Si riportano di seguito alcuni passi salienti dell’intervento che Pasquale de Lise, già presidente della Commissione redattrice del Codice dei contratti pubblici, ha svolto a Roma, lo scorso 21 aprile, sui lavori della Commissione redattrice del nuovo Codice del Processo Amministrativo, da lui coordinata nella qualità di presidente aggiunto del Consiglio di Stato.
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“Non era dubbia l’ineffettività di un sistema imperniato sulla sola tecnica rimediale dell’azione di annullamento. Tuttavia, negli ultimi anni, si è avvertita fortemente la crescita della tutela fornita dal giudice amministrativo che ha mutato e sta mutando la fisionomia del nostro processo.
Si è così assistito all’arricchimento delle tecniche di tutela: a quella classica di tipo demolitorio (l’annullamento dell’atto amministrativo impugnato), peraltro sempre più finalizzata al ripristino della situazione lesa, cioè resa sempre più effettiva dalla giurisprudenza in materia di ottemperanza, si è ormai affiancata quella risarcitoria; ancora, in sede giurisprudenziale si è affacciata la tutela di accertamento, con la verifica della spettanza del bene della vita.
E poi la ragionevole durata, l’economia e la concentrazione processuale, il rafforzamento dei rimedi d’urgenza, lo spostamento dell’oggetto del processo dall’atto all’assetto di interessi sottostante, ossia al rapporto, una maggiore attenzione agli aspetti sostanziali dell’attività amministrativa, con la prevalenza della legalità sostanziale su quella meramente formale (a questo riguardo è d’obbligo il richiamo all’art. 21-octies della legge n. 241).
Va pertanto riconosciuto che il ruolo del giudice amministrativo si è andato adeguando in relazione ai mutamenti intervenuti nel sistema istituzionale, sociale ed economico.
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Rispetto alla situazione attuale, l’emanazione del codice ha, anzitutto, un significativo valore simbolico conferendo alla disciplina del giudizio amministrativo la stessa dignità formale degli altri rami dell’ordinamento processuale, peraltro in un momento in cui è emersa (trovando riconoscimento negli importanti arresti della Corte costituzionale, già richiamati) la consapevolezza della equivalenza delle tutele rispettivamente apprestate.
Il codice provoca un’evoluzione dalla “procedura” amministrativa al “diritto processuale” amministrativo: meccanismi tipici del nostro processo, da sempre originali, nati talvolta per esigenze contingenti di tutela, divengono oggi maturi e assurgono alla dignità di modelli del diritto processuale italiano, assicurando al processo amministrativo una “peculiarità” nell’ambito delle discipline processuali.
Inoltre, nel nostro attuale sistema socio-economico – fisiologicamente ma spesso anche patologicamente complesso – il giudice amministrativo, con le sue pronunce ma anche con i modi e i tempi del suo processo, è ormai assurto al rango di protagonista, quale elemento rilevante – e spesso determinante – di sviluppo e di competitività.
E allora non è priva di significato la circostanza che la delega per il codice del processo amministrativo, che potrà consacrare questa peculiare attitudine del giudice amministrativo, sia contenuta in un provvedimento legislativo recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione e la competitività del sistema Paese, così sistematizzando e positivizzando, nello specifico ambito che ci interessa, le innovazioni che i tempi attuali richiedono.
Ed è ugualmente significativo che la delega sia contenuta nel medesimo provvedimento che sancisce una importante riforma del processo civile, determinando in tal modo una sorta di sintonia tra questo e il processo amministrativo, consentendo di superare i contrasti tra la giurisprudenza del giudice ordinario e quella del giudice amministrativo (a questo riguardo il pensiero non può non andare al problema della pregiudiziale amministrativa, come a quello della sorte del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, problema, quest’ultimo, risolto dalla ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione 10 febbraio 2010, n. 2906 sulla base della sopravvenuta normativa contenuta nella c.d. direttiva ricorsi 11 dicembre 2007, n. 66).
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La peculiarità di questo testo è che esso mostra la propensione a costituire una raccolta normativa che funga non tanto da “punto di arrivo”, ma da “punto di partenza” per la giurisprudenza successiva. Nel senso che si sono messe a frutto le conquiste giurisprudenziali, codificandole in un testo che da un lato valga a risolvere problemi che vanno al di là di quanto sia consentito agli interventi giurisprudenziali e, dall’altro, fornisca una base solida, ma al contempo flessibile e aperta, per ulteriori conquiste della giurisprudenza.
Detto, quindi, con profonda e sincera convinzione, tutto il bene possibile del testo redatto dalla Commissione, non posso non ribadire che, sin dall’inizio è stato chiaro a tutti, e in primo luogo a noi componenti della Commissione, che si tratta di uno schema di provvedimento legislativo e non di un provvedimento legislativo, e che dunque esso, per sua natura, è suscettibile di modifiche.
Pertanto, affermarne la immutabilità, oltre a poter apparire una manifestazione di arroganza culturale, comporterebbe la violazione delle competenze costituzionali del Governo e del Parlamento (nella legge di delega è prevista la sottoposizione dello schema al parere delle competenti Commissioni parlamentari) e varrebbe a confermare la tesi, che già in altra sede ho considerato alquanto stravagante, di chi ha visto nell’affidamento della redazione dello schema “una singolare subdelega al Consiglio di Stato”, evocando “una sorta di procedura domestica” nella redazione del codice.
Né mi sembra condivisibile la tesi secondo la quale l’affidamento della redazione del testo al Consiglio di Stato, nell’esercizio della facoltà prevista dalla legge di delega, sia valsa ad imprimere un carattere di immutabilità al testo stesso, con la correlativa esclusione del potere del Governo di incidere su di esso modificandolo in qualche punto.
Peraltro, ritengo che il testo approvato dal Consiglio dei Ministri abbia lasciato immutata una grandissima parte del testo e dell’impianto della Commissione: parlare perciò, in relazione alle modifiche apportate in sede governativa, di “rigurgito reazionario di qualche burocrate” e di “operazione di retroguardia dal punto di vista culturale”, mi sembra francamente eccessivo e ingeneroso.
Sono poi, a mio avviso, assolutamente inaccettabili le affermazioni di un altro autore, secondo cui il codice, con le modifiche apportate dal Governo, “non serve a niente”, per cui sarebbe auspicabile che di esso non si faccia proprio nulla, perché rischierebbe di “intralciare la naturale evoluzione di un processo tuttora profondamente in crisi quale è quello amministrativo”.
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Il codice, poi, entro due anni dalla sua emanazione, come espressamente previsto dalla legge di delega, potrà essere soggetto a modifiche, le quali, peraltro, in conformità alla natura dei decreti c.d. correttivi e integrativi, quale più volte definita dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, dovranno porre rimedio ad eventuali sviste o lacune e introdurre i miglioramenti che siano apparsi necessari o opportuni nel corso della prima applicazione della nuova disciplina, anche se non dovranno operare alcuna “controriforma”, evitando gli stravolgimenti verificatisi in altre occasioni (basti pensare al codice dei contratti pubblici), in contrasto sia con i principi cui si è inteso informare il testo che con quelli che regolano la delegazione legislativa e, in particolare, i termini entro i quali essa deve essere attuata”.
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Pasquale de Lise
Roma, 21 aprile 2010
L’intervento è pubblicato per esteso nel sito della Giustizia Amministrativa, all’indirizzo
https://www.giustizia-amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/2010-4_De_lise_Verso_il_codice.htm