Sulla durata ragionevole del processo amministrativo (legge Pinto)


Durata ragionevole del processo amministrativo – Giudizio di ottemperanza – Considerazione unitaria rispetto alla cognizione – Esclusione – Autonomia dei due giudizi – Conseguenze

Il giudizio di cognizione avanti al giudice amministrativo e quello conseguente di ottemperanza non costituiscono – nonostante le differenze con la ricostruzione dualistica propria del processo civile di cognizione rispetto al processo esecutivo – fasi di un unico iter procedimentale, senza soluzione di continuità, ai fini della domanda di equa riparazione, proposta ex artt.2 e 4 legge n.89 del 2001 e 6 CEDU; da tale reciproca autonomia consegue la decadenza dalla domanda di indennizzo, per violazione della citata durata ragionevole, se proposta dopo il termine di sei mesi dalla sentenza definitiva del Consiglio di Stato.

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Corte di Cassazione, sezione prima civile


Sentenza n. 1732 del 23 gennaio 2009

(presidente Vitrone, relatore Bernabai)

(…)


Motivi della decisione

Il vaglio critico della tesi di fondo in cui si sostanzia il ricorso – volta ad una configurazione unitaria del processo presupposto, senza soluzione di continuità tra i due segmenti di cognizione e di ottemperanza, al fine di censurare la ritenuta preclusione della domanda di equa riparazione proposta oltre il termine di sei mesi dalla sentenza definitiva del Consiglio di Stato, ex art. 4 I n.89/2001 ( ratio decidendi del decreto impugnato ) – esige la previa verifica di conformità del processo amministrativo, nelle due forme predette, con il paradigma legale del processo civile
ordinario, di cognizione e di esecuzione, di consolidato inquadramento sistematico.

Al riguardo, giova premettere che l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, rubricato come Diritto a un processo equo, riconosce ad ogni persona il diritto "ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole" (nel testo inglese: everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time; in quello francese: droit à un procès public et equitable dans un délai raisonnable).

Nel disegnare il perimetro di applicabilità della disposizione, il dato positivo rimane quindi costrittivo, grazie al riferimento testuale al singolo processo (e non al sistema – giustizia nel suo complesso), la cui nozione tecnica non viene enunciata contestualmente dalla Convenzione, con rinvio implicito a quella elaborata in ogni ordinamento giuridico.

A sua volta, la legge 24 Marzo 2001, n.89, dopo aver richiamato all’art.2 la norma convenzionale suddetta, fissa all’art. 4 il termine e le condizioni di proponibilità della domanda di riparazione, prescrivendo che essa "può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è diventata definitiva".

La medesimezza del procedimento, ai fini anzidetti, va identificata in funzione di un atto introduttivo di parte e del corrispondente provvedimento conclusivo di natura decisoria, qualunque ne siano natura e contenuto, processuale o di merito, di accoglimento o rigetto. Entro quest’ambito, l’identità unitaria del processo non viene meno per effetto della sua distinzione in gradi (relativi alle impugnazioni) ed in fasi (istruttoria, collegiale, cautelare), che si collocano al suo interno e tutti concorrono alla determinazione della durata complessiva sottoposta allo scrutinio di ragionevole durata.

La definitività della decisione, che segna il dies a quo del termine semestrale di decadenza ex art. 4 I. n.89/2001, coincide con il conseguimento dell’irrevocabilità ed immodificabilità del dictum del giudice: e cioè, nell’ambito del giudizio di cognizione, con la cosa giudicata formale, ex art. 324 cod. proc.civile ( Cass., sez.1, 7 Marzo 2007, n. 5212).

Nella cornice sistematica del codice di rito, sarebbe quindi palesemente contraddittorio ricollegare organicamente al processo conclusosi con la decisione passata in giudicato la conseguente azione esecutiva, eventualmente promossa; che, in tal modo, fungerebbe quasi da condizione risolutiva della stessa definitività (presupposto per la decorrenza del termine di decadenza ex art. 4 I.89/2001), potendo essere promossa ad libitum, senza preclusione temporale, in quanto soggetta alla sola prescrizione decennale dell’actio judicati (art. 2953 cod. civ.), per di più suscettibile d’interruzione (art.2943 cod. civ.).

La contraria opinione dell’unicità processuale avrebbe, in ultima analisi, l’effetto paradossale di una rimessione in termini della parte decaduta dalla domanda di equa riparazione, in ipotesi tardivamente proposta rispetto al processo di cognizione irrevocabilmente definito: onde, annettere continuità di svolgimento al processo di cognizione ed a quello d’esecuzione d susseguente, al fine di escludere il decorso intermedio del termine – preclusivo in questione, appare incompatibile – per la contraddizion che nol consente – con la definitività della cosa giudicata formale.

Sulla scorta di tali considerazioni, questa Corte ha già avuto modo di statuire che il processo esecutivo promosso dalla parte vittoriosa in caso di mancato adempimento spontaneo della sentenza civile di condanna ( previa notifica di un atto di precetto, cui si riconosce natura non dissimile dalla domanda di merito ), è distinto da quello di cognizione, di cui, in nessun modo, potrebbe essere considerato un prolungamento (Cass., sez.1, 30 Novembre 2006, n.25529): come dimostrato anche dalla normale diversità dell’organo giudiziario competente rispetto a quello che ha emesso la sentenza definitiva e dalla stessa possibilità che al suo interno germoglino ulteriori processi autonomi, inizialmente in forma di subprocedimenti esecutivi (art. 615 cod. proc. civile: opposizione all’esecuzione; art.617: opposizione agli atti esecutivi; art.619: opposizione di terzo; art. 548: accertamento dell’obbligo del terzo ecc.), ciascuno dei quali sindacabile, singolarmente, sotto il profilo della ragionevole durata.

La ricostruzione dualistica valida in materia civile non si presta, peraltro, prima facie, ad una meccanica trasposizione nell’ambito del processo amministrativo, alla luce degli indubbi profili di specificità che connotano il giudizio di ottemperanza.

Sono gli stessi parametri costituzionali (art. 24 e 113, primo comma, Costituzione) ad imporre anche nelle cause che vedono come parte la Pubblica amministrazione l’effettività della tutela giurisdizionale per il privato vittorioso, mediante il conseguimento del bene della vita riconosciuto.

Prima del riconoscimento formale, da parte del legislatore, con l’art. 37 6 Dicembre 1971, n.l034, istitutiva dei T.a.r., il giudizio di ottemperanza si era venuto storicamente enucleando per gradi.

A seguito della creazione, con legge 31 Marzo 1889, n.5992, della quarta sezione del Consiglio di Stato, l’unico presidio di tale esigenza risiedeva nell’art. 88 del regio decreto 17 Agosto 1907, n. 642 – Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato ( che recita: "L’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa "), prescrivente alla stessa autorità amministrativa l’adeguamento concreto al dictum del giudice.

Il passaggio successivo dell’esecuzione coattiva fu segnato sul formante giurisprudenziale dall’indirizzo della quarta sezione, inaugurato con la decisione 2 Marzo 1928, n. 181, che estese il giudizio di ottemperanza anche alla sentenza del giudice amministrativo rimasta inadempiuta, mediante l’utilizzo del ricorso per l’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario previsto dall’articolo 27 n. 4 del regio decreto 26 Giugno 1924, n. 1054 ( Approvazione del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato).

Sotto il profilo formale, la principale asimmetria del giudizio di ottemperanza rispetto al processo esecutivo civile è, senza dubbio, la competenza estesa al merito.

Non che essa sia del tutto estranea al processo esecutivo ordinario (artt. 610-612 cod. proc. civ.); ma certo, il carattere assolutamente vincolato dell’esecuzione in senso stretto, entro i limiti del titolo, non lascia spazio ad integrazioni sostanziali: tanto meno, affidate alla discrezionalità del giudice, il cui intervento resta circoscritto alle modalità tecniche di attuazione del decisum.

Per contro, è innegabile che il giudizio di ottemperanza presenti connotati misti, sui generis, grazie alla coesistenza, in misura sensibile, di una sfera di cognizione.

Questa si concreta, innanzitutto, nella verifica dell’effettivo adempimento da parte della Pubblica amministrazione dell’obbligo di conformarsi agli obblighi derivanti dalla sentenza, il cui contenuto il giudice è quindi chiamato ad enucleare e precisare.

Inoltre, allorché la decisione emessa si sostanzi in un comando in termini di eliminazione, ripristinazione e conformazione a seguito di annullamento di un provvedimento, si rende altresì necessaria un’ulteriore attività di accertamento, sconosciuta al processo esecutivo civile, per la determinazione del rimedio all’inadempimento imputabile all’amministrazione.

In tesi generale, se il processo esecutivo mira ad adeguare il fatto al diritto, il giudizio di ottemperanza deve rendere altresì esplicita e concretare la "regola di prevalenza" enunciata in sentenza all’esito del bilanciamento degli interessi in giuoco; traducendo – com’è stato detto da autorevole dottrina – dal negativo al positivo gli accertamenti del primo giudice sul corretto modo di esercizio del potere.

Il processo amministrativo non ha, infatti, solo efficacia demolitoria, ma anche definitoria della norma agendi produttiva dell’effetto conformativo per la successiva azione amministrativa.

Di qui, la natura complessa del giudizio di ottemperanza, in cui si fa sentire in modo più evidente la tensione fra l’esercizio dei poteri giudiziari e di quelli di amministrazione; e, quindi la non perfetta assimilabilità al paradigma civilistico.

Sotto questo profilo, il sistema risente della contaminazione tra il modello francese (separazione tra amministrazione e giurisdizione) e quello tedesco (integrazione).

La non perfetta coincidenza del giudizio di ottemperanza con l’archetipo civilistico ha, del resto, radici storiche e trova rispondenza normativa nei più penetranti poteri del giudice, ex artt. 33 della legge 6 Dicembre 1971, n.l034, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, e 27, comma primo, n. 4, del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato.

Un riflesso immediato di tale dissonanza è costituito dal rispetto del principio del contraddittorio, che non trova rispondenza nel processo esecutivo ordinario, informato invece al più blando principio dell’audizione, consacrato dall’art 485 cod. proc civ. e successivamente richiamato in vari snodi topici (art.512 – Risoluzione delle controversie in tema di distribuzione della somma ricavata; art 496 – Riduzione del pignoramento; art. 530 – Provvedimento per l’assegnazione o l’autorizzazione della vendita, ecc.).

Per contro, nel giudizio di ottemperanza si esige la medesima integrità del contraddittorio propria del processo amministrativo ordinario: normativamente prevista solo tra la ricorrente e la P.A. competente (art. 91 Regolamento n.642/1907), ma poi estesa dalla giurisprudenza anche ai controinteressati, una volta riconosciuta l’immanenza di aspetti di cognizione, la cui ampiezza è prefigurata in nuce nell’art.24, n.4, T.U. Cons. di Stato, che annovera il giudizio di ottemperanza tra le ipotesi di giurisdizione "anche in merito".

I poteri del giudice di ottemperanza sono quindi ben più ampi di quelli del giudice dell’esecuzione ordinaria, sebbene investano il merito solo in ordine alle modalità di traduzione pratica del titolo giudiziario.
Anche nell’ambito del processo esecutivo, infatti, conserva pieno vigore il limite generale di cui all’art.4, legge 20 marzo 1865, n.2248 all. E ( Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia) che inibisce al giudice ordinario la revoca o modifica dell’atto amministrativo.

Se dunque per l’esecuzione della sentenza si richieda l’emanazione di un provvedimento discrezionale, la scelta del mezzo è rimessa all’amministrazione, sulla quale grava l’obbligo di adempiere ( art. 88 R.D. 642/1907, che esclude dall’esecuzione in via amministrativa la sola statuizione sulle spese), previa assegnazione di un termine sollecitatorio; o, in alternativa ad un commissario ad acta all’uopo nominato, che funge da ausiliario del giudice e non da organo della pubblica amministrazione.
Salvo sopravvenienze di fatto che giustifichino, nel pubblico interesse, l’inesecuzione della sentenza, dando luogo, in tal caso, al risarcimento per equivalente del pregiudizio subito.

La natura non meramente esecutiva del giudizio di ottemperanza rende ammissibili, al suo interno, financo misure cautelari, il cui carattere coessenziale al processo di merito vizierebbe d’illegittimità la loro esclusione (Corte costituzionale, 16 luglio 1996, n. 249).

Premessa, quindi, la natura eclettica del giudizio di ottemperanza, partecipe anche di profili di accertamento di merito, resta da esaminare se tale indubbia differenza rispetto al processo esecutivo civile valga a configurarlo come fase postuma del medesimo processo amministrativo di cognizione, senza soluzione di continuità: e dunque senza varco, al suo interno, per la decorrenza del termine di decadenza della domanda di equa riparazione, ex art. 4 I. n. 89/2001.

La risposta negativa emerge, prima ancora che dall’opzione interpretativa che riconduca al genus del processo esecutivo, nonostante le differenze rimarcate, la species del giudizio di ottemperanza, dall’analisi strutturale del procedimento, che ne rende impraticabile l’assimilazione al giudizio principale nonostante il tessuto connettivo della comune competenza di merito.

Innanzitutto, se il giudicato amministrativo è efficace ultra partes, l’ottemperanza può essere richiesta da qualunque interessato, anche se rimasto estraneo al giudizio; e reciprocamente, anche nei confronti di un soggetto pubblico diverso da quello che abbia resistito nel giudizio di merito, purché tenuto all’adempimento di un obbligo puntuale derivante dal dictum del giudice ( Cons. di Stato 14 Febbraio 2000, n. 757; Cons. di Stato 6 Maggio 1997, n.690): evenienze, in radice escluse all’interno di un singolo processo, in cui l’intervento di ulteriori soggetti, che non siano litisconsorti necessari, è ancorato a limiti rigidi di ammissibilità.

Ma l’autonomia del giudizio di ottemperanza emerge con ancor maggiore evidenza dal regime d’impugnabilità della relativa sentenza.

La legge 1034/1971 non prevedeva l’appello, la cui ammissibilità, inizialmente negata (Consiglio di Stato, ad. plenaria, 14 Luglio 1978, n.23), è stata, nel prosieguo, a partire dal révirement giurisprudenziale (Cons. di Stato 29 Gennaio 1980, n.2), sempre più latamente affermata in ordine alla sussistenza dei presupposti di legge (Cons. Stato 26 Aprile 2005, n.1905; Cons.di Stato 21 Febbraio 2005, n.625).

Né l’appello esaurisce la gamma dei mezzi d’impugnazione esperibili, comprendente anche l’opposizione di terzo (Cons. di Stato 3 marzo 2001, n.1999 ) e, teoricamente, lo stesso ricorso per cassazione per difetto di giurisdizione (unico sindacato consentito dagli articoli 111 Costituzione e 362 cod. proc. civile: Cass., sez. unite, 19 Luglio 2006, n.16.469): sebbene sia difficile ipotizzare, in subiecta materia, la violazione di un limite esterno della giurisdizione amministrativa.

Ne risulta un iter processuale duplicato, rispetto a quello di cognizione, incompatibile con una valutazione unitaria della durata ragionevole: come già ritenuto, analogamente, da questa Corte in tema di scissione del processo in punto an e quantum debeatur (Cass., sez.1, 7 Luglio 2008, n.18603 ).

Ancora più manifesta è la rottura dell’unità procedimentale dopo la Novella 21 Luglio 2000, n.205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), che ha dato ingresso al .giudizio di ottemperanza anche per le sentenze del T.a.r. provvisoriamente esecutive e non sospese dal Consiglio di Stato ( superando così il presupposto del giudicato ); e financo per le ordinanze cautelari (art. 21, comma 14, legge 1034/71, novellato dall’art.3 della legge 205/2000).

Al riguardo, l’art. 33, legge 1034/1971, nel testo originario, esordiva con l’enunciazione dell’esecutività (provvisoria) delle sentenze dei T.a.r., ma restava lex imperfecta, dato che la giurisprudenza di legittimità aveva affermato l’imprescindibile requisito del giudicato per dare ingresso al giudizio di ottemperanza (Cass., sez. unite 18 Settembre 1970, n.1563); seguita poi dal conforme indirizzo del Consiglio di Stato ( Adunanza plenaria 23 Marzo 1979 n.12 ).

Anche a tal riguardo è da escludere, dopo la Novella n. 205/2000, che il giudizio di ottemperanza di una sentenza provvisoriamente esecutiva (in pendenza del gravame ), e ancor più di un provvedimento cautelare, sia una fase, in senso tecnico, del medesimo giudizio di cognizione – che, nelle more, proseguirebbe, parallelamente, il suo iter ordinario nel grado d’impugnazione ( o nello stesso grado, se l’ottemperanza riguardi una misura cautelare) – non essendo ipotizzabile una doppia fase coeva, tanto più se dinanzi ai giudici diversi, del medesimo processo.

Non si saprebbe più, in tale concomitanza, a quale dies a quo ancorare l’inizio del termine semestrale per proporre la domanda di equa riparazione.

Non meno sintomatica della rottura dell’unità dell’iter procedimentale appare la possibile regressione del giudizio di ottemperanza ad un giudice inferiore rispetto a quello che ha emesso la sentenza esecutiva.

L’articolo 37, ultimo comma, legge 6 Dicembre 1971, n.1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali) prevede infatti per il giudizio di ottemperanza la competenza del T.A.R. anche quando si tratti di una decisione resa dal Consiglio di Stato, in sede di appello, di contenuto meramente confermativo della pronuncia impugnata.

Il fatto che competente possa essere un giudice diverso, ed inferiore, costituisce un sintomo evidente della cesura irriducibile, in sede sistematica, tra i due processi e una conferma dell’impossibilità di ritenere l’uno la prosecuzione dell’altro.

La fisiologica evoluzione ascensionale, dal giudice inferiore a quello superiore, verso la formazione del giudicato, verrebbe in questo caso interrotta da un disarmonico ritorno al primo giudice nei casi, non infrequenti, in cui il Consiglio di Stato si limiti a rigettare l’impugnazione.

In questo senso, postulare la perdurante unitarietà del giudizio, dal ricorso introduttivo del primo grado fino all’esaurimento del giudizio di ottemperanza, significherebbe configurare un modello processuale atipico, caratterizzato da un andamento pendolare e dalla possibile reiterazione di pronunce da parte del medesimo giudice in fasi successive.

Né appare valida obiezione, al riguardo, che non mancano nel processo civile ordinario ipotesi di translatio judicii per ragioni di competenza (artt. 38, 616, 619 terzo comma cod., e prima della Novella 26 Novembre 1990 n.353, anche art.667, primo comma, cod. proc. civ.), pur nell’indubbia conservazione dell’unità processuale, trattandosi di evenienze confinate alla fase iniziale di individuazione del giudice competente.

Quando poi il trasferimento del processo si verifichi a seguito di sentenza (artt 353, 354, 383 cod. proc. civ.), ciò dipende da patologie processuali che ne impongono la regressione a scopo di rinnovazione, totale o parziale: finalità del tutto assente, com’è ovvio, nel giudizio di ottemperanza, che anzi presuppone la validità ed efficacia esecutiva della sentenza "a monte".

Resta, in ultima analisi, eccentrica all’ordine sistematico la regressione al giudice inferiore come fase fisiologicamente successiva a quella già definita con pronunzia formalmente inattaccabile con i mezzi ordinari (art. 324 cod. proc. civ.).

Si aggiunga ancora che, ai sensi dell’art. 90, comma 2, del regio decreto 17 Agosto 1907, n.642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), il giudizio di ottemperanza può essere avviato "finché duri l’azione di giudicato"): e cioè, non entro un rigido termine di decadenza, come per tutte le impugnazioni ordinarie, bensì entro il termine di prescrizione di 10 anni proprio dell’actio judicati (art.2953 cod. civ.).

Poiché è comunemente ammesso il concorso del processo esecutivo civile con il giudizio di ottemperanza per sentenze che condannino l’amministrazione al pagamento di somme di denaro – ad esempio, per spese di lite – ritenere che il giudizio di ottemperanza sia la prosecuzione di quello di cognizione, senza alcuno iato intermedio, significherebbe, di riflesso, sottoporre il ricorso per equa riparazione ad un doppio binario sotto il profilo del termine semestrale di decadenza ex art. 4 l. n.89/2001: a seconda che si segua la strada del processo esecutivo civile (dies a quo: definitività della sentenza di merito), o per contro, quella del giudizio di ottemperanza, al cui esaurimento verrebbe ad essere posposto il medesimo termine. Con una dilatazione temporale, potenzialmente sine die, della proponibilità della domanda indennitaria, stante la prescrizione decennale dell’actio judicati, passibile, altresì, di interruzione.

In questo caso, l’indeterminatezza potenziale del termine consentirebbe di procrastinare, pressoché ad libitum, il termine di decadenza di cui all’art. 4 l. n.89/2001, restando sempre opponibile alla relativa eccezione della parte pubblica convenuta in equa riparazione – motivata col decorso del termine semestrale rispetto alla sentenza definitiva – la potenziale reviviscenza del processo, con conseguente riapertura del termine, legata alla perdurante – esperibilità dell’azione di ottemperanza.

Né si può eludere l’insostenibilità degli effetti di ordine sistematico cui condurrebbe la ricostruzione unitaria del processo di cognizione e di ottemperanza (cd. argomento apagogico) sottraendo dalla durata complessiva, valutabile sotto il profilo della ragionevolezza, il periodo di tempo intercorrente tra la sentenza definitiva e l’inizio del giudizio di ottemperanza (che nel processo presupposto promosso dal Taborri è stato di un anno e dieci mesi: dal 26 Settembre 2001 al 19 Novembre 2003): imputando, cioè, il ritardo ad un comportamento della parte rilevante in senso esimente, ai sensi dell’art.2, secondo comma, legge 24 Marzo 2001, n.89.

Non si tratta, infatti – contrariamente a quanto sostenuto dal difensore – di un periodo neutro (paragonabile alle richieste di rinvio di udienza o alla stasi durante il termine lungo per impugnare, ex art. 327 cod. di rito), dal momento che ad esso non si può riconoscere natura endoprocessuale, incompatibile con la decorrenza della prescrizione ( che resta, invece, sospesa, in corso di processo: art. 2945, secondo comma, cod. civ.).

Alla luce dei rilievi sopra esposti, si deve quindi concludere che la definizione del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del processo di cognizione, non infrequente nella prassi, riveste mera natura empirica ( si parla anche di giudicato a formazione progressiva), in accezione descrittiva dello specifico mezzo processuale satisfattivo a disposizione della parte vittoriosa in forza di una sentenza non autoesecutiva.

Resta però innegabile il suo carattere di spiccata autonomia, irriducibile sotto il profilo strutturale ad una mera fase (e tanto meno, ad un grado) dello stesso processo di cognizione; autonomia, resa vieppiù evidente dal requisito della procura ad hoc (Cons. di Stato, 28 Luglio 1977, n.708).

Sul tema, appare quindi meritevole di riesame critico e di conclusione dissenziente la contraria opinione espressa da questa Corte (sez.1, 18 Aprile 2005, N.7978; adesivamente richiamata, senza ulteriori approfondimenti, da Cass., sez.1, 30 Maggio 2008, n. 14595), motivata con la funzione del giudizio di ottemperanza di realizzare "lo scopo di dare piena ed effettiva soddisfazione al medesimo interesse sostanziale riconosciuto dalla sentenza da adempiere, con un provvedimento che spesso si palesa integrativo di tale sentenza e che comunque ne specifica il contenuto":
trattandosi di connotazione che, seppur non priva di fondamento empirico, si palesa inidonea a giustificare, in sede concettuale, l’unificazione di due processi tecnicamente distinti.

Ne consegue che correttamente la Corte d’appello di Roma ha rilevato la dicotomia dei processi presupposti promossi dal Taborri, oggetto di scrutinio di ragionevole durata, statuendo la decadenza, per tardività, della domanda di equa riparazione rispetto al passaggio in giudicato della decisione del Consiglio di Stato e ravvisando, simmetricamente, l’insussistenza della violazione del termine ragionevole in ordine al giudizio di ottemperanza.

Il ricorso è dunque infondato e va respinto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso

Deciso in Roma, 7 novembre 2008. Depositata in cancelleria il 23 gennaio 2009.

Redazione

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