CONSIGLIO DI STATO
Sezione Consultiva per gli Atti Normativi
Adunanza 9 giugno 2009
N. della Sezione:
1943/09
OGGETTO:
ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione – Schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 4, della legge 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici.
La Sezione
Vista la relazione prot. n. 278/GAB-U del 26 maggio 2009 con cui il Ministro per la Pubblica Amministrazione e
l’innovazione ha trasmesso per il prescritto parere lo schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 4, della legge 4 marzo 2009, n. 15 in materia di ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari pubblici;
Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore Cons. Francesco Bellomo;
PREMESSO
Con nota del 26 maggio 2009 il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione ha trasmesso per un parere facoltativo lo schema di decreto legislativo di attuazione dell’art. 4, della legge 4 marzo 2009, n. 15.
Detta disposizione conferisce delega al Governo diretta, tra l’altro, a modificare ed integrare la disciplina del sistema di valutazione delle strutture e dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, al fine di assicurare elevati standard qualitativi ed economici dell’intero procedimento di produzione del servizio reso all’utenza tramite la valorizzazione del risultato ottenuto dalle singole strutture, a prevedere mezzi di tutela giurisdizionale degli interessati nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici fissati o che violano le norme preposte al loro operato.
Lo schema di decreto legislativo dà attuazione a tale norma e si compone di sette articoli, i cui elementi caratterizzanti sono:
– i presupposti del ricorso (art. 1, comma 1), riferiti alla lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti provocata dalla violazione di standard qualitativi ed economici, o degli obblighi contenuti nelle Carte di servizi, ovvero, ovvero ancora dalla violazione dei termini perentori o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi carattere normativo: ne consegue che l’oggetto del giudizio (lo scostamento da uno standard) si lega strettamente alla previa definizione di standard di qualità organizzativa;
– la sua proponibilità sia da parte dei singoli aventi un interesse diretto concreto e attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata sia da parte di associazioni e comitati a tutela degli interessi dei propri associati (art. 1, comma 2). Il Ministero riferisce che in questa materia, a differenza di altre (tutela dell’ambiente e de consumatori) non è parso possibile né opportuno circoscrivere la legittimazione a un elenco consolidato di enti rappresentativi degli interessi collettivi dei cittadini;
– la previsione di una diffida preventiva all’amministrazione, che viene cosi resa edotta tempestivamente della pretesa collettiva e può porre rimedio ai vizi lamentati scongiurando la proposizione dell’azione (art. 3, commi 1 e 2);
– la devoluzione della cognizione delle controversie al giudice amministrativo, in grado di esercitare quel controllo penetrante sull’operato della pubblica amministrazione che l’ambito oggettivo della norma richiede e consente (art. 3, comma 3);
– il collegamento della sentenza con l’avvio di procedure innanzi agli organi preposti alla loro valutazione e all’avvio del giudizio disciplinare, oltre che alla Corte dei conti e agli organismi che dovrebbero in futuro presiedere alla valutazione delle performance pubbliche (art. 4);
– la previsione di idonee forme di pubblicità del procedimento giurisdizionale, della sentenza e delle misure adottate per ottemperarvi, per potenziare la funzione di deterrente della nuova azione (art. 3, comma 4, art. 4, commi 2 e 4);
– la possibilità di commissionare le amministrazioni inadempienti, in caso di persistente inottemperanza, con la previsione di decurtazioni stipendiali automatiche in capo ai soggetti-responsabili dell’inefficienza (art. 5);
La Presidenza del Consiglio dei ministri provvede al monitoraggio dell’attuazione delle disposizioni relative all’azione collettiva; a tal fine predispone e presenta, dopo il primo biennio di applicazione, una relazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, proponendo eventuali interventi correttivi (art. 6).
La norma transitoria, di cui all’articolo 7, prevede che le disposizioni del decreto si applicano dall’adozione degli standard qualitativi ed economici e delle Carte dei servizi di cui all’articolo 11 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, e comunque a decorrere dal 10 gennaio 2010.
CONSIDERATO
1. Il testo su cui la Sezione è chiamata ad esprimere il proprio parere ha per oggetto una fonte primaria, sia pure delegata, il che pone problemi alquanto diversi rispetto a quelli solitamente all’attenzione del Consiglio di Stato nell’esercizio delle funzioni di consulenza normativa.
Precisamente, nella specie, si tratta di valutare oltre che la compatibilità delle disposizioni con la norma di delega e con le fonti primarie che rilevano in materia, anche la compatibilità con i principi costituzionali e la coerenza con il sistema e le sue categorie dogmatiche.
Ciò vale tanto più nel caso in esame, ove sono toccati aspetti di fondo dell’ordinamento amministrativo, non solo – come è evidente – di carattere processuale, ma anche di carattere sostanziale, essendo la c.d. azione collettiva nei confronti della pubblica amministrazione il corollario di un disegno riformatore che, sul piano della teoria generale, si fonda sulla concezione dell’amministrazione di risultato, in cui domina il principio del buon andamento. Tale principio costituisce espressione di una moderna visione della pubblica amministrazione nel quadro dei fondamenti di macroeconomia, non solo in quelli nei quali tradizionalmente ha svolto un ruolo (stabilizzazione, distribuzione del reddito), ma anche con riguardo a quelli in cui solo in tempi recenti si è affermata la sua rilevanza (efficienza produttiva, sviluppo).
Come emerge dall’art. 97, comma 1 Cost. il parametro del buon andamento, insieme con quello dell’imparzialità, vincola la disciplina legislativa della pubblica amministrazione. L’essere avvinto in modo così stretto al principio di legalità ha determinato per lungo tempo una visione formale del principio di buon andamento, in virtù della quale la disciplina amministrativa si deve ispirare ad un criterio di congruenza e di non arbitrarietà rispetto al fine perseguito.
Difatti, quando si è trattato nella teoria e nella prassi del diritto amministrativo di assegnare uno spazio a una visione del principio di buon andamento più aderente alla previsione costituzionale, si sono incontrate serie difficoltà. Il dettato costituzionale indica che la legalità deve essere strumentale all’efficienza, però l’efficienza è una nozione non giuridica, ma economica. La difficoltà di tradurre in termini di norma giuridica ciò che appartiene alla scienza economica ha portato a svilire il principio di buon andamento, sicché, invece di concepire la legalità come orientata all’efficienza, si è, al contrario, interpretata l’efficienza come un corollario della legalità, sostenendo che il mero rispetto della legge è garanzia di risultato.
Nelle elaborazioni più note il principio è stato utilizzato per rinforzare l’aspetto sostanziale della legalità amministrativa. In sinergia con l’evoluzione della funzione amministrativa il dovere del buon andamento ha rafforzato l’onere dell’amministrazione di operare il miglior contemperamento dei vari interessi emersi nel procedimento. Il riferimento alle regole di buona amministrazione ha arricchito la tassonomia dell’eccesso di potere, che è appunto vizio di legittimità in senso sostanziale. Così la mancata acquisizione di fatti non imposta dalla legge può integrare l’eccesso di potere sotto il profilo della istruttoria insufficiente, qualora l’incompletezza della stessa evidenzi un vizio nel perseguimento del risultato. Tuttavia, ciò rileva solo se si riversa in uno sviamento dalla causa tipica o dal fine pubblico dell’azione esercitata. Per contro la violazione del buon andamento intesa come norma economica determina un semplice vizio di merito, insindacabile salvo le eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito.
L’implementazione del principio, nella sua accezione giuridico formale, all’interno del sistema amministrativo ha trovato la punta più avanzata – ma non il punto di svolta – nella legge n. 241 del 1990, il cui art. 1, comma 1 esplicitamente menziona i criteri di economicità ed efficacia.
Nella prospettiva della legge n. 241 del 1990 la strumentalità è duplice: da un lato economicità ed efficacia sono (non principi ma) mezzi per attuare il dettato legislativo, dall’altro il loro contenuto non va ricavato dalla scienza economica, bensì dalle leggi che governano i procedimenti amministrativi, in primis la n. 241 del 1990. Ne consegue che all’amministrazione è consentito di realizzare solo il quantum di efficienza che non pregiudica il conseguimento dell’interesse pubblico e con le modalità previste dalla legge.
La legislazione degli ultimi quindici anni ha sensibilmente mutato questa impostazione. La privatizzazione del pubblico impiego e la riforma della dirigenza, le leggi “Bassanini” e i conseguenti decreti di attuazione, la riforma del titolo V della Costituzione, le leggi di semplificazione normativa per il 2003 e 2005, la riforma della legge n. 241 del 1990 (leggi 15 e 80 del 2005), hanno prepotentemente veicolato nel sistema amministrativo la concezione sostanziale del buon andamento, che si pone a fianco, e talvolta in attrito, con il principio di legalità.
All’inizio di questa legislatura è stato dato ulteriore impulso all’opera di riforma, a partire dal decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008 n. 112 (“Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), e tra gli ultimi provvedimenti uno dei più significativi è proprio la legge 4 marzo 2009 n. 15 (“Delega al governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni […]”).
Lo sforzo del creatore di norme, così come quello dell’interprete, appare proiettato nel coordinare questi due principi, specie nella materia dell’organizzazione, dove maggiore è il peso che il valore economico del buon andamento sta assumendo, come tecnica di contenimento del debito pubblico, da tempo giunto a livelli di guardia, e fattore di produzione dell’attività amministrativa rivolta alla soddisfazione del cittadino. Per dirla in termini metaforici un tempo agire legittimamente significava agire bene, oggi si può pensare che agire bene significhi agire legittimamente.
2. In questo quadro si inserisce plasticamente l’art. 4, della legge 4 marzo 2009, n. 15, il quale muove dall’idea che l’attività della pubblica amministrazione, sia essa destinata all’erogazione di atti come di servizi, assuma la configurazione di un «servizio» reso alla comunità nazionale (art. 98 Cost.).
Da tale punto di vista non deve sorprendere, ed anzi merita un plauso, la scelta – di portata ben più ampia della mera responsabilizzazione del pubblico dipendente – di introdurre nell’ordinamento l’azione collettiva nei confronti delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici che si discostano dagli standard qualitativi ed economici del servizio (nell’ampia accezione sopra indicata), come mezzo di tutela in forma specifica del cittadino e, al tempo stesso, come strumento di pressione sugli apparati pubblici per garantire l’efficienza del procedimento di produzione del servizio.
E’ bene chiarire da subito che la formula “azione collettiva” (peraltro mai figurante nel testo), pur richiamandola, non si identifica nella cd. «class action» introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 2, comma 446, della legge n. 244 del 24 dicembre 2007 (legge finanziaria 2008), che inserisce l’articolo 140-bis nel decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo). Ciò non solo e non tanto per la ragione – già individuata nella relazione ministeriale – per cui questa riguarda le lesioni dei diritti di consumatori e utenti in ambito contrattuale e, per certi ambiti, extracontrattuale, mentre quella il rapporto tra cittadini e pubbliche amministrazioni, quanto per la diversa logica sottesa: l’azione contro le imprese private protegge il consumatore dallo squilibrio di posizioni sul mercato, con effetti limitati alla fase del contatto (negoziale o non), quella verso la pubblica amministrazione interviene sullo stesso processo di produzione del servizio.
In entrambe le ipotesi si cerca di indurre il soggetto erogatore dell’utilità a comportamenti virtuosi nel suo ciclo di produzione, onde evitare di scaricare il costo dell’inefficienza sugli utenti; ma questo obiettivo è perseguito in modo indiretto se il produttore è un privato che agisce per scopi egoistici e nell’esercizio della sua libertà di iniziativa economica, mentre nella seconda ipotesi è perseguito direttamente, proprio perché l’organizzazione amministrativa è chiamata dalla legge a realizzare il bene pubblico.
Allora ben si comprende, pur nel comune denominatore della visione aziendalistica, la differenza fondamentale tra impresa privata e pubblica amministrazione, per cui solo la seconda è avvinta dal principio di legalità: il buon andamento che caratterizza l’azione pubblica, anche se inteso in senso non formale, deve inserirsi nella cornice dei pubblici poteri disegnata dall’ordinamento giuridico.
Sulla base di queste premesse può intuirsi come i temi fondamentali nella costruzione dell’azione collettiva nei confronti della pubblica amministrazione attengano al suo profilo strutturale (soggetti, causa petendi, petitum) ed alle condizioni dell’azione. In particolare meritano attenzione la legittimazione ad agire, l’oggetto del giudizio e la tipologia di decisioni che può adottare il giudice.
Naturalmente il punto di partenza è dato dalla norma di delega, che individua:
– la situazione giuridica rilevante nell’interesse diffuso, abilitando all’azione il singolo interessato e l’ente esponenziale;
– l’oggetto in qualsiasi atto o comportamento tenuto in violazione di standard qualitativi ed economici o dei doveri di azione;
– i poteri del giudice in quelli propri giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo, peraltro limitati alla tutela in forma specifica (cui si riconnette la previsione di un filtro all’azione, costituito dalla diffida all’amministrazione affinché adempia spontaneamente).
L’attuazione di tali elementi da parte del decreto legislativo deve avvenire in conformità ai principi ed alle categorie dogmatiche del processo amministrativo, onde non causare uno strappo con il sistema giuridico dell’organizzazione e della funzione pubblica, su cui è modellato la tutela del cittadino dinanzi al giudice amministrativo.
A questo proposito non può non constatarsi una certa genericità dei criteri di delega, specie per quel che riguarda i profili processuali, profili che, in presenza di un’azione così innovativa avrebbero richiesto una maggiore specificazione. Si ricorda, ad esempio (ma si tratta di un aspetto tutt’altro che marginale), che in altri ordinamenti più avanzati in questo campo è espressamente affidato al giudice un potere di “filtro” della serietà e consistenza, anche dal punto di vista soggettivo, degli interessi fatti valere; ciò evidentemente per evitare il rischio di un uso strumentale del nuovo istituto.
Alla stregua di tali considerazioni, e anche in vista di una rielaborazione del testo più approfondita di quella che è stato possibile effettuare in questa sede, sarebbe opportuna una analisi di impatto sull’amministrazione e sulla sua azione, del resto anche prevista in via ordinaria dal d.P.C.M. n. 170 del 2008.
3. Alla luce di tali coordinate di ordine generale la Sezione formula le seguenti osservazioni.
Premesse.
Tra le premesse del testo vanno richiamati gli artt. 3, 24, 97, 103 e 113 della Costituzione. Il richiamo, lungi dal risolversi in una clausola di stile, è in grado di orientare l’interprete nella ricerca dei fondamenti sostanziali dell’azione collettiva e, dall’altro, indica i parametri su cui operare il controllo di compatibilità con l’ordinamento.
Articolo 1.
All’art. 1, che costituisce il “cuore” del nuovo istituto, il comma 1 deve essere riformulato, conformando la disposizione ai criteri di delega e rendendola più corretta sul piano dogmatico.
Una prima osservazione riguarda la legittimazione ad agire che nell’attuale testo subisce una sorta di duplicazione, essendo prevista come titolo soggettivo (“interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata”) ed oggettivo (“se dalla violazione […] derivi la lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti e consumatori”) del ricorso. Si deve invece considerare che la legittimazione ad agire è data dalla situazione di contatto (titolarità) della posizione soggettiva difesa in giudizio, che nella specie consiste in un interesse diffuso (l’impatto dell’attività amministrativa su beni della vita omogenei per una pluralità di soggetti). E’ l’inerenza a tale interesse a integrare la legittimazione del singolo. Peraltro la stessa fonte primaria evidenzia che la situazione giuridica protetta è quella pluralistica (“lesione di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità di utenti e consumatori”), mentre la legittimazione del singolo deriva dall’interesse (non altrimenti qualificato) a far valere la lesione di detta situazione. Per esprimere tale concetto non sarebbe preciso definire la situazione del singolo come “titolarità”, la quale piuttosto riguarda la classe (cui, sostanzialmente, si imputa l’interesse diffuso), mente può utilizzarsi una formula già nota all’ordinamento amministrativo, che all’art. 9 della legge n. 241 del 1990, individua tra i soggetti titolari del diritto di intervento nel procedimento amministrativo “i portatori di interessi diffusi”. Inoltre, al fine di evidenziare il contatto tra la situazione giuridica della classe e l’apparato dove si verifica il malfunzionamento è bene esplicitare che la lesione ha natura diretta e discende dalla condotta tenuta da dette amministrazioni, per poi analiticamente individuare – in conformità alla delega – le fattispecie che possono dar luogo all’azione.
Una seconda osservazione, sempre pertinente al comma 1, concerne la previsione che l’inerzia censurabile riguarda l’adozione di atti amministrativi generali “obbligatori e a carattere non normativo”. La limitazione agli atti obbligatori non trova fondamento nella delega. La specificazione relativa al carattere non normativo, poi, può dare adito ad equivoci, essendo consolidato l’uso del termine «atto amministrativo generale» con riferimento agli atti formalmente e sostanzialmente amministrativi (esemplare, al riguardo, l’art. 13, comma 1 della legge 241 del 1990, la quale menziona separatamente – ai fini dalla non applicazione del capo sulla partecipazione al procedimento amministrativo – gli “atti normativi” e gli “atti amministrativi generali”), sicché la precisazione appare inutile o, peggio, fuorviante (lasciando intendere – a contrario – che l’essenza del regolamento è quella di atto amministrativo generale, sia pure a contenuto normativo).
In conseguenza una formulazione più appropriata del comma appare, la seguente: “I soggetti portatori di interessi giuridicamente rilevanti per una pluralità omogenea di utenti e consumatori, direttamente lesi dalla condotta tenuta nello svolgimento dei propri compiti dalle amministrazioni e dai concessionari di servizi pubblici, possono agire in giudizio nei loro confronti, al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione del servizio, per:
a) la violazione di standard qualitativi ed economici, stabiliti dalle autorità preposte alla regolazione e al controllo del settore, o degli obblighi contenuti nelle Carte dei servizi;
b) l’omesso esercizio di poteri di vigilanza, di controllo o sanzionatori;
c) la violazione di termini del procedimento rilevanti all’esterno da parte dell’amministrazione o del concessionario;
d) la mancata emanazione di atti amministrativi generali.”.
Tale formulazione sembra comunque idonea a far salve le esigenze – chiaramente palesate nel testo di delega, pur in assenza di riferimenti nella relazione di accompagnamento – di circoscrivere l’azione collettiva del singolo, onde evitarne la trasformazione in azione popolare. A tal riguardo devono considerarsi i seguenti profili:
– la natura pluralistica e diffusa del bene della vita sotteso alla posizione giuridica tutelata;
– la tipologia delle violazioni suscettibili di ledere tale posizione, da identificarsi solo in quelle che evidenzino una disfunzione strutturale dell’apparato amministrativo, non limitata a singoli casi;
– la tipologia della tutela giurisdizionale concessa, che esclude ogni ristoro patrimoniale (affidato all’ordinaria azione di risarcimento del danno, nella sussistenza dei relativi presupposti) ed è finalizzata alla rimozione della disfunzione amministrativa.
In una corretta applicazione dei principi in tema di legittimazione ed interesse ad agire tali elementi possono costituire oggetto di valutazione al fine di evitare la proposizione di azioni non rispettose dei parametri di serietà e adeguatezza soggettiva ed oggettiva che caratterizzano la class action, ovviando almeno in parte alla mancanza di una disciplina espressa non ammissibile allo stato dei criteri di delega.
Nell’ambito dell’art. 1 è poi opportuno collocare l’esercizio del diritto di azione da parte del cointeressato all’interno del giudizio già instaurato (assente nello schema) e le forme di pubblicità di tale giudizio volte ad assicurarlo (previste dall’art. 3, comma 4 dello schema). L’azione del cointeressato si spiega tramite intervento litisconsortile o adesivo autonomo, con facoltà analoghe a quelle del ricorrente, in ciò distinguendosi dal tradizionale intervento ad adiuvandum previsto nel processo amministrativo, attesa la natura dell’azione collettiva, la quale è coerente con l’inserimento nel medesimo giudizio, in posizione paritaria, di tutti i soggetti titolari di situazioni giuridiche omogenee a quella del ricorrente, trattandosi in definitiva di orientare l’amministrazione a correggere disfunzioni obiettivamente rilevanti per un’intera classe di utenti.
Peraltro a tale soluzione può pervenirsi anche in base ai principi generali, atteso che l’esclusione dell’intervento litisconsortile nel processo amministrativo dipende dall’oggetto della giurisdizione di legittimità e dalla previsione di termini di decadenza per l’esercizio dell’azione, che si mostrano incompatibili con tale tipologia di intervento, il quale, invece, è ipotizzabile in sede di giurisdizione esclusiva e di merito.
Si può, dunque, inserire un nuovo comma (che acquista il n. 2, con slittamento della numerazione successiva), così formulato: “Al ricorso è data adeguata pubblicità sui mezzi di informazione, sul sito istituzionale del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, nonché sul sito istituzionale dell’amministrazione o del concessionario intimati, o con altre modalità idonee, disposte con decreto del presidente del collegio o del giudice delegato, a cura e spese dell’amministrazione o del concessionario. Le spese di pubblicazione vengono liquidate definitivamente con la decisione che definisce il giudizio. I soggetti che si trovino nella medesima situazione giuridica del ricorrente possono intervenire nel processo, con le medesime facoltà del ricorrente, nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione del ricorso.
Conseguentemente va soppresso il comma 4 dell’art. 3.
Quanto all’attuale comma 2 (ora 3), la genericità della sua formulazione lo rende una mera e anodina ripetizione del criterio di delega, a sua volta alquanto generico. Sarebbe opportuna una qualche integrazione che evidenzi la necessità di uno specifico collegamento dell’associazione o del comitato con la particolare “pluralità” di utenti e consumatori.
In concreto si suggerisce di far seguire alle parole “a tutela degli interessi dei propri associati”, le seguenti “appartenenti alla pluralità di utenti e consumatori di cui al comma 1”.
E’ opportuno infine aggiungere subito dopo (come n. 4) una disposizione relativa alla legittimazione passiva, anche al fine di delimitare implicitamente l’ambito di quella attiva; ad avviso della Sezione le amministrazioni in questione dovrebbero essere quelle specificamente competenti a gestire le funzioni o i servizi di cui si tratta.
Si suggerisce la seguente formulazione: “4. Il ricorso è diretto avverso gli organi e gli enti competenti a esercitare le funzioni o a gestire i servizi cui sono riferite le violazioni e le omissioni di cui al comma 1”.
Sempre con riferimento alla legittimazione passiva, e in questo stesso comma o in un ulteriore comma, occorrerebbe esplicitare la esclusione della legittimazione passiva per le cc.dd. “Autorità indipendenti”: si noterà infatti che la previsione per ragioni sistematiche è stata tolta dal comma 1.
Peraltro, la rilevanza della disposizione meriterebbe una formulazione più esplicita del criterio di delega che allo stato, pur non escludendo la correttezza della linea interpretativa seguita nello schema trasmesso, non appare particolarmente perspicuo. Esso letteralmente si limita a salvaguardare le competenze funzionali di tali soggetti e potrebbe darsene una lettura riduttiva tanto più a fronte della generale previsione della proponibilità dell’azione nei confronti delle pubbliche amministrazioni e per “l’omesso esercizio di poteri di vigilanza, controllo e sanzionatori” (tra cui si annoverano alcuni dei poteri più significativi delle Autorità indipendenti).
Si rimette pertanto la questione alla attenta valutazione di codesta Amministrazione.
Articolo 2.
Nell’art. 2, che definisce il rapporto tra processo e procedimento dinanzi alla autorità di settore nei confronti dei concessionari, occorre inserire la previsione di un meccanismo che renda effettiva l’impossibilità di agire o di proseguire il giudizio prevista nella delega. Il comma 2 può, pertanto, essere riformulato come segue “Il concessionario di pubblici servizi contro cui sia stato proposto ricorso giurisdizionale comunica immediatamente al giudice adito la pendenza del procedimento amministrativo. Il giudice dichiara inammissibile o improcedibile il ricorso”.
Questo Consiglio ritiene tuttavia di dover richiamare l’attenzione sulla delicatezza dei profili di costituzionalità, in presenza di una così forte e definitiva incidenza sulla funzione giurisdizionale della sopravvenienza di un procedimento amministrativo.
Anche sulla base di analoghe esperienze maturate in altri settori (tributario, ad es.) darebbe maggiori garanzie di correttezza costituzionale la previsione di una mera sospensione del giudizio in luogo della improcedibilità.
Articolo 3.
Nell’art. 3, che disciplina il giudizio, i termini previsti dai commi 1 e 2 devono essere stabiliti tenendo conto che la finalità della condizione di accesso al ricorso è quella di stimolare la soluzione interna del problema, attivando un procedimento che “progressivamente” – come recita sul punto la legge delega – conduca all’adozione di misure idonee. Appare, dunque, preferibile, da un lato modificare il termine per provvedere in quello di novanta giorni (comma 1) e, dall’altro, sostituire come termine assegnato all’organo di vertice per prendere le iniziative idonee quello di trenta giorni (comma 2). In tal modo si delinea una scansione temporale meno velleitaria ed in cui sono differenziati i termini per attivare e per concludere il procedimento di adeguamento. Inoltre è opportuno che tale procedimento sia definito nei suoi aspetti essenziali, anche quanto a partecipazione dell’interessato, e che la disciplina di dettagli sia rinviata alle fonti delle singole amministrazioni. Inoltre, appare un’imprecisione individuare la diffida come “condizione di procedibilità del ricorso” (trattandosi di condizione di ammissibilità) e fare riferimento alla notifica, che è solo il mezzo per portarla a conoscenza dell’amministrazione. Infine è opportuno che il ricorrente – il quale potrebbe avere titolarità ad agire anche a protezione di posizioni individuali – specifichi di agire a tutela dell’interesse diffuso, dimostrando di aver adempiuto all’onere di diffida. Ciò mette il giudice in condizione subito di qualificare la domanda e verificarne l’ammissibilità, onde procedere agli adempimenti di pubblicità prescritti.
Pertanto si suggerisce di riformulare i commi 1 e 2 come segue:
“l. Costituisce condizione di ammissibilità del ricorso una diffida all’amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati. La diffida è notificata all’organo di vertice dell’amministrazione o del concessionario, i quali, nel termine di trenta giorni, assumono le iniziative opportune per garantire che siano assunte misure idonee, individuando il settore in cui si è verificata la violazione, omissione o mancato adempimento di cui all’art. 1 , comma 1 e sollecitando il dirigente competente a rimuoverne le cause. Le iniziative assunte sono comunicate all’interessato, al quale sono altresì rese note le misure adottate. Le pubbliche amministrazioni determinano per ciascuno dei compiti rientranti nella loro missione il procedimento da seguire.
2. L’’azione può essere proposta se, nei termini di cui al comma 1, l’amministrazione o il concessionario non provvede o provvede in modo parziale o inadeguato, e comunque non oltre un anno dopo la proposizione della diffida. Il ricorrente ha l’onere di allegare al ricorso la diffida rivolta all’amministrazione o al concessionario, specificando di agire ai sensi dell’art. 1 .
Sempre nell’art. 3, al comma 3 la devoluzione alla giurisdizione esclusiva deve essere accompagnata – come previsto dalla legge delega – dagli attributi esclusiva e di merito. Inoltre, per evitare la triplice ripetizione della radice “giud” (giudizio, giurisdizione, giudice) appare preferibile sostituire il termine “giudizio” con quello di “ricorso”, in linea, peraltro, con la tecnica linguistica tradizionalmente adottata dal legislatore (che attribuisce al giudice amministrativo i “ricorsi” in determinate materie e non già “i giudizi”). In ordine a tale disposizione resta aperto il problema della disciplina processuale, che, pur dovendo essere ricalcata sul modello previsto dall’ordinamento per le ipotesi di giurisdizione esclusiva e di merito, può contenere specificazioni, onde adeguare il rito alla peculiarità dell’azione collettiva. La soluzione preferibile, anche alla luce del generico tenore della delega, appare allo stato il rinvio alla disciplina comune, senza clausola di compatibilità.
Un rilievo può, tuttavia, essere formulato subito e riguarda il delicato tema dell’istruttoria, apparendo opportuno che il riferimento alla giurisdizione di merito si accompagni all’esplicito richiamo dei penetranti poteri istruttori di cui il giudice dispone (art. 44, comma 2 r.d. n. 1054 del 1924, secondo cui nei giudizi di merito il Consiglio di Stato può inoltre ordinare qualunque altro mezzo istruttorio, nei modi determinati dal regolamento di procedura, e art. 27 del r.d. n. 642 del 1907 secondo cui la sezione quinta – tutte le sezioni giurisdizionali per effetto del r.d. 20 dicembre 1923, n. 2840, con cui è venuta meno la separazione di competenza tra le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato – può assumere testimoni, eseguire ispezioni, ordinare perizie e fare tutte le altre indagini che possono condurre alla scoperta della verità, coi poteri attribuiti al magistrato dal codice di procedura civile e con le relative sanzioni).
Un testo “minimo” può essere il seguente:
3. Il ricorso è devoluto alla giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo. Al giudizio si applicano l’articolo 44, comma 2 del Regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 e l’articolo 27 del Regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, nonché le altre disposizioni generali in materia.
Articolo 4.
Nell’art. 4, che disciplina contenuto e pubblicità della sentenza che definisce il giudizio, è opportuno che ai commi 2 e 4 sia inserita in chiusura una clausola generale sulla pubblicazione del tenore “o con altre modalità idonee, che spetterà al giudice stabilire secondo i casi”. Inoltre l’esordio del comma 2, che può dare adito ad equivoci in relazione al provvedimento con cui il giudice ordina la pubblicazione della sentenza, appare meglio formulato come segue: “La sentenza che definisce il giudizio ne dispone la pubblicazione, […]”
Nel comma 3 occorre eliminare la frase “individua i soggetti responsabili delle violazioni ed”, che assegna alla giurisdizione amministrativa una funzione che non gli è propria e si pone in contrasto con la delega (criterio n. 5, secondo cui la sentenza definitiva comporta l’obbligo di attivare le procedure relative all’accertamento di eventuali responsabilità disciplinari e dirigenziali, ciò implicando che non sia il giudice amministrativo ad effettuare tale accertamento)
Articolo 5.
Nell’art. 5, che disciplina l’inottemperanza alla sentenza, al comma 2 è prevista l’applicazione automatica della perdita della retribuzione di risultato a carico dei “soggetti per i quali la sentenza ha accertato il concorso a cagionare l’inefficienza o la carenza organizzativa”. Orbene, a parte la necessità di usare la formula diversa “i soggetti sostituiti dal commissario”, atteso che, come prima rilevato, la sentenza non accerta inadempienze soggettive, è nel merito che la disposizione lascia perplessi.
Proprio la mancanza di un accertamento di responsabilità in sede giudiziaria induce a ritenere preferibile che eventuali interventi sanzionatori siano effettuati, previe le opportune valutazioni, dalle autorità sovraordinate.
Conclusivamente, il comma potrebbe essere così formulato: “2. Le autorità sovraordinate procedono ad una rigorosa indagine per accertare se e in che misura i soggetti sostituiti abbiano concorso a cagionare l’inefficienza o la carenza organizzativa, adottando le conseguenti, idonee misure, ivi compresa la perdita totale o parziale della retribuzione di risultato.”.
P.Q.M.
Il parere è nelle suesposte considerazioni.
Il Presidente della Sezione (Giancarlo Coraggio)
Il relatore estensore (Francesco Bellomo)