Caso Calcio Catania: quale giurisdizione sul Gioco del Calcio ?

È riservata all’ordinamento sportivo (con il corollario che ogni giudice statuale difetta in radice di giurisdizione in proposito), ogni questione avente ad oggetto:

a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.

In quanto restano riservate all’ordimento sportivo, per definizione di legge tali controversie sono prive di rilievo per il diritto statuale.

Il legislatore ha operato una scelta netta, nell’ovvia consapevolezza che l’applicazione di una norma regolamentare sportiva ovvero l’irrogazione di una sanzione disciplinare sportiva hanno normalmente grandissimo rilievo patrimoniale indiretto; e tale scelta l’interprete è tenuto ad applicare, senza poter sovrapporre la propria “discrezionalità interpretativa” a quella legislativa esercitata dal Parlamento.

È palese che l’erronea applicazione del regolamento può comportare l’ammissione o l’esclusione di una società sportiva (né ha rilievo, contrariamente a ciò che è stato talora affermato per radicare contra legem la giurisdizione statuale, il fatto, meramente estrinseco, che essa sia, o meno, quotata in borsa) rispetto a una determinata competizione nazionale o internazionale, con le ovvie ricadute economiche; né che identiche conseguenze sempre più spesso derivino dall’applicazione di sanzioni disciplinari (quali, nel caso di specie, una lunga squalifica del campo e l’obbligo di giocare a porte chiuse; ovvero, in altri casi notori e recenti, l’esclusione dal campionato quale sanzione disciplinare per l’illecito sportivo commesso, con iscrizione a uno di rango inferiore).

Non ignora certo il Collegio, né poteva ignorarlo il legislatore allorché emanò il decreto legge n. 220 del 2003, che l’applicazione del regolamento – sia da parte dell’arbitro nella singola gara determinante per l’esito dell’intera stagione; sia da parte del giudice sportivo di primo o di ultimo grado – e l’irrogazione delle più gravi sanzioni disciplinari (tra cui le penalizzazioni in classifica e le retrocessioni in campionati inferiori: si pensi ai notori esempi verificatisi nell’estate del 2006, in relazione ai quali in altre sedi è stata ammessa, ma erroneamente ad avviso di questo Collegio, la sussistenza della giurisdizione amministrativa) quasi sempre producono conseguenze patrimoniali indirette di rilevantissima entità.

Tuttavia tali conseguenze, quand’anche in ipotesi possano essere la remota causa di una dichiarazione di fallimento, normativamente non dispiegano alcun rilievo ai fini della verifica di sussistenza della giurisdizione statuale.

Se una tale opzione normativa si fosse svolta a livello secondario, sarebbe stata passibile di censure per indiretto contrasto col principio della generale tutela statuale sui diritti soggettivi patrimoniali.

Viceversa, essendo stata operata a livello primario, non è soggetta ad altro vaglio che a quello costituzionale; che, da un lato, non sembra in alcun modo interferire con le scelte sopra ricordate del legislatore (almeno per quali riduttivamente risultanti dalla conversione in legge del decreto) e che, dall’altro, nel disciplinare l’iniziativa economica privata ne afferma, all’art. 41 Cost., la mera libertà.

In tale contesto risulta legittima la scelta del legislatore ordinario di stabilire che, quando un imprenditore decida di operare nel settore dello sport, resti interamente ed esclusivamente assoggettato alla disciplina interna dell’ordinamento sportivo (cui la legge ha voluto riconoscere la più ampia autonomia), ma limitatamente ai due soli profili di cui alle ricordate lettere a) e b) del cit. art. 2, comma 1, del decreto legge n. 220/2003.

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Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana

Sentenza 8 novembre 2007 n. 1048

(presidente Zucchelli, estensore de Francisco)



(…)

Diritto



1. – Lo svolgimento che la causa ha avuto in primo grado deve essere ricapitolato più in dettaglio, anche per comprendere al meglio il thema decidendum devoluto a questo giudice di appello.

Dopo i gravi turbamenti dell’ordine pubblico verificatisi in occasione della partita di calcio Catania–Palermo del 2 febbraio 2007 (culminati con la morte di un Ispettore di Polizia), il giudice sportivo, col provvedimento disciplinare sportivo qui impugnato, ha inflitto alla società sportiva Catania Calcio s.p.a. la sanzione disciplinare della squalifica del campo fino al 30 giugno 2007, altresì con l’obbligo di disputare a porte chiuse le rimanenti partite da giocare in casa, oltre all’ammenda di € 50.000, poi ridotta a € 20.000.

Tale sanzione disciplinare (tranne la parte relativa all’ammenda) è stata impugnata davanti al T.A.R. della Sicilia, Sezione staccata di Catania, da 82 abbonati del Catania Calcio, odierni appellati, che hanno formulato altresì un’istanza cautelare.

Accogliendo tale istanza, il Presidente della IV Sezione interna del T.A.R. di Catania con proprio decreto 4 aprile 2007, n. 401, ha sospeso l’efficacia degli atti impugnati, ordinando “di consentire a quanti ne facciano regolare richiesta, l’accesso agli impianti sportivi su tutto il territorio nazionale ove si svolgeranno le partite casalinghe del Catania Calcio”.

Con lo stesso decreto, il Presidente di detta IV Sezione interna ha fissato al 13 aprile 2007 la camera di consiglio, per l’esame collegiale.

Reagendo a ciò, la F.I.G.C. ha presentato un proprio ricorso – senza impugnare alcun atto amministrativo, ma in asserita “riassunzione del ricorso” già pendente davanti alla IV Sezione di Catania – “dinanzi al T.A.R. del Lazio, funzionalmente competente ex lege n. 280/2003”.

Il T.A.R. del Lazio, Sezione Terza-Ter, con ordinanza 12 aprile 2007, n. 1664, ha ritenuto di pronunciarsi nel senso di accogliere il ricordato atto processuale qualificato “istanza di riassunzione” e, per l’effetto, ha “revocato” il decreto del presidente della IV Sezione del T.A.R. di Catania n. 401 del 4 aprile 2007 e ha respinto l’istanza cautelare proposta dai Signori Pennisi ed altri; in tale ordinanza si afferma altresì che il T.AR. del Lazio “manda alla Segreteria della IV Sezione del T.A.R. di Catania di trasmettere alla Sezione Terza-Ter del T.A.R. del Lazio il fascicolo di causa”.

Il 13 aprile 2007 la IV Sezione del T.A.R. di Catania, nella camera di consiglio fissata per l’esame dell’istanza cautelare, ha trattenuto la causa in decisione, definendola con sentenza succintamente motivata (ai sensi del combinato disposto degli artt. 21, X comma, e 26, V comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e 3, comma 3, del decreto legge 19 agosto 2003, n. 220), la quale è stata qui appellata.

Va anche aggiunto che il 19 aprile 2007, sotto la stessa data di pubblicazione di detta sentenza, il Presidente della IV Sezione del T.A.R. Catania ha ritenuto di poter accogliere, con proprio decreto monocratico n. 5 del 19 aprile 2007, il ricorso contestualmente proposto per l’esecuzione della sentenza qui appellata, per l’effetto nominando tre commissari ad acta (in persona di due magistrati amministrativi di primo grado e di un ufficiale dei Carabinieri) e dando istruzioni agli stessi e agli organi della F.I.G.C. su come ottemperare al proprio dictum giurisdizionale, nonché ordinando ai prefetti e ai questori di Roma, Milano, Modena e Catania, ai comandanti provinciali dei Carabinieri delle stesse città e a quelli della Guardia di Finanza (tranne, per questi, quello di Modena), “di disporre a semplice richiesta verbale di ogni commissario il necessario intervento della forza pubblica per rendere possibile il regolare svolgimento dell’incarico giudiziario affidato a ciascuno dei commissari, superando eventuali resistenze ed opposizioni materiali alla concreta, integrale e definitiva esecuzione della sentenza di cui sopra e del presente decreto”; tale atto, altresì, “fissa l’udienza in camera di consiglio per il prossimo 9 maggio 2007 per la sottoposizione del presente decreto al Collegio”.

Con successivo proprio decreto n. 6 datato 21 aprile 2007, ma depositato il 23 aprile 2007 (lunedì), lo stesso Presidente della IV Sezione del T.A.R. Catania ha ritenuto di poter accogliere un ricorso per l’ulteriore esecuzione alla sentenza qui appellata, per l’effetto nominando “ad integrazione dei precedenti Commissari ad acta di cui al Decreto presidenziale n. 5/2007, il Dr. Filippo Barboso, Dirigente superiore della Polizia di Stato di Catania”, disponendo che tale quarto Commissario ad acta “fissi lo svolgimento della partita Catania–Ascoli per il prossimo giorno festivo disponibile e comunque non oltre il 25 aprile p.v.” ed “adotti tutte le misure necessarie per il concreto soddisfacimento dei diritti dei ricorrenti, previa la rigida predisposizione di tutti i mezzi atti a salvaguardare la sicurezza di tutti, se del caso anche attraverso uno spiegamento particolarmente copioso delle Forze dell’Ordine”, nuovamente fissando “l’udienza in camera di consiglio per il prossimo 9 maggio 2007 per la sottoposizione del presente decreto al Collegio”.

Tutta la vicenda ha visto la sua fine il 24 aprile 2007, allorché è stato depositato il presente appello, con l’istanza cautelare urgente di decreto monocratico inibitorio.

Il Presidente di questo Consiglio di giustizia amministrativa, con proprio decreto n. 402 dello stesso 24 aprile 2007, ha infatti sospeso l’efficacia esecutiva della sentenza appellata, fissando la camera di consiglio del 10 maggio 2007 per la trattazione cautelare dell’appello.

In tale circostanza, questo Collegio ha ritenuto di decidere la causa con sentenza succintamente motivata ai sensi del cit. art. 3, comma 3, del D.L. n. 220 del 2003, altresì depositando il dispositivo della presente decisione ai sensi dei commi 2 e ss. dell’art. 23-bis della cit. legge n. 1034/1971, applicabili in forza dell’art. 3, comma 3, D.L. n. 220/2003.

2. – Questo Consiglio ritiene che sulla domanda proposta vi sia difetto assoluto di giurisdizione.

2.1. – Si premette che il presente giudizio di appello concerne esclusivamente la sentenza del T.A.R. di Catania n. 679/2007, ma non anche la cit. ordinanza del T.A.R. del Lazio n. 1664/2007, la quale ultima: “revoca” un provvedimento di un altro giudice di pari grado; “manda” (e nemmeno “ordina”) alla segreteria di quello di trasmettere il fascicolo di un giudizio ivi pendente; si veste, in sostanza, degli abiti di giudice di appello sul T.A.R. di Catania, dichiarando di far ciò in base all’art. 3, comma 4, del D.L. n. 220/2003 che, viceversa, disciplina solo “i processi in corso” alla data del 20 agosto 2003, per i quali era stata prevista (ma a fronte della sospensione ope legis in tale data dell’efficacia delle misure cautelari concesse anteriormente ad essa da ogni altro T.A.R.) la possibilità della “parte interessata” a ripristinare l’efficacia delle misure cautelari, in quanto rese inefficaci per legge, di “riproporre … l’istanza cautelare” al T.A.R. del Lazio, purché entro il termine di 15 giorni decorrente dalla data del 20 agosto 2003 e, dunque, solamente fino al 4 settembre 2003.

Premesso che nessuna competenza questo Consiglio ritiene di avere quale giudice di appello sui provvedimenti giurisdizionali, di qualunque contenuto, resi dal T.A.R. del Lazio – giova infatti sempre, ma vieppiù in questo caso, ribadire e rispettare i limiti delle attribuzioni di ciascun organo giurisdizionale – sembra comunque evidente che l’odierna declaratoria di (assoluto) difetto di giurisdizione, travolgendo ab imis il ricorso originario, renda priva di oggetto, e perciò anche di effetto, ogni statuizione che su di esso sia stata resa, ovvero che da esso abbia comunque tratto origine.

2.2. – Circa il potere di rilevare, in questa sede d’appello, il difetto di giurisdizione, basti osservare che la questione di giurisdizione è stata espressamente proposta nel secondo motivo di appello; sicché – a prescindere dall’angolo prospettico con cui la parte appellante ha ivi trattato la questione – ciò esclude in radice che sulla susssistenza della giurisdizione si sia formata qualsivoglia preclusione processuale che renda non più esaminabile il punto nel presente grado del giudizio.

2.3. – Quanto al carattere preliminare da riconoscere a quella di giurisdizione rispetto a ogni altra questione (salvo quelle riguardanti la regolare costituzione del processo, ma comprese quelle di competenza) – che in dottrina è stato contestato sull’assunto che sulla questione di giurisdizione, come su ogni altra, possa pronunciare solo il giudice competente per la concreta controversia nella quale la questione stessa è sollevata; assunto peraltro non condiviso dall’orientamento giurisprudenziale tracciato da Cass., S.U., 4 ottobre 1974, n. 2594 – si evidenzia che, identificandosi la competenza con la porzione di giurisdizione spettante a ciascun giudice di uno stesso plesso giurisdizionale, in capo a nessun giudice può ritenersi radicata la competenza a conoscere di una domanda per cui il plesso cui egli appartiene difetta in radice di giurisdizione; peraltro l’elemento di chiusura del sistema – atto a elidere ogni rischio di erronee declinatorie – è costituito dalle Sezioni unite della Corte regolatrice, che verificano l’esattezza delle pronunce sulla giurisdizione mediante la formazione del c.d. giudicato panprocessuale su di essa.

Pertanto, questo Consiglio ritiene di dover esaminare per prima la questione di giurisdizione, oggetto del secondo motivo di appello, rispetto a quella di competenza, la quale – trattandosi di competenza funzionale, per la quale non necessita il ricorso all’ordinario strumento del regolamento ex art. 31 della legge n. 1034 del 1971 – è stata riproposta invece con il primo motivo dell’odierno gravame.

3. – L’insussistenza della giurisdizione amministrativa, e al contempo di ogni altra giurisdizione, deriva dalla corretta esegesi degli artt. 1, 2 e 3 del D.L. 19 agosto 2003, n. 220, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 17 ottobre 2003, n. 280.

Tale fonte primaria, nel pieno rispetto dei principi costituzionali, “riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale”.

Conseguentemente, ispira al “principio di autonomia” “i rapporti tra l’ordinamento sportivo” e il diritto statuale, con l’unica eccezione dei “casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.

L’art. 2 del decreto in esame fissa positivamente alcuni casi in cui tale rilevanza, per definizione dello stesso legislatore, senz’altro non ricorre.

È dunque riservata all’ordinamento sportivo, in forza di tale norma di legge (con il corollario che ogni giudice statuale difetta in radice di giurisdizione in proposito), ogni questione avente ad oggetto:

“a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive;

b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.

Lo Stato, dunque, ha dichiarato apertamente il proprio disinteresse per ogni questione concernente “l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale” in ogni sua articolazione; ed altrettanto è a dirsi per ogni questione che concerna “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.

Il corollario è che nessuna violazione di tali norme sportive potrà considerarsi di alcun rilievo per l’ordinamento giuridico dello Stato.

Infatti, l’art. 3 del decreto in esame conferma che – “ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti” (in quanto si tratta non già di norme interne dell’ordinamento sportivo, ma della disciplina di rapporti di lavoro subordinato o autonomo, o comunque ad essi assimilati) – tra “ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive” soltanto quelle “non riservat[e] agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’articolo 2, [sono] devolut[e] alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.

Solo per queste ultime, perciò, l’art. 3 del decreto stabilisce, al comma 2, la competenza funzionale del T.A.R. del Lazio con sede in Roma.

È dunque giocoforza concludere che “ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive … riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’articolo 2” resta, viceversa, esclusa tanto dalla giurisdizione del giudice ordinario, quanto da quella del giudice ammistrativo; sicché non vi è competenza di alcun ufficio giudiziario, né dell’uno, né dell’altro plesso giurisdizionale.

In quanto restano riservate all’ordimento sportivo, per definizione di legge tali controversie sono infatti prive di ogni rilievo per il diritto statuale.

Il Collegio ritiene che questa sia l’unica interpretazione del dato normativo coerente e compatibile con esso.

4. – Da quanto esposto deriva la necessità di verificare soltanto, al fine di radicare o meno la giurisdizione statuale, se la controversia in esame riguardi, o meno, rapporti per i quali, ai sensi del cit. art. 2, è esclusa la rilevanza per l’ordinamento statuale, perché riservati a quello sportivo (a siffatta verifica di specie, si procederà più avanti).

Nessun rilievo, viceversa, va attribuito a tali fini alle conseguenze ulteriori – anche se patrimonialmente rilevanti o rilevantissime – che possano indirettamente derivare da atti che la legge considera propri dell’ordinamento sportivo e a quest’ultimo puramente riservati.

Il legislatore ha operato una scelta netta, nell’ovvia consapevolezza che l’applicazione di una norma regolamentare sportiva ovvero l’irrogazione di una sanzione disciplinare sportiva hanno normalmente grandissimo rilievo patrimoniale indiretto; e tale scelta l’interprete è tenuto ad applicare, senza poter sovrapporre la propria “discrezionalità interpretativa” a quella legislativa esercitata dal Parlamento.

È palese che l’erronea applicazione del regolamento può comportare l’ammissione o l’esclusione di una società sportiva (né ha rilievo, contrariamente a ciò che è stato talora affermato per radicare contra legem la giurisdizione statuale, il fatto, meramente estrinseco, che essa sia, o meno, quotata in borsa) rispetto a una determinata competizione nazionale o internazionale, con le ovvie ricadute economiche; né che identiche conseguenze sempre più spesso derivino dall’applicazione di sanzioni disciplinari (quali, nel caso di specie, una lunga squalifica del campo e l’obbligo di giocare a porte chiuse; ovvero, in altri casi notori e recenti, l’esclusione dal campionato quale sanzione disciplinare per l’illecito sportivo commesso, con iscrizione a uno di rango inferiore).

Non ignora certo il Collegio, né poteva ignorararlo il legislatore allorché emanò il decreto legge n. 220 del 2003, che l’applicazione del regolamento – sia da parte dell’arbitro nella singola gara determinante per l’esito dell’intera stagione; sia da parte del giudice sportivo di primo o di ultimo grado – e l’irrogazione delle più gravi sanzioni disciplinari (tra cui le penalizzazioni in classifica e le retrocessioni in campionati inferiori: si pensi ai notori esempi verificatisi nell’estate del 2006, in relazione ai quali in altre sedi è stata ammessa, ma erroneamente ad avviso di questo Collegio, la sussistenza della giurisdizione amministrativa) quasi sempre producono conseguenze patrimoniali indirette di rilevantissima entità.

Tuttavia tali conseguenze, quand’anche in ipotesi possano essere la remota causa di una dichiarazione di fallimento, normativamente non dispiegano alcun rilievo ai fini della verifica di sussistenza della giurisdizione statuale; che infatti il legislatore ha radicato solo nei casi diversi da quelli, espressamente eccettuati, di cui all’art. 2, comma 1, del decreto legge citato, e di cui si è già detto.

Se una tale opzione normativa si fosse svolta a livello secondario, sarebbe stata passibile di censure per indiretto contrasto col principio della generale tutela statuale sui diritti soggettivi patrimoniali.

Viceversa, essendo stata operata a livello primario, non è soggetta ad altro vaglio che a quello costituzionale; che, da un lato, non sembra in alcun modo interferire con le scelte sopra ricordate del legislatore (almeno per quali riduttivamente risultanti dalla conversione in legge del decreto) e che, dall’altro, nel disciplinare l’iniziativa economica privata ne afferma, all’art. 41 Cost., la mera libertà.

In tale contesto risulta legittima la scelta del legislatore ordinario di stabilire che, quando un imprenditore decida di operare nel settore dello sport, resti interamente ed esclusivamente assoggettato alla disciplina interna dell’ordinamento sportivo (cui la legge ha voluto riconoscere la più ampia autonomia), ma limitatamente ai due soli profili di cui alle ricordate lettere a) e b) del cit. art. 2, comma 1, del decreto legge n. 220/2003.

Il Collegio, in sintesi, ritiene da un lato che il chiaro disposto normativo primario testé citato non sia passibile di alcuna diversa interpretazione, se non che dandosi adito a una sua inammissibile disapplicazione da parte del giudice; nonché, dall’altro lato, che esso neppure presenti profili di sospetta illegittimità costituzionale, sicché palesemente non v’è luogo a sollevare alcuna questione in proposito.

Non ignora, il Collegio, che in altre sedi (ma, a quanto consta, solo di primo grado; o, in ultimo grado, solo cautelari) siano state compiute ben diverse “interpretazioni correttive” delle norme che qui vengono in rilievo, in sostanza al fine di affermare pressoché sempre – con il sin troppo facile grimaldello esegetico delle conseguenze patrimoniali che sempre, ma indirettamente, derivano dall’applicazione dei regolamenti sportivi o dalle relative sanzioni disciplinari; ma che possono altresì derivare da ogni altra attività sociale giuridicamente indifferente – la sussistenza della giurisdizione amministrativa; tuttavia ritiene che esse travalichino il limite, per ogni giudice sempre insuperabile, della mera disapplicazione della legge.

È infatti insostenibile la tesi che il cit. D.L. n. 220/2003 trovi applicazione solo per le questioni bagatellari, o per gli sport economicamente minori, ovvero infine per i soli campionati giovanili o dilettantistici; esso, viceversa, concerne indiscutibilmente – come risulta dal suo stesso tenore – in primo luogo gli sport professionistici, e tra essi senz’altro e soprattutto anche il giuoco del calcio.

Va piuttosto ribadito che, ex art. 101, II comma, Cost. il giudice è soggetto alla legge dello Stato, che egli è sempre tenuto ad applicare per quale essa è – ove non ritenga di sollevare questioni circa la sua legittimità costituzionale – e comunque del tutto a prescindere da ogni soggettiva condivisione, o meno, delle scelte compiute dal legislatore.

Tra le più recenti espressioni di una contraria tendenza, invero non isolata, vanno tuttavia ricordate le sentenze di T.A.R. Lazio, Sez. III-Ter, 21 giugno 2007, n. 5645, e 8 giugno 2007, n. 5280.

Esse, richiamandosi a precedenti resi in “in fattispecie similari … (anche connesse alla vicenda di “calciopoli”) da parte di società sportive”, hanno “riconosciuto”, ma questa volta in modo del tutto esplicito, “la propria giurisdizione, pure in fattispecie similari concernenti l’impugnativa di sanzioni disciplinari”.

Il fatto è che non costituisce altro che una mera petizione di principio (cioè, in altri termini, una sovrapposizione delle scelte dell’interprete a quelle espressamente compiute in senso diverso dal legislatore) l’asserzione che la sussistenza della giurisdizione debba derivare dalla considerazione – fattualmente esatta, ma giuridicamente inconferente – “che non può negarsi, come dimostra, del resto, proprio la vicenda dell’Arezzo, che, per effetto della penalizzazione, è incorso nella retrocessione nella serie inferiore, una rilevanza per l’ordinamento giuridico statale di situazioni giuridiche soggettive geneticamente connesse con la penalizzazione irrogata dall’ordinamen-to sportivo”.

Nella legge, infatti, non vi è alcuna affermazione che gli atti, giusti o sbagliati, di applicazione delle norme regolamentari sportive o delle sanzioni disciplinari debbano avere rilievo, o meno, nell’ordina-mento giuridico dello Stato, secondo che derivino conseguenze patrimoniali (più o meno gravi) dalla decisione sportiva; in essa, viceversa, è espressamente stabilita l’irrilevanza per l’ordinamento statuale di ogni applicazione di norme regolamentari o di sanzioni disciplinari sportive, quali che ne siano le relative conseguenze indirette.

Sicché, secondo il Collegio, la contraria asserzione non costituisce affatto la conseguenza di “un’interpretazione estensiva del combinato disposto dell’art. 1, II comma, e dell’art. 2, I comma, lett. b), della legge n. 280/03”, ma solo di un sua aperta ed eclatatante violazione.

Della conformità ai principi costituzionali del dato normativo in esame si è già detto; giova adesso aggiungere che la tutela degli associati nei confronti delle associazioni esiste in quanto è positivamente prevista dagli artt. 23 e 24 cod. civ. che, riconoscendo come diritti gli interessi che essi hanno internamente all’associazione, aprono la via della tutela giurisdizionale.

In proposito, va altresì ricordato che tale tutela è riconosciuta direttamente dall’ordinamento giuridico solo per le situazioni giuridiche soggettive disciplinate espressamente da una norma di legge (“Le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge […] possono essere annullate”: art. 23 c.c.); mentre nella mancanza di una norma diretta che elevi un interesse di fatto a interesse giuridicamente protetto, il parametro della tutela giurisdizionale è espresso solo dal negozio associativo e dal suo contenuto (“[…] contrarie […] all’atto costitutivo o allo statuto […]”: art. 23 c.c.), come applicazione di specie del generalissimo principio di cui all’art. 1372, I comma, c.c., secondo cui “Il contratto ha forza di legge tra le parti”. Ove, cioè, la legge non disciplini direttamente i comportamenti degli associati e le conseguenze di essi, la norma di riferimento è quella stessa posta dal negozio associativo, e quindi, a maggior ragione, solo al negozio associativo ci si deve riferire nel caso in cui l’ordinamento giuridico statuale espressamente riconosca di essere indifferente rispetto a una disciplina destinata a regolare rapporti che nascono e si sviluppano solo a causa e in funzione del negozio associativo, influendo in via diretta solo sui meccanismi interni dell’associazione stessa.

Esattamente in questa ottica, e facendo applicazione di questi elementari principi liberali (di libertà negoziale o, meglio, di libertà tout court), l’art. 2 del D.L n. 220/2003, nei ristretti limiti di cui alle ricordate lett. a) e b) del comma 1, ha sostanzialmente qualificato quali meri interessi (non tutelati, cioè, né in sede giurisdizionale né in sede amministrativa) tutti quelli concernenti “l’osservanza e l’applica-zione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordi-namento sportivo nazionale”, nonché l’esatta valutazione dei “comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.

Tale opzione senz’altro rientra nell’esercizio, costituzionalmente legittimo, della discrezionalità del legislatore, che è tenuto bensì ad assicurare piena tutela ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi, ma senza che gli sia in radice preclusa la scelta di quali tra le molteplici situazioni di interesse di fatto – che in sé non afferiscano direttamente a beni costituzionalmente intangibili, tra i quali non si ascrivono certo le conseguenze patrimoniali indirette delle attività sportive di qualsiasi livello – meritino di essere qualificate come diritti soggettivi o interessi legittimi.

Poiché il decreto legge n. 220 del 2003 non ha operato tale scelta in modo criptico né opinabile (giacché in tal caso assai ampio sarebbe stato lo spazio esegetico dell’interprete), bensì in modo espresso e inequivoco, ritiene il Collegio che al giudice che voglia applicare la legge non resti altra possibile alternativa, in tutti i già ricordati casi, che rendere la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione.

5. – Conformemente a quanto opinato dal Collegio, anche in un autorevole contributo dottrinale è stata affermata la non condivisibilità delle conclusioni cui, in punto di giurisdizione, è pervenuto il T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, in sede cautelare, con l’ord. 22 agosto 2006, n. 46 (a proposito del ricorso ivi proposto da un noto ex direttore generale della Juventus, avverso una sanzione disciplinare di cinque anni di squalifica e € 50.000 di ammenda comminatagli dalla F.I.G.C.).

Invero, tutte le sanzioni sportive (ma lo stesso sarebbe a dirsi nei casi di mancata irrogazione di esse a fronte di evidenti illeciti sportivi) producono in via immediata i loro effetti all’interno dell’ordinamento di settore, mentre solo indiretti ed eventuali sono gli effetti che da esse riverberano nell’ordinamento generale; sicché dalle citate disposizioni del D.L. n. 220/2003 è corretto trarre la conclusione che sono giustiziabili per l’ordinamento statale solo le posizioni soggettive riconosciute da quest’ultimo, ancorché connesse con l’ordinamento sportivo, e non invece il contrario (come vorrebbero le cit. ordinanze).

6. – Altresì conforme all’esegesi qui sostenuta risulta l’orientamento espresso dalla Corte regolatrice che, con la sentenza resa a Sezioni unite del 23 marzo 2004, n. 5775, ha così ricostruito – per quanto viene ora in rilievo – il sistema normativo introdotto dal cit. “decreto legge 19 agosto 2003, n. 220, contenente disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva, convertito nella legge 17 ottobre 2003, n. 280”.

“Il decreto, prendendo implicitamente atto della complessità organizzativa e strutturale dell’ordinamento sportivo, stabilisce che i rapporti tra questo e l’ordinamento dello Stato sono regolati in base al principio di autonomia, “salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo” (art. 1 primo comma)”.

“La “giustizia sportiva” si riferisce, così, alle ipotesi in cui si discute dell’applicazione delle regole sportive; quella statale è chiamata, invece, a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l’ordinamento generale, concernendo la violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi”.

“Per individuare i casi in cui si applicano le sole regole tecnico – sportive, con conseguente riserva agli organi della giustizia sportiva della risoluzione delle corrispondenti controversie, è stabilito che all’ordinamento sportivo nazionale è riservata la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie di quell’ordinamento e delle sue articolazioni, al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle sanzioni disciplinari sportive (art. 2, primo comma)”.

“In queste materie vige il sistema del cd. “vincolo sportivo”. Le società, le associazioni, gli affiliati ed i tesserati, infatti, hanno l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Coni e delle federazioni sportive indicate negli articoli 15 e 16 del decreto legislativo n. 242 del 1999, gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo” (art. 2, secondo comma)”.

“I casi di rilevanza per l’ordinamento dello Stato delle situazioni giuridiche soggettive, connesse con l’ordinamento sportivo, sono attribuiti alla giurisdizione del giudice ordinario ed a quella esclusiva del giudice amministrativo”.

“Il primo comma dell’art. 3 del decreto legge, in particolare, devolve al giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti. Alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, invece, è devoluta “ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o dalle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’art. 2” ”.

“Il sistema, per quanto riguarda le questioni per le quali è stabilita autonomia dell’ordinamento sportivo, continua ad essere imperniato sull’onere di adire gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo (art. 2, secondo comma) e sulla salvezza incondizionata delle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti del Coni, delle Federazioni sportive e di quelle inserite nei contratti di cui alla legge istitutiva del Coni (art. 3, ultima parte)”.

“Se ne ricava che, secondo il decreto legge n. 202 del 2003, la tutela fa riferimento alle seguenti quattro situazioni”.

“Nella prima stanno le questioni che hanno per oggetto l’osservanza di norme regolamentari, organizzative e statutarie da parte di associazioni che, per dirla con l’art. 15 del decreto legislativo n. 242 del 1999, hanno personalità giuridica di diritto privato. Le regole che sono emanate in questo ambito sono espressione dell’autonomia normativa interna delle federazioni, non hanno rilevanza nell’ordinamento giuridico generale e le decisioni adottate in base ad esse sono collocate in un’area di non rilevanza (o d’indifferenza) per l’ordinamento statale, senza che possano essere considerate come espressione di potestà pubbliche ed essere considerate alla stregua di decisioni amministrative. La generale irrilevanza per l’ordinamento statale di tali norme e della loro violazione conduce all’assenza di una tutela giurisdizionale statale; ciò non significa assenza totale di tutela, ma garanzia di una giustizia di tipo associativo che funziona secondo gli schemi del diritto privato, come questa Corte ha avuto già modo di rilevare (sent. n. 4399 del 1989)”.

“Nella seconda situazione stanno le questioni che nascono da comportamenti rilevanti sul piano disciplinare, derivanti dalla violazione da parte degli associati di norme anch’esse interne all’ordinamento sportivo. Pure per queste situazioni v’è la stessa condizione di non rilevanza per l’ordinamento statale, prima indicata. Queste prime due situazioni, in definitiva, restano all’interno del sistema dell’ordinamento sportivo propriamente detto e le possibili controversie che in esso sorgono non possono formare mai oggetto della giurisdizione statale”.

“La terza situazione comprende l’attività che le federazioni sportive nazionali debbono svolgere in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Coni e del Cio, come dispone la prima parte del già citato art. 15”.

“Nel testo del decreto legge n. 220 del 2003 anteriore alla legge di conversione, in essa figuravano l’ammissione e l’affiliazione alle federazioni di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati e l’organizzazione e lo svolgimento delle attività agonistiche non programmate ed a programma limitato e l’ammissione alle stesse delle squadre e degli atleti”.

“Indipendentemente dalla soppressione delle due categorie, l’indicazione vale ancora come esemplificazione delle corrispondenti controversie, l’oggetto delle quali è costituito dall’attività provvedimentale delle federazioni, la quale, esaurito l’obbligo del rispetto di eventuali clausole compromissorie, è sottoposta alla giurisdizione amministrativa esclusiva”.

“Infine, stanno le questioni concernenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti”.

“Esaurito, anche in questo caso, l’obbligo del rispetto di eventuali clausole compromissorie, le relative controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice ordinario”.

La constatazione che anche le Sezioni unite abbiano ricostruito il sistema in termini strettamente aderenti a quelli posti dal legislatore ordinario, conforta il Collegio nel ritenere che è questa l’unica corretta esegesi del decreto legge n. 220/2003, in esame.

D’altra parte, non v’è dubbio che gli interessi fatti valere con il ricorso di primo grado vadano inquadrati, nella quadripartizione prospettata dalle Sezioni unite, nell’ambito delle prime due situazioni (e, segnatamente, nella seconda): sicché – per dirla con le già riferite parole della Corte – essi, “in definitiva, restano all’interno del sistema dell’ordinamento sportivo propriamente detto e le possibili controversie che in esso sorgono non possono formare mai oggetto della giurisdizione statale”.

7. – Passando, quindi, alla verifica della concreta riferibilità della specifica controversia in esame alle questioni, di cui si è ampiamente detto, per le quali il cit. art. 2 del D.L. n. 220/2003 esclude la rilevanza nell’ordinamento statuale – e, perciò, la sussistenza della giurisdizione – si ricorda che con il ricorso di prime cure è stato richiesto l’annullamento “del provvedimento n. 67 del Giudice sportivo della F.I.G.C. di cui al comunicato ufficiale n. 227 del 14 febbraio 2007”, degli atti connessi “e, per quanto occorrer possa, degli articoli 9, 11 e 14 del vigente “codice di Giustizia Sportiva” della F.I.G.C.”; nonché “il rimborso e il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dai ricorrenti”.

Si è già visto che l’impugnato provvedimento n. 67 del 14 febbraio 2007 aveva disposto la squalifica dello stadio Massimino di Catania sino al 30 giugno 2007, nonché lo svolgimento a porte chiuse (cioè in assenza di pubblico) di tutte le partite casalinghe del Catania Calcio s.p.a. fino a detta data, ovunque disputate.

7.1. – S’era fatta riserva (al superiore punto 4), di verificare, ai fini del radicamento o meno della giurisdizione statuale, che la controversia in esame effettivamente riguardasse in via esclusiva rapporti dei quali, per espressa previsione del cit. art. 2 del D.L. n. 220/2003, è escluso ogni rilievo per l’ordinamento statuale, restando riservati a quello sportivo.

Alla stregua di quanto si è sin qui detto ed essendosi testé ricordato l’oggetto dell’impugnativa, tale verifica risulta assai agevole.

Non si può infatti dubitare del fatto che l’impugnato provvedimento n. 67 del Giudice sportivo in data 14 febbraio 2007, tanto nella parte in cui dispone la squalifica del campo del Catania Calcio fino al 30 giugno 2007, quanto in quella in cui obbliga tale squadra a giocare a porte chiuse tutte le partite casalinghe ovunque disputate fino alla stessa data, costituisce irrogazione e applicazione di sanzioni disciplinari sportive, ai sensi e per gli effetti – di cui si è già detto – dell’art. 2, comma 1, lett. b) del cit. D.L. n. 220 del 2003.

Neppure si può dubitare che l’ulteriore impugnativa, parimenti proposta in via di eventuale estensione (“per quanto occorrer possa”) del petitum, che concerne gli articoli 9, 11 e 14 del vigente “codice di Giustizia Sportiva” della F.I.G.C., integri comunque una questione avente a oggetto “i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare”, ai sensi del già cit. art. 2, comma 1, lett. b) del cit. D.L. n. 220 del 2003.

Per quanto infine attiene all’ulteriore domanda di condanna delle controparti intimate in primo grado al “rimborso e risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito dai ricorrenti”, si vedrà fra breve che anch’essa, per come in questa sede proposta, esula dalla giurisdizione, al pari delle domande principali di annullamento cui tale richiesta di condanna dichiaratamente accede.

7.2. – L’unica peculiarità del caso in esame, rispetto ai vari altri consimili che negli ultimi anni sono stati più volti portati all’esame della giustizia amministrativa, consiste nel fatto che la domanda di annullamento della sanzione disciplinare sportiva è stata proposta non dalla squadra di calcio disciplinarmente sanzionata dalla F.I.G.C., ma da alcuni suoi abbonati, titolari in quanto tali del diritto contrattuale di assistere alle partite in casa della predetta squadra di calcio.

Il Collegio non ritiene di dover approfondire il tema della legittimazione ad agire dei ricorrenti, perché il chiaro disposto del cit. art. 2 del D.L. n. 220/2003 esclude in radice la giurisdizione di ogni giudice statale negli ambiti ivi indicati riservati all’ordinamento sportivo, tra cui come si è ampiamente già detto rientra l’irrogazione e l’appli-cazione delle sanzioni disciplinari sportive, sicché appare certo che tale difetto assoluto di giurisdizione – vieppiù in quanto concerne la materia e non il profilo soggettivo del ricorrente – va dichiarato a prescindere da chi sia il soggetto che, ritenendosi leso, devolva la controversia alla giurisdizione statuale.

Sicchè – pur essendo quantomeno “inusuale” che il creditore ex contractu del destinatario di un provvedimento amministrativo sfavorevole impugni quest’ultimo, la situazione risultando in effetti analoga a quella del locatario di un ombrellone che volesse impugnare la revoca della concessione demaniale marittima del titolare dello stabilimento balneare – si tralascia il profilo della legittimazione ad agire, in quanto lo si reputa assorbito, erga omnes, dal difetto assoluto di giurisdizione.

7.3. – Quest’ultimo parimenti assorbe, ovviamente, tutti gli ulteriori profili – primo fra tutti quello della competenza territoriale, come si è già ampiamente visto supra – sia di rito, sia, a fortiori, di merito.

Di essi, dunque, non deve conoscere alcun giudice dello Stato.

7.4. – Va infine ribadita, per completezza, l’inammissibilità in questa sede altresì della domanda di tutela risarcitoria, che i ricorrenti hanno proposto in prime cure per asserita lesione di loro diritti assoluti (danno all’onore e alla reputazione, nonché c.d. danno esistenziale) e relativi (lesione dei diritti contrattuali acquistati con gli abbonamenti).

Si tratta, invero, di diritti che non interferiscono in alcun modo con le vicende interne dell’ordinamento sportivo (le quali, per legge, sono riservate a quest’ultimo).

Sotto un primo profilo, la circostanza che gli odierni ricorrenti possano agire contrattualmente, in altre sedi, verso il Catania Calcio s.p.a., non li abilita tuttavia ad agire per l’annullamento (né per la disapplicazione) di atti dell’ordinamento sportivo rispetto ai quali la legge dello Stato ha espressamente affermato il proprio disinteresse, avendoli qualificati a ogni effetto come irrilevanti per l’ordinamento giuridico statuale. Infatti il diritto di credito dell’abbonato – tutelato verso la società debitrice, ovvero anche erga omnes – non legittima quest’ultimo a esercitare, in via sostanzialmente surrogatoria, azioni giurisdizionali che, ai sensi del cit. D.L. n. 220/2003 e alla stregua di quanto si è sopra osservato, sono radicalmente precluse a chiunque.

D’altronde, né i diritti contrattuali verso il Catania Calcio s.p.a. radicano nei creditori alcun interesse legittimo rispetto a vicende sportive di cui è la stessa legge a escludere ogni rilievo per l’ordinamento giuridico, e con esso la sussistenza di ogni giurisdizione pubblica; né, ai fini in discorso, assume alcun rilievo il fatto che – a partire da Cass., S.U., 26 gennaio 1971, n. 174 – la giurisprudenza civile ammetta la tutela erga omnes del credito attribuendo al creditore l’azione aquiliana verso il terzo che ha reso impossibile la prestazione.

Sotto ulteriore profilo, l’inammissibilità, per la ragione già esposta, delle esaminate domande risarcitorie consegue, altresì, al fatto che le stesse sono state in questa sede concretamente formulate come conseguenziali e complementari rispetto all’illegittimità degli atti impugnati, pretesamente amministrativi, e dei quali era stato richiesto l’annullamento: sicché il difetto di giurisdizione sugli atti interni all’ordinamento sportivo, che si dichiara con la presente decisione, preclude la cognizione anche sulle formulate domande risarcitorie.

8. – In conclusione, in accoglimento nei sensi predetti del secondo motivo di appello, va dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione su tutte le domande proposte con il ricorso di prime cure – ogni ulteriore profilo restando assorbito in tale declaratoria – con annullamento senza rinvio della sentenza gravata; è, per l’effetto, inammissibile il ricorso di primo grado.

Le spese del doppio grado del giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo, sono poste a carico solidale dei soggetti ivi indicati, con riparto paritario di tali oneri, nei rapporti interni, tra tutte le persone fisiche o giuridiche solidalmente obbligate a concorrervi.

P. Q. M.



Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione, e per l’effetto annulla senza rinvio la sentenza gravata e dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.

Condanna, in solido, le parti private appellate costituite nonché la Provincia regionale di Catania e la Confederazione Nazionale Nuovi Consumatori Europei a rifondere alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, al Comitato Olimpico Nazionale Italiano ed alla Lega Nazionale Professionisti, parimenti con solidarietà attiva, le spese del doppio grado del giudizio, che liquida in complessivi € 5.000,00 (Cinquemila/00) oltre accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti dei soggetti intimati e non costituitisi. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Depositata in segreteria il 8 novembre 2007.

Redazione

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