La Quinta Sezione del Consiglio di Stato rimette ancora una volta all’Adunanza Plenaria le questioni relative all’individuazione degli effetti dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione sul contratto d’appalto medio tempore stipulato.
In passato le questioni hanno già formato oggetto di rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato mediante due ordinanze, una della VI Sez. del Consiglio di Stato (21 maggio 2004, n. 3355), l’altra del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (8 marzo 2005, n. 104), ma in entrambi i casi non si è arrivati ad una pronuncia dell’Adunanza sul punto.
Le singole questioni rimesse alle valutazioni della Plenaria sono:
1) in quale schema privatistico ascrivere l’inefficacia del contratto d’appalto quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione;
2) la sussistenza della giurisdizione amministrativa, con riferimento alle domande e al corrispondente tipo di decisioni al riguardo proponibili;
3) l’applicabilità alla fattispecie considerata degli artt. 23 e 25 c.c.;
4) l’ammissibilità nel giudizio di cognizione della condanna dell’amministrazione ad un facere specifico;
5) l’individuazione del criterio del limite dell’eccessiva onerosità di cui all’art. 2058 c.c. al fine della reintegrazione in forma specifica del danno ingiusto causato dalla p.a. mediante l’illegittima aggiudicazione dell’appalto.
Di seguito, il testo della sentenza
. . . . .
Consiglio di Stato, Sez. V
Sentenza numero 1328 del 2 aprile 2008
(presidente Santoro, estensore Giordano)
(…)
Diritto
In via preliminare ragioni di connessione inducono il Collegio a disporre la riunione degli appelli in epigrafe, per definirli con una medesima decisione.
Le questioni sulle quali il Collegio è chiamato a pronunciarsi possono essere, in ordine logico, sinteticamente indicate come segue:
1) Eccezione di inammissibilità, per difetto di interesse, dei ricorsi proposti in prima istanza;
2) Motivi di merito dei ricorsi di primo grado;
3) Conseguenze della pronuncia di annullamento del provvedimento di aggiudicazione della gara, con riferimento alla sorte del contratto di appalto medio tempore stipulato con l’impresa risultata aggiudicataria in base al provvedimento annullato.
4) Limiti della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nelle procedure concorsuali di evidenza pubblica per la scelta del contraente;
1.- La questione pregiudiziale rubricata sub 1) è stata riproposta in appello sia dalla KPMG Advisory che dalla Regione Molise.
Sostengono le appellanti che le società ricorrenti in primo grado non avevano interesse a proporre gravame, in quanto nessun vantaggio avrebbero potuto conseguire dalla caducazione del contratto, non avendo la possibilità materiale di subentrare nel contratto medesimo.
Nessuna concreta utilità sarebbe, poi, derivata loro dall’annullamento della procedura di gara, atteso che la stessa riedizione della gara sarebbe stata preclusa all’Amministrazione, per incompatibilità con il termine ultimo per poter beneficiare dei fondi comunitari, destinati a coprire i costi dell’appalto, e per la complessità tecnica del servizio oggetto dell’appalto, che difficilmente avrebbe consentito ad un nuovo soggetto scelto al termine della gara di proseguire nelle attività già realizzate.
Il giudice di prime cure ha disatteso l’eccezione in tutte le sue articolazioni, pur ammettendo che le società ricorrenti non avrebbero potuto conseguire l’aggiudicazione della gara in caso di accoglimento dei proposti gravami.
Ha, in proposito, osservato il T.A.R. che non potesse ritenersi l’interesse strumentale insussistente ab initio, a ragione del fatto che i motivi di doglianza erano pressoché tutti diretti avverso la procedura di gara, né venuto meno medio tempore, tenuto conto della circostanza che il servizio oggetto dell’appalto non era stato affatto completato, avendo raggiunto al 10.11.2006 (data della memoria conclusionale) appena il 50% del totale, e che l’Amministrazione, a causa della sopravvenuta inefficacia del contratto, avrebbe dovuto bandire una nuova gara almeno per la parte rimasta inattuata.
Il Collegio condivide le considerazioni espresse dal primo giudice, giacché non può negarsi il carattere meramente strumentale del contenzioso promosso dalle originarie ricorrenti, avuto riguardo alle non favorevoli posizioni dalle medesime acquisite nella graduatoria delle concorrenti alla gara.
Se, invero, è incontestabile che la commessa non risultava completata, al tempo della proposizione dei ricorsi di primo grado, e che non appare consentito alla parte appellante invocare la particolare complessità tecnica del servizio, senza fornire al riguardo alcun supporto probatorio in ordine all’impossibilità per le altre aspiranti di subentrare nel contratto di appalto -sicché la stazione appaltante avrebbe ben potuto, in linea di principio, rinnovare la procedura di gara per la parte del servizio rimasta inattuata- deve riconoscersi che, in ogni caso, alle ricorrenti in primo grado residuava l’interesse ad impugnare il provvedimento di aggiudicazione e gli atti di gara, sia in origine che nel corso del processo, quanto meno al fine di ottenere il risarcimento per equivalente del danno subito in termini di perdita di chance, causata dall’illegittimo espletamento della procedura concorsuale.
E’ stato, del resto, ritenuto che l’integrale esecuzione dell’appalto oggetto di una gara non fa venir meno l’interesse a ricorrere in capo al partecipante non aggiudicatario, e ciò, non solo per la presenza di un interesse morale, ma soprattutto in relazione ad un eventuale giudizio risarcitorio volto a ristorare il ricorrente dal pregiudizio patito per effetto dell’illegittimità (cfr. Cons. Stato, A.P. 29 gennaio 2003, n. 1).
2.- Quanto al merito dei ricorsi originari, il primo giudice ha correttamente ravvisato la fondatezza degli assorbenti motivi di doglianza, con cui le società ricorrenti avevano censurato il modus procedendi della commissione giudicatrice nell’eseguire la valutazione dell’offerta tecnica delle ditte concorrenti.
In effetti, con l’assegnazione a tutte le concorrenti ammesse alla gara del punteggio massimo previsto per la valutazione delle offerte tecniche (p. 70/100), la commissione di gara ha praticamente abdicato alla precipua funzione che le era propria -vale a dire quella di selezionare i progetti presentati al fine di graduarne il valore tecnico e di pervenire, anche sulla base della consistenza economica dell’offerta, all’individuazione della migliore proposta in termini di offerta economicamente più vantaggiosa- ed ha finito per demandare, in ultima analisi, l’esito della gara esclusivamente al peso dell’offerta economica, alla quale era stato riservato il punteggio residuale di p. 30/100.
Appare, pertanto, evidente che il risultato della procedura concorsuale ha falsato l’aspetto qualitativo della gara, non potendo ragionevolmente ritenersi che le offerte prodotte non presentassero la pur minima differenza tra loro, proprio in considerazione del loro elevato valore e del rilevante tecnicismo che le caratterizzava, alla stregua dei criteri dettati dal disciplinare di gara ai fini della loro valutazione.
Ora, non è dato sapere con certezza se l’esito della gara, che ha considerato tutti al massimo livello, con riferimento ai parametri utilizzati, dei progetti eterogenei provenienti da imprese di differenti dimensioni e dalle più varie esperienze professionali, sia ascrivibile o meno alla non sufficiente competenza specifica dei componenti la Commissione giudicatrice, ancorché appaia lecito presumerlo se non ritenerlo verosimile, senza nulla togliere alla loro capacità, preparazione e qualificazione di dirigenti responsabili dei rispettivi settori di attività loro affidati.
E’, tuttavia, indubitabile che -dovendo la qualità complessiva della proposta essere vagliata in relazione alla caratteristiche qualitative, metodologiche, funzionali e tecniche delle singole azioni progettuali; alla metodologia innovativa utilizzata; alla fattibilità e aderenza dell’intervento al territorio interessato; alle modalità previste per l’assistenza tecnica e la gestione funzionale del sistema ed alla qualità dei contenuti editoriali e degli output funzionali e gestionali dei servizi resi agli utenti finali (cfr. art. 8, Disciplinare di gara, pag. 17)- il punteggio numerico attribuito non poteva ritenersi sufficiente a dar conto della valutazione effettuata ove, come nella specie, non fosse suffragato dalla preventiva ed ulteriore specificazione dei sottocriteri applicati nella specifica circostanza ovvero dall’esplicitazione delle ragioni che avevano indotto la Commissione ad assegnare l’identico punteggio a tutte le proposte presentate.
Sicché non appare supportata da un’adeguata motivazione l’assegnazione del punteggio per il profilo tecnico alle offerte prodotte, soprattutto allorché, come si è riscontrato nella presente occasione, si verifichi l’improbabile e veramente singolare risultato di vedere tutti i progetti valutati nella stessa misura massima, senza che sia possibile esercitare alcun sindacato sulla legittimità della valutazione compiuta.
Poiché, dunque, nella fattispecie è stata sostanzialmente violata la lex specialis della gara ed è risultata carente la motivazione dei punteggi attribuiti per le offerte tecniche presentate, ne consegue che le sentenze del giudice di prime cure sono suscettibili di essere pienamente confermate nella parte relativa al merito dei proposti ricorsi.
3.- Si può, quindi, procedere all’individuazione degli effetti che l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione dell’appalto esplica sulla sorte del contratto medio tempore stipulato tra l’Amministrazione e l’impresa, che sia risultata illegittimamente selezionata.
Occorre successivamente indagare se sussista, o meno, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine alla domanda volta ad ottenere la declaratoria di avvenuta caducazione del contratto conseguente all’aggiudicazione.
Com’è noto, le predette questioni, unitamente ad altre connesse, hanno già formato oggetto di rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato mediante due ordinanze: la prima, della Sezione IV del Consiglio di Stato (21 maggio 2004, n. 3355) sulla quale, peraltro, non è intervenuta pronunzia di merito da parte del Collegio adito, stante l’intervenuta rinunzia al ricorso in appello; la seconda, del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione siciliana (8 marzo 2005, n. 104), in ordine alla quale l’Adunanza ha ritenuto irrilevanti i quesiti formulati, avendo riformato la pronuncia di primo grado di annullamento dell’aggiudicazione e ritenuto legittimo tale provvedimento.
Le argomentazioni recate a sostegno delle ordinanze di rimessione n. 3355/04 della Sezione IV di questo Consiglio e n. 104/05 del C.G.A.R.S. sono pienamente condivisibili e vanno perciò riproposte al vaglio dell’Adunanza Plenaria.
4.- Con riferimento alla prima questione, concernente la sorte del contratto, il Collegio ritiene di riportarsi integralmente alla perspicua motivazione sviluppata dalla ricordata ordinanza n. 3355/2004 della IV Sezione, di seguito riprodotta per quanto rilevante anche nel presente giudizio.
Secondo l’impostazione tradizionale e più risalente della giurisprudenza civile (Cass. Civ. 17 novembre 2000, n. 14901; 8 maggio 1996, n. 4269; 28 marzo 1996, n. 2842; 26 luglio 1993, n. 8346), il contratto stipulato sulla base di un’aggiudicazione illegittima è annullabile ai sensi dell’art. 1425 o dell’art. 1427 c.c. (a seconda della catalogazione dogmatica del vizio alla quale si accede); tale conclusione viene raggiunta sulla base del rilievo che le norme che regolano le procedure ad evidenza pubblica servono a consentire la corretta formazione della volontà del contraente pubblico, sicché la loro violazione implica un vizio del consenso manifestato dalla pubblica amministrazione o, secondo un’altra ricostruzione, ne rivela l’incapacità a contrarre.
Il corollario più evidente e problematico di tale impostazione è costituito dall’imputazione alla sola Pubblica Amministrazione della legittimazione alla proposizione della domanda di annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1441 c.c. (cfr. ex multis Cass. Civ. 21 febbraio 1995, n. 1885).
Secondo una diversa ricostruzione, il contratto concluso in esito ad un’aggiudicazione illegittima è affetto da nullità assoluta ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ., per violazione di norme imperative (Cons. St., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177), attesa la natura inderogabile delle disposizioni che regolano la selezione del contraente privato ai fini dell’affidamento di un appalto pubblico.
La prevalente giurisprudenza amministrativa, già prima delle recenti riforme introdotte con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 e con la legge 21 luglio 2000, n. 205 (che hanno esteso l’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa alle controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento degli appalti pubblici ed il novero dei pertinenti poteri di cognizione e di condanna) ha preferito ricostruire la fattispecie in termini di caducazione del contratto per effetto dell’annullamento della presupposta aggiudicazione (Cons. St., sez. V, 25 maggio 1998, n. 677; sez. V, 30 marzo 1993, n. 435), negando così ogni ipotesi di invalidità del negozio giuridico, connettendo la sola conseguenza dell’inefficacia all’eliminazione del provvedimento conclusivo della sequenza procedimentale pubblicistica che ha preceduto la sua conclusione e, soprattutto, escludendo che la stipula del contratto determinasse la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del ricorso contro l’aggiudicazione (Cons. St., sez. VI, 21 ottobre 1996, n. 1373).
Tale impostazione teoretica è stata confermata anche dopo le recenti riforme del processo amministrativo, con le precisazioni e le integrazioni di seguito illustrate.
La V Sezione ha ribadito la tesi dell’efficacia caducante nel caso di annullamento degli atti della procedura amministrativa, in forza del rapporto di consequenzialità necessaria tra la procedura di gara ed il contratto successivamente stipulato, e, mantenendo ferma l’adesione alla teoria della caducazione automatica, ha ritenuto che i termini della questione debbano essere ricostruiti alla luce della categoria dell’inefficacia successiva, da intendersi quale “inidoneità funzionale” del programma negoziale a spiegare ulteriori effetti successivamente alla pronuncia di annullamento (cfr. Cons. Stato, V, 14 dicembre 2006, n. 7402; id., 29 novembre 2005, n. 6579; id., 28 settembre 2005, n. 5194; id., 11 novembre 2004, n. 7346; id., 28 maggio 2004, n. 3465).
La VI sezione (Cons. St. sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332; sez. VI, 30 maggio 2003, n. 2992) ha, in particolare, ascritto la fattispecie allo schema della caducazione automatica, che comporta la necessaria ed immediata cessazione dell’efficacia del contratto per il solo effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione (senza bisogno, cioè, di pronunce costitutive), sulla base del rilievo della sussistenza di una connessione funzionale tra la sequenza procedimentale pubblicistica e la conseguente stipula del contratto che implica, in analogia alle fattispecie privatistiche del collegamento negoziale, la caducazione del negozio dipendente, nel caso di annullamento di quello presupposto (cfr. anche Cass. Civ., Sez. I, 27 marzo 2007 e 26 maggio 2006, n. 12629).
La IV sezione (Cons. St., sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666) ha, invece, optato per la diversa catalogazione della fattispecie in termini di inefficacia sopravvenuta relativa, che comporta la cessazione degli effetti del contratto non in via automatica, ma per effetto della necessaria iniziativa giurisdizionale del contraente pretermesso (unico legittimato ad invocarla in suo favore) e con il duplice limite della buona fede dei terzi, in applicazione analogica degli artt. 23, comma 2, e 25, comma 2 cod. civ. (nel medesimo senso anche Cons. St., sez. VI, n. 2992/03 cit.), e dell’eccessiva onerosità della sostituzione del contraente per la pubblica amministrazione, debitrice nella relativa domanda di reintegrazione in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 c.c..
Le recenti ricostruzioni giurisprudenziali che annettono (su questo punto, concordemente tra loro) la sola conseguenza dell’inefficacia del contratto all’annullamento dell’aggiudicazione argomentano, inoltre, a contrario tale conclusione dal rilievo che se l’art. 14, comma 2, decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190 ha espressamente escluso la risoluzione del contratto quale conseguenza dell’annullamento e della sospensione dell’aggiudicazione per i soli appalti relativi alle infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale (alle quali si applicano la legge 21 dicembre 2002, n. 443 ed il decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190), per i contratti aventi ad oggetto appalti diversi da questi ultimi la conseguenza dell’annullamento degli atti della procedura ad evidenza pubblica è proprio quella che la suddetta disposizione ha inteso scongiurare per gli appalti compresi nel suo ambito applicativo, e cioè la risoluzione (da intendersi, tuttavia, come espressione atecnicamente usata dal legislatore per indicare la perdita di efficacia del negozio giuridico).
Proseguendo nell’illustrazione del dibattito giurisprudenziale passato in rassegna, occorre dar conto, in estrema sintesi, delle critiche indirizzate a ciascuna delle soluzioni riferite e delle lacune riscontrabili a carico di ciascuna di esse, onde raccogliere tutte le relative indicazioni utili ad una diversa ricostruzione della fattispecie in termini maggiormente coerenti con l’ordinamento e, al contempo, satisfattivi di tutti gli interessi coinvolti nelle relative controversie.
All’indirizzo della teoria dell’annullabilità sono state rivolte le seguenti, principali obiezioni:
a) le norme sull’evidenza pubblica non sono poste solo nell’interesse della parte pubblica, ma anche, se non soprattutto, in quello delle imprese ad un accesso libero, competitivo e concorrenziale alla contrattazione con le amministrazioni;
b) la riserva alla sola pubblica amministrazione della legittimazione a domandare l’annullamento del contratto impedisce una tutela satisfattiva e piena dell’impresa ricorrente che ha ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione;
c) l’ascrizione dell’annullamento dell’aggiudicazione alle categorie dell’incapacità di contrattare (art. 1425) o dei vizi del consenso (art. 1427 c.c.) risulta sprovvista di sufficienti riscontri positivi e di sicure indicazioni argomentative: non si chiariscono i caratteri costituivi della presunta incapacità legale dell’amministrazione e non si precisa il tipo di vizio della volontà nella specie riscontrato.
La tesi della nullità è stata criticata (soprattutto) in quanto assegna ad un fatto sopravvenuto (l’annullamento dell’aggiudicazione) la valenza propria di un difetto genetico (che caratterizza lo schema dell’invalidità radicale) ed in quanto espone il contratto alle inaccettabili conseguenze dell’accertamento della sua nullità, senza limiti di prescrizione (art. 1422 c.c.), su iniziativa di chiunque vi abbia interesse ed alla sua rilevabilità d’ufficio (art. 1421 c.c.), con conseguente pregiudizio delle pregnanti esigenze di certezza dei rapporti giuridici imputabili alla pubblica amministrazione e di stabilità dei relativi negozi giuridici.
Le recenti ricostruzioni offerte dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, riassumibili, seppure logicamente giustificate da argomenti e presupposti (parzialmente) diversi, nella medesima enunciazione dell’inefficacia del contratto, trascurano, ad avviso del Collegio, la pur necessaria analisi della natura giuridica e della valenza sostanziale dell’aggiudicazione ed omettono l’indispensabile ascrizione della fattispecie ad una delle categorie civilistiche che autorizzano la classificazione della situazione in termini di inefficacia.
Quanto al primo aspetto, si osserva che la disamina delle conseguenze dell’annullamento dell’aggiudicazione non può prescindere dalla necessaria qualificazione di quest’ultima, dalla verifica della portata dei suoi effetti e dalla conseguente ricostruzione del vincolo che la lega al contratto: in mancanza di tale, presupposta ricostruzione dogmatica risulta, infatti, arduo, se non impossibile, pervenire ad una soluzione della questione in esame, coerente con il sistema.
In ordine al secondo profilo, deve rilevarsi che l’affermazione dell’inefficacia va sostenuta dall’individuazione della situazione giuridica che la presuppone e la costituisce: nell’ordinamento civile l’inefficacia non è, infatti, una categoria dogmatica ma fattuale, nel senso che indica la sola conseguenza della perdita degli effetti di un negozio giuridico in alcune fattispecie tipicamente previste (nullità, annullabilità o simulazione del negozio giuridico; risoluzione o rescissione del contratto; verificazione della condizione risolutiva od omessa verificazione di quella sospensiva, scadenza del termine) e non anche la causa dell’originaria o sopravvenuta inidoneità del negozio a produrre i suoi effetti (legali e negoziali).
Occorre, quindi, ascrivere la fattispecie considerata ad uno dei predetti schemi, al fine di giustificare l’affermazione dell’inefficacia del contratto, principiando la ricostruzione qui prospettata dalla Sezione con l’esame (logicamente antecedente) della valenza dell’aggiudicazione.
La natura giuridica dell’aggiudicazione si presta ad essere decifrata secondo un duplice schema: a) l’atto ha solo valenza provvedimentale (come ritenuto da Cons. Giust. Amm., 20 luglio 1999, n. 365; Cons. St., sez. V, 25 maggio 1998, n. 677; T.A.R. Sicilia, Catania, 10 settembre 1996, n. 1603); b) l’atto ha anche valore negoziale (come ritenuto da Cons. St., sez. IV, 7 settembre 2000, n. 4722; VI, 14 gennaio 2000, n. 244; sez. V, 19 maggio 1998, n. 633).
Secondo la prima impostazione, l’aggiudicazione è il provvedimento conclusivo della procedura ad evidenza pubblica, con il quale l’amministrazione aggiudicatrice si limita a selezionare l’impresa con la quale stipulerà, in seguito, il contratto d’appalto, senza manifestare, con quello, alcuna volontà negoziale.
La seconda qualificazione dell’aggiudicazione va precisata e chiarita nei termini di seguito esposti.
La procedura ad evidenza pubblica serve a regolare la formazione del consenso della pubblica amministrazione (che, a differenza dei soggetti privati, non è libera di negoziare gli appalti pubblici con chi vuole ed alle condizioni che vuole) sia con riguardo al contenuto dell’accordo, sia con riguardo all’identità del contraente.
Le varie fasi della sequenza procedimentale vanno, allora, classificate, oltre che in termini pubblicistici, secondo lo schema privatistico della formazione del consenso contrattuale.
In coerenza con tali coordinate, il bando deve essere, quindi, qualificato come invito ad offrire (e, in particolare, come atto prenegoziale che stimola l’iniziativa delle imprese interessate a contrattare e che contiene alcuni elementi del futuro contratto), l’offerta come proposta contrattuale (e, in particolare, come manifestazione della volontà dell’impresa di contrarre alle condizioni offerte) e, infine, l’aggiudicazione come accettazione della proposta (e, in particolare, come manifestazione della volontà dell’amministrazione di affidare l’appalto all’impresa selezionata e di vincolarsi al rispetto delle condizioni dalla stessa proposte, come integrate da quelle contenute nel bando o nel capitolato).
Secondo questa ricostruzione, l’aggiudicazione presenta una duplice natura, amministrativa e negoziale, nel senso che si pone, al contempo, come provvedimento conclusivo della procedura di selezione del contraente privato e di atto giuridico con il quale l’amministrazione formalizza la propria volontà di contrarre con l’impresa scelta ed alle condizioni dalla stessa offerte.
La duplice natura dell’atto implica anche la coesistenza in esso degli effetti dispositivi propri degli atti pubblici e di quelli negoziali tipici degli atti privati.
La diversità della valenza sostanziale ascrivibile a ciascuna delle nature riscontrate non impedisce, tuttavia, di riconoscere un legame indissolubile tra gli effetti relativamente prodotti, sicché la regola simul stabunt simul cadent va applicata, prima che al rapporto tra aggiudicazione e contratto, agli effetti pubblicistici e privatistici rintracciabili nel medesimo atto di aggiudicazione.
A tale impostazione consegue, inoltre, che l’accordo contrattuale si forma al momento dell’adozione dell’aggiudicazione e che l’eventuale stipula, separata e successiva, del contratto acquista valenza meramente riproduttiva del consenso già manifestato dalle parti e cristallizzato, in tutti i suoi elementi, nell’atto conclusivo della procedura ad evidenza pubblica.
La qualificazione dell’aggiudicazione come atto (anche) negoziale si fonda, peraltro, oltre che sul rilievo della concentrazione in quel provvedimento di tutti gli elementi dell’accordo (sicché non pare ammissibile una successiva, diversa regolamentazione del rapporto che, quand’anche convenuta dalle parti, risulterebbe affetta da invalidità radicale), anche sul dato positivo offerto dall’art. 16, comma 4, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (ancora in vigore per le parti non tacitamente abrogate da disposizioni successive incompatibili) che, laddove sancisce l’equivalenza dell’aggiudicazione “per ogni effetto legale” al contratto, indica chiaramente la valenza negoziale della prima e la sua idoneità a costituire, da sola, il vincolo contrattuale con l’appaltatore selezionato (di talché l’eventuale sottoscrizione del documento negoziale, quand’anche prescritta dalla legge, varrebbe come mera conferma di obbligazioni già sorte per effetto diretto dell’aggiudicazione).
In esito a tale catalogazione dogmatica dell’aggiudicazione, occorre verificarne le conseguenze di diritto in ordine al tema della decisione.
Per il rilevato vincolo logico ed ontologico che lega inscindibilmente la valenza pubblicistica e quella privatistica ascrivibili all’aggiudicazione, l’annullamento giurisdizionale di quest’ultima, che opera, com’è noto, ex tunc, ne elimina gli effetti fin dalla sua adozione, non solo con riferimento al suo contenuto propriamente provvedimentale, ma anche con riguardo a quello tipicamente negoziale.
Ne consegue, ancora, che la demolizione dell’atto con cui l’amministrazione ha espresso la sua volontà negoziale, priva il relativo negozio giuridico dell’elemento essenziale costituito dall’accordo, che deve, quindi, ritenersi insussistente, per effetto dell’elisione dell’atto generativo del consenso di una delle parti.
Tale conclusione vale anche per i casi nei quali una disposizione positiva impone la stipula del contratto, quale documento separato dall’aggiudicazione, posto che, in questi casi, la sottoscrizione dell’atto negoziale vale come riproduzione dell’accordo già formatosi per effetto dell’incontro delle volontà delle parti nella riferita sequenza bando – offerta – aggiudicazione.
La conseguenza di tale impostazione è che il contratto è nullo per mancanza dell’accordo ai sensi del combinato disposto degli artt. 1428, comma 2, e 1325, comma 1, n. 1) cod. civ., come, peraltro, recentemente ritenuto dalla Corte di Cassazione (Cass. Civ., 9 gennaio 2002, n. 193).
A ben vedere, infatti, l’annullamento dell’aggiudicazione non incide sul consenso, nel senso che ne rivela un vizio, ma elimina radicalmente l’atto con il quale è stato manifestata la volontà, sicché la sua conseguenza più immediata ed evidente va ravvisata proprio nella demolizione, con efficacia retroattiva, di una parte essenziale dell’accordo e, quindi, nell’accertamento (anche se non diretto) della mancanza di quest’ultimo.
Non pare, peraltro, che le obiezioni comunemente formulate all’indirizzo della tesi della nullità valgano a smentire o confutare la correttezza della relativa impostazione teorica fin qui sostenuta.
La critica che si fonda sulla natura sopravvenuta e non genetica del vizio si basa, infatti, sull’erroneo presupposto che l’annullamento dell’aggiudicazione incida sul rapporto e non sul suo atto giuridico costitutivo.
Senonché ogni vizio relativo alla corretta formazione della volontà negoziale o addirittura alla sua esistenza (ivi compresi quelli, di minore gravità, che determinano l’annullabilità del contratto) va riferito al momento genetico del rapporto e non alla sua fase esecutiva e funzionale.
Possono qualificarsi sopravvenute, in particolare, solo quelle vicende che non riguardano direttamente la validità del negozio giuridico ma la sua attuazione (inadempimento, eccessiva onerosità, impossibilità, verificazione della condizione risolutiva), ma non anche quelle che, ancorché accertate successivamente, attengono proprio al rispetto delle regole che presiedono alla valida conclusione del contratto (come quelle relative all’esistenza dell’accordo).
Non solo, ma l’efficacia retroattiva dell’annullamento giurisdizionale dell’atto impugnato impone di riferire l’efficacia della statuizione demolitoria al momento genetico del rapporto, e cioè alla conclusione del negozio, e non alla sua fase esecutiva, e cioè alla corretta attuazione delle obbligazioni od al funzionamento della causa (del tutto estranee agli effetti della caducazione dell’aggiudicazione).
Quanto alla critica che individua nelle caratteristiche tipiche dell’azione di nullità (legittimazione estesa a tutti i soggetti che hanno interesse, imprescrittibilità, rilevabilità d’ufficio del vizio, natura dichiarativa della relativa pronuncia) la ragione principalmente ostativa all’accoglimento della relativa tesi, si deve osservare che, anche prescindendo dal rilievo che le conseguenze di fatto di una teoria (quand’anche gravi) non valgono ad inficiarne la correttezza, i riferiti caratteri dell’azione in questione vanno coordinati con le regole che presidiano il giudizio amministrativo.
Quando, infatti, una delle parti contrattuali manifesta e cristallizza il proprio consenso in un atto che riveste anche natura provvedimentale (come nella fattispecie in esame), l’accertamento della sua illegalità ed il suo conseguente annullamento soggiacciono alle regole tipiche del processo impugnatorio.
Ne consegue che l’aggiudicazione deve essere impugnata nel prescritto termine di decadenza e che, in difetto di tale tempestiva iniziativa giurisdizionale, resta preclusa la proponibilità dell’azione di nullità.
La natura provvedimentale dell’aggiudicazione impedisce, peraltro, al giudice di accertare d’ufficio la nullità del contratto costituita dall’illegittimità del provvedimento finale della procedura di selezione del contraente (risolvendosi l’esercizio di quel potere nell’inam-missibile sindacato ufficioso della legittimità di un atto amministrativo).
La legittimazione a far valere la nullità va, inoltre, riconosciuta alle sole parti che hanno impugnato l’aggiudicazione, quali unici soggetti che hanno manifestato, in concreto, interesse, invocando la rimozione dell’atto invalidante, alla declaratoria della relativa invalidità.
Né varrebbe obiettare che le limitazioni appena segnalate finiscono per snaturare l’azione di nullità e confliggono con gli interessi ad essa sottesi, atteso che le pertinenti esigenze di tutela di interessi indisponibili vanno coordinate con quelle, altrettanto rilevanti, di stabilità degli atti amministrativi e di certezza dei relativi rapporti giuridici.
Ne consegue che la riferita, necessaria pregiudizialità dell’annullamento dell’aggiudicazione, ai fini della dichiarazione della nullità del contratto su domanda della sola parte che ha proposto il ricorso, risulta imposta dalle esigenze di rispetto delle regole del giudizio amministrativo impugnatorio e che, di contro, l’applicazione alla fattispecie in esame dell’intera disciplina civilistica dell’azione di nullità si risolverebbe nella inammissibile disapplicazione delle regole che presiedono, a tutela dei pertinenti interessi pubblici, alla tutela giurisdizionale degli interessi lesi da provvedimenti amministrativi (tale essendo, oltre che un atto negoziale, l’aggiudicazione).
Resta da chiarire che, se è vero che il contratto nullo è radicalmente inidoneo a produrre effetti giuridici (quod nullum est nullum producit effectum), è anche vero che la (voluta) inerzia delle parti nell’invocare l’accertamento della relativa invalidità del negozio e la sua spontanea attuazione non impediscono, pur in assenza delle condizioni della conferma, la regolare esecuzione delle pattuizioni ivi contenute, con conseguente salvezza dell’interesse pubblico alla realizzazione dell’appalto, nei casi in cui non sia ammessa la sostituzione dell’appaltatore.
Ovviamente l’ipotesi ricostruttiva sopra delineata postula la qualificazione dell’aggiudicazione come atto (anche) negoziale; ove, di contro, dovesse negarsi tale natura e riconoscersi la sua sola valenza provvedimentale, si dovrebbe ricostruire la fattispecie in termini diversi.
Deve, al riguardo, avvertirsi che la prospettata classificazione dell’aggiudicazione come atto negoziale è stata compiuta secondo parametri di valutazione generali e che, invece, l’indagine in concreto della natura dell’atto potrebbe condurre a conclusioni diverse: il regolamento di gara (bando o capitolato) potrebbe precisare che l’aggiudicazione non impegna l’amministrazione alla stipula del contratto (con ciò escludendo la sua valenza negoziale) o una disposizione normativa potrebbe regolare il rapporto tra aggiudicazione e contratto nel senso di negare chiaramente l’equivalenza tra i due atti.
In questi ultimi casi, l’aggiudicazione riveste solo natura provvedimentale, mentre il contratto contiene e riceve le uniche dichiarazioni negoziali delle parti.
Resta, tuttavia, anche in tale situazione, quel vincolo inscindibile tra fase pubblicistica (nella quale si seleziona il contraente) e fase privatistica (nella quale si forma l’accordo e si costituisce il vincolo negoziale) che potrebbe autorizzare le medesime conclusioni sulla nullità del contratto (anche se qui manca quell’effetto diretto di eliminazione dell’atto negoziale).
Si potrebbe, altrimenti, configurare l’aggiudicazione come una condizione di diritto del contratto di appalto, con la conseguenza che la sua eliminazione (e, quindi, il suo venir meno) determina la sopravvenuta inefficacia del negozio per l’intervenuto difetto di una situazione giuridica (la validità e l’efficacia dell’aggiudicazione), la cui persistenza ne condiziona (con valenza risolutiva) l’idoneità a produrre i suoi effetti tipici.
Come si vede, il quadro delle soluzioni configurate dalla giurisprudenza, ordinaria ed amministrativa, si rivela composito ed articolato e, perciò, privo di quella necessaria coerenza e di quell’indispensabile sistematicità che, sole, in una fattispecie così rilevante, assicurano la certezza dei rapporti giuridici, l’uniformità delle relative regole di giudizio e, in definitiva, l’effettività della tutela giurisdizionale.
Ne consegue la necessità dell’indicazione di parametri certi e della ricostruzione dogmatica della fattispecie in termini coerenti con il sistema positivo.
Valuterà, quindi, l’Adunanza Plenaria in quale schema privatistico ascrivere l’inefficacia del contratto d’appalto (non risultando, in definitiva, controverso tale effetto) quale conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione.
5.- Anche con riguardo alla questione di giurisdizione si condividono le considerazioni esposte dalla Sezione IV, nella sua ordinanza di rimessione n. 3355 del 21 maggio 2004.
Riportandosi, dunque, alle argomentazioni contenute in tale pronuncia il Collegio rileva incidentalmente come sulla materia del contendere non sembra aver influito la sopravvenuta sentenza n. 204/2004 della Corte Costituzionale che, nel ridefinire il quadro della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non ha tuttavia inciso sulle specifiche previsioni normative di cui agli artt. 6 e 7 della legge n. 205/2000, che regolano il riparto di giurisdizione in materia di contratti della pubblica amministrazione.
Come puntualmente premesso dalla IV Sezione del Consiglio di Stato, e come del resto risulta dallo stesso ordine in cui vengono articolati nel presente giudizio i motivi di appello, la questione di giurisdizione è logicamente successiva a quelle fin qui esaminate in quanto la sua risoluzione è direttamente condizionata dalla soluzione offerta al precedente quesito, relativo alla sorte del contratto stipulato in esito ad una aggiudicazione illegittima (ed annullata).
La questione va posta, quindi, con riferimento a ciascuna delle soluzioni ipotizzate al precedente quesito nonché con riguardo al tipo di domande al riguardo proponibili.
Si deve, allora, distinguere:
a) se la soluzione preferita postula la pronuncia di decisioni costitutive (annullamento, risoluzione del contratto e, forse, inefficacia sopravvenuta), si rivela necessaria la proposizione di domande intese a conseguire una statuizione che elimini gli effetti del contratto e risulta, al contempo, precluso ogni apprezzamento incidentale della sua inefficacia;
b) se si ritiene, viceversa, che l’inefficacia del contratto si produca automaticamente (come nei casi della nullità o della caducazione automatica), deve concludersi che tale conseguenza va accertata con pronunce dichiarative e che può anche essere accertata in via incidentale.
Ne consegue che, nell’ipotesi sub a), occorre verificare se l’ambito di giurisdizione esclusiva disegnato dall’art. 6 L. n. 205/2000, letteralmente circoscritto alle controversie aventi ad oggetto le procedure di affidamento di appalti pubblici, possa estendersi, in via interpretativa, fino a comprendere anche il sindacato diretto dell’invalidità e dell’inefficacia del contratto e, soprattutto, la potestà di adottare pronunce costitutive (quali l’annullamento o la risoluzione).
La giurisprudenza si è finora occupata, a ben vedere, della questione generale della spettanza al giudice amministrativo della potestà cognitiva dell’incidenza dell’annullamento degli atti della procedura ad evidenza pubblica sulla validità e sull’efficacia del contratto affermandola sulla base dell’apprezzamento delle esigenze di concentrazione in capo ad un’unica autorità giurisdizionale dei poteri attinenti alla delibazione della medesima vicenda sostanziale e della valorizzazione del carattere esclusivo della giurisdizione in materia (cfr. Cons. St. sez. VI, n. 2332/03; sez. VI, n. 2992/03; sez. IV, n. 6666/03 cit; Cons. Giust. Amm., 31 maggio 2002, n. 276; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 28 febbraio 2001, n. 746) – ma ha omesso un esame diretto e puntuale della sussistenza della competenza giurisdizionale nell’esercizio di un sindacato diretto (e non incidentale) della validità e dell’efficacia del contratto e nella conseguente adozione di pronunce costitutive.
Deve rilevarsi, al riguardo che, ad avviso del Collegio, l’attribuzione delle controversie relative alle procedure di affidamento degli appalti pubblici alla giurisdizione esclusiva amministrativa risulterebbe del tutto inutile se non si intendesse tale ambito di competenza come comprensivo anche delle questioni relative alla validità ed all’efficacia del contratto (che, sole, paiono concernere diritti soggettivi), che l’esclusione di queste ultime dal novero di quelle conoscibili dal giudice amministrativo sulla base dell’art. 6 legge n. 205 del 2000 determinerebbe l’inaccettabile conseguenza di costringere il ricorrente ad un faticoso, farraginoso e dispendioso itinerario giurisdizionale, dal giudice amministrativo (per l’annullamento dell’aggiudicazione), a quello ordinario (per l’annullamento o la risoluzione del contratto) e, forse, di nuovo a quello amministrativo (per il risarcimento dei danni), per ottenere giustizia di un’unica vicenda sostanziale, con evidente vulnus delle esigenze di economicità, effettività e semplificazione e della tutela giurisdizionale, e, da ultimo, che l’inscindibilità del vincolo che collega gli aspetti pubblicistici e quelli privatistici della contrattazione avente ad oggetti gli appalti pubblici impedisce di giudicare il sindacato diretto della validità e dell’efficacia del contratto estraneo ai confini della giurisdizione esclusiva attinente alla presupposta procedura di affidamento.
Il Collegio non ignora che la formulazione letterale dell’art. 6 l. n. 205/2000, là dove limita l’ambito di giurisdizione esclusiva ai soli provvedimenti della procedura di affidamento degli appalti (con conseguente, implicita, esclusione della cognizione di tutti gli atti successivi alla sua conclusione – ivi compreso il contratto), costituisce un rilevante ostacolo alle conclusioni sopra esposte, ma reputa che il riferito dato testuale non impedisce la lettura della disposizione che, in esito ad un’esegesi logico-sistematica del suo ambito applicativo (condotta in ossequio ai canoni ermeneutici sopra indicati), assegna al giudice amministrativo la potestà di conoscere in via diretta le questioni relative alla validità ed all’efficacia del contatto d’appalto, siccome direttamente riferibili all’illegittimità della presupposta aggiudicazione, e di pronunciare le relative statuizioni costitutive (come l’annullamento).
Resta, in ogni caso, esclusa, anche accedendo all’interpretazione estensiva appena esposta, la possibilità di pronunciare la risoluzione del contratto (od altre statuizioni costitutive prive di una connessione diretta con la validità dell’aggiudicazione) che, postulando l’accertamento di vicende relative all’attuazione del rapporto e non immediatamente ascrivibili alla legittimità della procedura di affidamento, risultano senz’altro riservate alla giurisdizione ordinaria.
In merito alla fattispecie indicata sub b), occorre ulteriormente distinguere due diverse situazioni processuali:
1) è stata presentata una domanda diretta ad ottenere una pronuncia dichiarativa;
2) non è stata presentata, ma è stata formulata una domanda di reintegrazione in forma specifica che postula l’accertamento incidentale dell’inefficacia del vincolo contrattuale (che costituisce il presupposto indefettibile dell’invocata sostituzione del contraente).
Nel caso sub 1) valgono le stesse considerazioni svolte a proposito delle pronunce costitutive – non ravvisandosi, al riguardo, differenze significative, quanto alla giurisdizione, tra le ipotesi di pronunce dichiarative e quelle di pronunce costitutive.
Nella situazione descritta sub 2) non pare, invece, dubbio, ad avviso del Collegio, che il giudice amministrativo sia dotato della relativa competenza giurisdizionale, anche se, occorre precisare, non ai sensi dell’art. 6, ma dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000.
A ben vedere, infatti, a fronte di una domanda di reintegrazione in forma specifica ed in assenza di una domanda intesa ad ottenere la declaratoria della nullità o, comunque, dell’inefficacia del contratto, è proprio (e solo) la norma che attribuisce al giudice amministrativo una potestà cognitiva piena in materia di risarcimento del danno, comprensiva, come tale, di ogni questione incidentale che rileva ai fini dello scrutinio della fondatezza della pretesa risarcitoria, a giustificare l’affermazione della giurisdizione amministrativa in ordine all’accertamento di tutte le situazioni di diritto (ivi compresa l’inefficacia del contratto d’appalto) implicate dalla domanda di risarcimento del danno.
Si rimette, quindi, alle valutazioni dell’Adunanza Plenaria l’ulteriore questione relativa all’individuazione dei limiti in cui sussista la giurisdizione amministrativa in merito all’accertamento, diretto e incidentale, delle questioni relative alla validità ed all’efficacia del contratto d’appalto ed alla pronuncia delle relative decisioni (costitutive e dichiarative).
In tale contesto potrà vagliarsi, altresì, l’eventuale fondatezza del vizio di ultrapetizione da cui sarebbero inficiate le sentenze impugnate, secondo la prospettazione della parte appellante.
6.- Per mero scrupolo d’indagine non sembra superfluo, a questo punto, accennare ad altri tre quesiti, la cui risoluzione può offrire utili spunti per una completa definizione della vicenda sottoposta all’esame del Collegio, anche se soltanto indirettamente ed in via eventuale essi si attagliano alla fattispecie de qua:
1) quello concernente l’eventuale salvezza, ai sensi degli artt. 23 e 25 cod. civ., dei diritti dell’impresa che, in base al provvedimento annullato e in situazione di buona fede, sia risultata aggiudicataria della gara ed abbia poi stipulato il relativo contratto, a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della determinazione di aggiudicazione della gara;
2) quello riguardante il dubbio se la devoluzione al giudice amministrativo di tutte le questioni relative al risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica -prevista dall’art. 7, comma 3, primo periodo della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 come modificato dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205- comporti anche la possibilità di una condanna dell’Amministrazione ad un facere specifico e, quindi, all’aggiudicazione dell’appalto all’impresa illegittimamente pretermessa;
3) quello, infine, che si riferisce all’individuazione del criterio del limite dell’eccessiva onerosità (art. 2058 cod. civ.), al fine della reintegrazione in forma specifica del danno ingiusto causato dalla Pubblica Amministrazione mediante l’illegittima aggiudicazione dell’appalto.
Anche qui soccorrono le condivise argomentazioni -che si richiamano integralmente- elaborate nell’ordinanza della Sezione IV, n. 3355 del 21 maggio 2004.
6.1.- Circa la questione di cui sub 1), si è osservato che in alcune decisioni (Cons. St., sez. VI n.2992/03; sez. IV, n.6666/03, cit.) si è, in particolare, sancita l’applicabilità dei medesimi principi alla vicenda considerata, sulla base del rilievo dell’identità di ratio e della qualificazione della pubblica amministrazione come persona giuridica ai sensi dell’art.11 cod. civile.
Occorre preliminarmente avvertire che l’applicazione alla fattispecie in esame delle disposizioni menzionate consente di distinguere le conseguenze dell’invalidità dell’aggiudicazione nella sfera giuridica del contraente, con riferimento alla natura del vizio riscontrato ed alla partecipazione alla violazione del concorrente selezionato.
Tale possibilità di discernimento degli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione nella sfera giuridica dei terzi soddisfa, a ben vedere, pregnanti esigenze di equità sostanziale.
Basti, al riguardo, pensare alla differenza che corre tra l’ipotesi in cui l’aggiudicazione venga annullata in quanto l’impresa selezionata avrebbe dovuto essere esclusa (in quanto priva dei requisiti di partecipazione o di qualificazione) e quella in cui l’illegittimità accertata consiste nell’omessa sottoscrizione del verbale delle operazioni della commissione da parte di uno dei componenti: mentre, nel primo caso, risulta agevolmente individuabile un concorso consapevole e colposo dell’impresa concorrente alla violazione, nel secondo, di contro, quest’ultima risulta del tutto estranea ed incolpevole nella determinazione del vizio (ad essa neanche indirettamente ascrivibile).
Ne consegue che l’affermazione dell’inopponibilità al contraente in buona fede delle conseguenze sostanziali di un vizio dell’aggiudicazione estraneo alla sua sfera di controllo e di conoscenza permette di tutelare adeguatamente la posizione soggettiva dell’impresa illegittimamente selezionata che risulterebbe, diversamente opinando, esposta essa stessa al pregiudizio patrimoniale derivato dall’annullamento degli atti di gara e, quindi, danneggiata (al pari dell’impresa ricorrente) dall’attività illegale posta in essere dall’amministrazione aggiudicatrice.
Tuttavia, l’applicabilità degli artt. 23 e 25 c.c. non appare così sicura (come ritenuto nelle decisioni menzionate) e potrebbe essere esclusa sulla base dei seguenti rilievi, l’apprezzamento della cui fondatezza si rimette alla valutazione dell’Adunanza Plenaria.
Occorre, innanzitutto, verificare se le disposizioni richiamate, espressamente dettate per regolare gli effetti delle delibere di persone giuridiche private e, quindi, non direttamente applicabili a soggetti diversi, esprimano o meno un principio generale che ne consenta l’estensione anche ai provvedimenti della pubblica amministrazione, come persona giuridica pubblica.
Si deve, poi, valutare se il contraente dell’amministrazione (che è parte del rapporto generato dall’aggiudicazione) possa o meno considerarsi terzo, posto che solo tale ultima qualificazione autorizza l’applicazione della norma che sancisce l’inopponibilità dell’annullamento delle delibere viziate.
Va, inoltre, risolta la questione relativa all’applicabilità di una norma che disciplina gli effetti di delibere di organi collegiali a provvedimenti amministrativi adottati da funzionari o dirigenti e, quindi, privi del carattere della collegialità.
Merita un chiarimento, da ultimo, la questione relativa alla configurabilità o meno della buona fede (come condizione psicologica presunta), nel caso in cui il ricorso contro l’aggiudicazione sia stato notificato all’impresa aggiudicataria prima della stipula del contratto.
6.2.- E’ opportuno, quindi, esaminare la questione di cui sub 2), dell’ammissibilità nel giudizio amministrativo ordinario di una condanna ad un facere e, in particolare, all’eventuale aggiudicazione dell’appalto all’impresa ricorrente.
Il problema, tradizionalmente risolto in senso negativo (cfr. ex multis Cons. St., sez.V, 18 maggio 1998, n.612) sulla base del rilievo ostativo della riserva di amministrazione che impedisce la sostituzione del giudice in valutazioni di esclusiva spettanza dei pubblici poteri, presenta profili inediti in seguito alla recente attribuzione al giudice amministrativo, da parte dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000 (che ha modificato l’art. 7 della legge 6 dicembre 1971, n.1034), del potere di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno, non solo per equivalente ma anche mediante reintegrazione in forma specifica.
Tale ultima tecnica di riparazione del danno pare, infatti, presupporre la possibilità che il danno patito in conseguenza di un’attività amministrativa illegittima venga risarcito con l’assegnazione al ricorrente, che postula spesso un’ulteriore intermediazione provvedimentale, del medesimo bene della vita sacrificato o danneggiato dall’attività illegale.
Si deve premettere, in via generale, che la tutela risarcitoria, nei cui confini si iscrive la reintegrazione in forma specifica, serve ad assicurare al danneggiato la restitutio in integrum del suo patrimonio e, quindi, a garantire l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli dell’attività illecita ascritta al soggetto responsabile.
La riparazione delle conseguenze dannose viene garantita dall’ordinamento mediante due modelli di tutela, tra loro alternativi: quello del risarcimento per equivalente, che riconosce al danneggiato il diritto ad una somma di denaro equivalente al valore della lesione patrimoniale patita e quello della reintegrazione in forma specifica, che attribuisce al soggetto passivo la medesima utilità, giuridica od economica, sacrificata o danneggiata dalla condotta illecita.
Occorre, al riguardo, precisare che quest’ultima modalità ripristinatoria postula, evidentemente, la preesistenza nel patrimonio del danneggiato della situazione soggettiva della quale si chiede la restituzione in forma specifica, sicchè l’ammissibilità di tale tecnica di risarcimento va coordinata con la tradizionale distinzione degli interessi legittimi nella duplice categoria di interessi oppositivi e pretensivi.
Ora, mentre per i primi (così come per i diritti soggettivi, nelle fattispecie di giurisdizione esclusiva), che postulano la titolarità in capo all’interessato del bene della vita al quale è collegato l’interesse legittimo leso, risulta configurabile la reintegrazione in forma specifica, trattandosi di restituire al danneggiato la medesima utilità pregiudicata dall’attività amministrativa illegittima, per i secondi, che presuppongono, invece, la mancanza del bene della vita al conseguimento del quale l’interesse legittimo si pone come strumentale, appare più dubbia l’ammissibilità dell’assegnazione di una posizione di vantaggio che l’interessato non aveva ancora acquisito nella sua sfera patrimoniale e che, quindi, non poteva essere sacrificata dall’azione amministrativa.
In particolare, all’indirizzo del quesito dell’ammissibilità della tecnica riparatoria in esame per la lesione di interessi pretensivi possono ipotizzarsi tre risposte:
1) non è mai possibile accordare tale tipo di tutela – che si risolverebbe in un’inammissibile sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione;
2) è sempre possibile – in quanto strumento di tutela ammesso dal legislatore in via generale per la lesione degli interessi legittimi;
3) è possibile solo nei riguardi di attività amministrativa vincolata, quando l’esito, cioè, dell’ulteriore azione provvedimentale risulta pronosticabile sulla base di parametri certi e di criteri matematici (come, ad esempio, l’aggiudicazione alla seconda classificata di una procedura di gara indetta con il criterio del massimo ribasso, quando l’impresa vincitrice avrebbe dovuto essere esclusa).
Le prime due soluzioni vanno rifiutate in quanto, per il carattere assoluto delle rispettive conclusioni, impediscono di discernere, in concreto, i presupposti e gli esiti dell’attività amministrativa incisa dalla condanna reintegratoria.
Anche la terza, tuttavia, nonostante lo sforzo di conformare le relative conclusioni alla duplice esigenza di rispetto della sfera di competenze riservata all’amministrazione e di garanzia dell’utilità e dell’efficacia della tecnica risarcitoria in esame, si presta a rilievi critici.
A ben vedere, innanzitutto, l’estensione della forma di risarcimento in esame anche agli interessi legittimi pretensivi si risolve nella surrettizia introduzione nel nostro sistema della c.d. azione di adempimento (la vertglichtungsklage dell’ordinamento giuridico tedesco), allo stato sconosciuta al nostro sistema positivo di tutela delle posizioni soggettive connesse all’esercizio delle funzioni amministrative.
La condanna dell’amministrazione all’adozione di un provvedimento favorevole al ricorrente postula, infatti, logicamente la configurabilità in capo al privato di un vero e proprio diritto a quell’atto ed in capo all’amministrazione un vero e proprio obbligo alla soddisfazione di quella pretesa.
Senonché la ricostruzione dei rapporti tra cittadino ed amministrazione in termini di rapporto obbligatorio, anche con riguardo alle tecniche di tutela giurisdizionale, esigerebbe una precisa ed univoca innovazione normativa, che la mera previsione della possibilità di risarcire il danno nelle forme della reintegrazione in forma specifica non risulta idonea ad introdurre, e non si presta ad essere validamente sostenuta senza un adeguato e puntuale riscontro positivo.
La modalità risarcitoria della reintegrazione in forma specifica, a ben vedere, non introduce una forma generalizzata di azione di adempimento (che avrebbe richiesto una coerente qualificazione positiva del relativo strumento di tutela ed una maggiore chiarezza nei suoi contenuti), ma si limita a consentire una forma ripristinatoria della posizione soggettiva tutelata, quando questa risulti compatibile con la natura di quest’ultima, come nei casi di lesione di interessi oppositivi o di diritti soggettivi (nelle controversie di giurisdizione esclusiva).
Se si ammettesse, in definitiva, la tecnica riparatoria in esame per la lesione degli interessi pretensivi si finirebbe per accordare al ricorrente un beneficio superiore a quello che egli avrebbe avuto se non si fosse svolta l’attività lesiva; e ciò in contrasto con tutti i principi che presiedono al risarcimento del danno.
Quanto alle forme di risarcimento dei danni cagionati dall’attività amministrativa lesiva di interessi pretensivi, occorre, allora, svolgere le seguenti considerazioni.
La forma più immediata e, probabilmente, satisfattiva degli interessi pretensivi è data dal giudicato demolitorio-conformativo che, rimuovendo l’attività amministrativa illegittima ed imponendo la sua rinnovazione nel rispetto della legalità, assicura all’interessato la soddisfazione più pregnante della sua posizione soggettiva, così come ritenuto da quell’indirizzo giurisprudenziale (Cons. St., sez. VI, 18 dicembre 2001, n.6281) che reputa implicita nella domanda di annullamento dell’atto impugnato quella di reintegrazione in forma specifica, per mezzo della riedizione dell’attività amministrativa giudicata illegittima.
L’effetto conformativo insito nella statuizione di annullamento offre, infatti, al ricorrente l’occasione di tutela maggiormente efficace ed utile del suo interesse legittimo, potendo servire, con la semplice rinnovazione dell’attività giudicata illegittima, ad assicurargli in via sostanziale quel bene della vita al quale egli aspira.
Se, tuttavia, l’interessato resta privo di soddisfazione anche in esito alla ripetizione del procedimento, potrà attivare lo strumento di tutela costituito dal ricorso per esecuzione del giudicato che, assegnando al giudice potestà valutative di merito e poteri di sostituzione dell’amministrazione inadempiente, si rivela la fase processuale più idonea a garantire quella reintegrazione in forma specifica, anche degli interessi pretensivi, che, nella sede ordinaria di cognizione, resta preclusa dai rilievi sopra formulati.
Lo strumento di tutela in questione va ricondotto, in definitiva, nell’ambito dell’attuazione del giudicato, se inteso come finalizzato a garantire il rilascio del provvedimento favorevole (nel caso di specie: l’aggiudicazione dell’appalto), ed in quello della cognizione ordinaria, se inteso come funzionale a garantire l’utilità (minore) dell’effetto conformativo nell’attività rinnovatoria riservata all’amministrazione.
Secondo la ricostruzione prospettata, il risarcimento per equivalente, che, per la lesione degli interessi legittimi pretensivi, si rivela sussidiario e residuale rispetto alla reintegrazione in forma specifica, risulta, invece, configurabile solo nei casi in cui il conseguimento del bene della vita non è più possibile mediante la riedizione dell’attività provvedimentale lesiva (ad esempio, perché l’appalto è stato integralmente eseguito) o nelle ipotesi in cui il mero ritardo nel rilascio del provvedimento favorevole (per esempio, di una concessione edilizia o di un’autorizzazione commerciale) ha prodotto, di per sé, un pregiudizio patrimoniale (non eliminabile dalla sola, successiva adozione dell’atto ampliativo).
Ciò che la Sezione reputa di escludere, in sintesi, è l’ammissibilità, ad ordinamento vigente, di una condanna dell’amministrazione ad un facere, da ritenersi circoscritta alle limitate ipotesi del rito speciale sull’accesso ai documenti amministrativi (art. 25, comma 6, legge 7 agosto 1990, n. 241) e sul silenzio (art. 21-bis, comma 2, legge n. 1034/1971).
Chiarirà, in definitiva, l’Adunanza Plenaria se sia ammissibile la condanna della pubblica amministrazione all’adozione di un determinato provvedimento e, in caso di risposta affermativa a tale quesito, a quali condizioni possa pronunciarsi un ordine siffatto.
6.3.- Resta ancora da precisare, in ordine al quesito sub 3), secondo quali parametri deve essere valutato, nel giudizio ordinario (se si ammette ivi la condanna dell’amministrazione ad un facere) o in quello di attuazione del giudicato (se si ammette, come ritiene la Sezione, il cumulo delle relative azioni), il limite stabilito dall’art. 2058 cod. civ. alla praticabilità della reintegrazione in forma specifica e, in particolare, se l’eccessiva onerosità per l’amministrazione della sostituzione dell’appaltatore in corso di rapporto debba essere valutata sulla base delle sole allegazioni della parte committente e dell’interesse pubblico alla corretta esecuzione dell’appalto (come ritenuto da T.A.R. del Lazio, sez. III ter, 13 febbraio 2003, n.962), ovvero se tali apprezzamenti competano al sindacato discrezionale del giudice (svincolato, come tale, dalle – altrimenti stringenti – valutazioni espresse dall’amministrazione interessata) e se debbano comprendere tutti gli interessi coinvolti (e non solo quello pubblico).
7.- Quanto sopra premesso, nel deferire il giudizio all’Adunanza Plenaria, si riassumono di seguito le questioni in precedenza illustrate:
a) la sorte del contratto d’appalto stipulato sulla base di un’aggiudicazione annullata;
b) la sussistenza della giurisdizione amministrativa, con riferimento alle domande ed al corrispondente tipo di decisioni al riguardo proponibili;
c) l’applicabilità alla fattispecie considerata degli artt. 23 e 25 cod. civ.;
d) l’ammissibilità, nel giudizio di cognizione, della condanna della pubblica amministrazione al rilascio di un provvedimento favorevole al ricorrente;
e) i presupposti di applicabilità dell’art. 2058 cod. civile.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione V, non definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe che previamente riunisce, ne rimette l’esame all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.