amministrativi.

Quando il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa espresse parere favorevole per la mia nomina a Presidente del Consiglio di Stato dissi che, nonostante la durata breve, la mia attività in tale carica sarebbe stata intensa, essendo ciò tra l’altro possibile per la conoscenza della giustizia amministrativa che avevo accumulato in lunghi anni e, in particolare, in quasi un triennio di Presidente aggiunto, stante la assorbente, costante ed estesa collaborazione con il mio predecessore Alberto de Roberto, con spirito di servizio e di amicizia, che persiste se mai rafforzata.

Credo di avere fatto del mio meglio, per quanto possibile, affrontando i problemi emergenti e, in parte, se non risolvendoli, avviandoli a soluzione.

Mi riferisco, in particolare all’arretrato, per il quale riannodando fili spezzati, ho riavviato la creazione di Sezioni stralcio, ottenendo anche copertura finanziaria.

E’ stato rilanciato ed in parte è in via di attuazione la riforma del nostro sistema informatico, non solo per la rilevazione effettiva dell’arretrato e del sussidio fondamentale che può dare per il suo dibattimento, ma soprattutto come supporto per l’attività a regime.

Oltre a richiedere un possibile incremento del personale di magistratura, mi sono adoperato, per quello che potevo, per l’indispensabile e condizionante aumento del personale amministrativo, giunto ormai allo stremo.

Ho avviato infine un riavvicinamento delle due componenti magistratuali della giustizia amministrativa: vi è stato quale segnale positivo. Il mio auspicio è che questo avvicinamento armonioso si realizzi quanto prima, per dare nuovo e più forte slancio alla nostra delicata attività.

Non dubito che il mio valente successore, anche per la maggiore durata della sua presidenza, potrà risolvere questi persistenti problemi.

Ma è giunto ormai il momento di salutarci.

Saluto tutti gli avvocati e i loro rappresentanti che tanto bene hanno parlato di me.

Saluto e ringrazio i membri del nostro organo di autogoverno con i quali ho avuto il privilegio di lavorare nel comune interesse della giustizia amministrativa, nonché lo scrupoloso segretario Riccio e tutto il valido personale amministrativo di supporto.

Saluto tutti i colleghi magistrati che con spirito di servizio hanno svolto la nostra difficile funzione, in particolare, con tanto affetto, saluto i colleghi tutti che ho avuto il privilegio di avere a me vicino nelle nostre innumerevoli e fruttuose camere di consiglio. Saluto il Segretario generale Consigliere Borioni, cessato dall’incarico sei giorni fa, per la collaborazione e l’assistenza che mi ha dato giornalmente nell’esercizio delle mie funzioni.

Saluto tutto il personale amministrativo che con dedizione ha reso possibile il funzionamento del nostro apparato, nonostante l’inadeguato organico, non senza segnalare con l’occasione lo stile che connota il rapporto del nostro personale con gli avvocati e gli utenti del servizio giustizia amministrativa.

Un saluto particolare va a tutti gli addetti alla mia segreteria che, con il sorriso sulle labbra, hanno saputo sopportare le mie angherie.

Dieci giorni fa, al termine della mia ultima presidenza dell’Adunanza Plenaria, rispondendo al saluto affettuoso rivoltomi dai colleghi in quella occasione, dissi che mi sarebbero mancati tanto, ma che ero allietato dall’idea che essi avrebbero avuto di me un buon ricordo.

Questi stessi sentimenti li esprimo nei confronti di Voi tutti che a diverso, ma parimenti importante titolo, operate nel campo della giustizia amministrativa.

Dal mio canto Vi sentirò sempre vicini”.

Mario Egidio Schinaia

Palazzo Spada, 22 ottobre 2007

Redazione

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