Riportiamo di seguito l’articolo, a firma di Carmelo Giurdanella e di Elio Guarnaccia, pubblicato sulla rivista eGov, in ordine ai contenuti del progetto governativo di revisione del Codice dell’Amministrazione Digitale, in esecuzione dalla delega contenuta all’art. 33 della Legge n. 69/2009.
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Carmelo Giurdanella – Elio Guarnaccia
La riforma del codice dell’amministrazione digitale: I Diritti digitali
(rivista eGov, Maggioli editore, 2010)
1) Cosa prevedeva il D. Lgs. n. 82/2005
2) Cosa prevede la bozza governativa di riforma
3) Cosa dovrebbe prevedere la riforma del CAD
1) Cosa prevedeva il D. Lgs. n. 82/2005
Il Capo I del Codice dell’Amministrazione Digitale attualmente vigente, disciplina, sin dalla prima stesura, i diritti cd. “digitali” di cittadini e imprese, sebbene su un piano ancora programmatico e non precettivo: in particolare, la partecipazione al procedimento amministrativo informatico (art. 4), i pagamenti con modalità informatiche (art. 5), l’utilizzo della posta elettronica certificata (art. 6), la partecipazione democratica elettronica (art. 9), gli sportelli per le attività produttive (art. 10) ed il registro informatico degli adempimenti amministrativi per le imprese (art. 11).
Si tratta di norme che, almeno sulla carta, data ormai per acquisita la necessità di un’informatizzazione organica della PA, avrebbero dovuto costituire un sistema organico di garanzie per gli utenti della PA “digitalizzanda”; in altri termini, un insieme di diritti che, come cartina di tornasole, avrebbero dovuto contrapporsi agli obblighi di digitalizzazione in capo agli amministratori pubblici, stimolandone l’adempimento e, in ultima analisi, rendendoli effettivi.
La norma chiave di tale sistema – che, in uno, avrebbe dovuto realizzare, sia un indiretto strumento di controllo della PA, sia un strumento concreto di tutela del cittadino – sarebbe dovuto essere l’art. 3, il famigerato “diritto all’uso delle tecnologie”. Ed infatti, ad una prima lettura certamente dirompente, avrebbe dovuto costituire lo strumento di cui i cittadini avrebbero potuto ottenere un controllo giurisdizionale sull’uso del ICT da parte delle amministrazioni, tutte le volte in cui i diritti di cui sopra, elencati al Capo I del CAD, sarebbero stati in concreto violati.
Ora, all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69/2009, l’art. 3 del Codice dell’Amministrazione Digitale, rubricato “Diritto all’uso delle tecnologie”, si presentava così, sostanzialmente inalterato rispetto alle modifiche apportate dal primo decreto legislativo correttivo:
“1. I cittadini e le imprese hanno diritto a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni e con i gestori di pubblici servizi statali nei limiti di quanto previsto nel presente codice.
1-bis. Il principio di cui al comma 1 si applica alle amministrazioni regionali e locali nei limiti delle risorse tecnologiche ed organizzative disponibili e nel rispetto della loro autonomia normativa.
1-ter. Le controversie concernenti l’esercizio del diritto di cui al comma 1 sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.”
In seguito, come è noto, si è assistito al fallimento dell’azione giurisdizionale di cui all’art. 3, sostanzialmente rimasta inutilizzata, e che, in quanto norma di chiusura e di salvaguardia del sistema sopra descritto, ha finito per portare con sé, nel dimenticatoio, diritti digitali ed obblighi connessi, che nel frattempo non hanno trovato altre forme di attuazione e tutela.
E ciò risulta ancor più grave, se si considera che si tratta di norma certamente efficace ed applicabile su tutto il territorio nazionale, data la sua natura processuale.
Quali le ragioni di un simile fallimento?
In sintesi, almeno tre:
– i fortissimi limiti al suo esercizio nei confronti delle amministrazioni regionali e locali;
– la sua portata, circoscritta ai soli aspetti concernenti le “comunicazioni” in senso stretto con la PA;
– la mancata previsione di un rito processuale speciale, acceleratorio e semplificato, che potesse consentire al cittadino e, soprattutto, all’impresa, di chiedere al Giudice un intervento di più ampio spettro e di immediata efficacia sulle modalità digitali di esercizio dell’azione amministrativa.
2) Cosa prevede la bozza governativa di riforma
Tuttavia, neanche la bozza del decreto correttivo oggi in esame affronta in modo concreto l’inattuazione dell’art. 3, peggiorando, semmai, la situazione, laddove ha operato, almeno sulla carta, un “giro di vite” riguardo alla portata dei cd. diritti digitali, che tuttavia continueranno a rimanere privi di un concreto strumento di tutela giurisdizionale. Ed infatti, da un lato si assiste all’introduzione di ulteriori forme di pagamenti informatici, si ribadisce la diffusione e l’uso della PEC, l’accesso ai servizi in rete, l’utilizzo della firma digitale, la dematerializzazione dei documenti e l’arricchimento dei contenuti dei siti istituzionali; dall’altro lato, a valle, non si scorge un corrispondente rafforzamento dei relativi strumenti di tutela, peraltro già previsti dal vecchio CAD.
Vero è che il nuovo articolo 3 amplia il suo ambito di applicazione, estendendolo alle società interamente partecipate da enti pubblici, alla società a prevalente capitale pubblico, e soprattutto, alle Amministrazioni regionali e locali, ma il problema rimane la sua concreta azionabilità.
D’altronde, quanto all’estensione a regioni ed enti locali, si trattava di un passaggio quasi obbligato per il Legislatore Delegato, che aveva già sorvolato sulle perplessità sollevate sul punto, già quattro anni fa, dal Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, nel Parere relativo al primo decreto correttivo del CAD (Adunanza del 30 gennaio 2006).
Ma la bozza di decreto oggi in commento null’altro dice, mantenendo cristallizzato l’ambito oggettivo di applicazione (le mere “comunicazioni” con la PA), e lasciando irrisolta la più concreta questione sul rito processuale da adottare.
3) Cosa dovrebbe prevedere la riforma del CAD
Le proposte che possono formularsi in queste sede, si sviluppano in una triplice prospettiva.
In primis, sarebbe quanto mai opportuno liberare l’operatività della norma dalle sole “comunicazioni” con le pubbliche amministrazioni, e ciò peraltro sulla scorta, anche questa volta, dello stesso Consiglio di Stato sopra citato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, secondo cui “qualche perplessità suscita l’ulteriore limite oggettivo della disposizione che prevede l’azionabilità del diritto all’uso delle tecnologie nei soli aspetti concernenti la comunicazione e non, in una visione più ampia, all’intero spettro dei rapporti tra cittadino-impresa e amministrazione a partire dall’avvio del procedimento, passando per i momenti partecipativi, fino all’accesso agli atti.” In sostanza, l’ottica del Legislatore Delegato non dovrebbe essere quella delle comunicazioni, ma, di più, quella del procedimento amministrativo, in tutte le sue estrinsecazioni e manifestazioni.
E proprio in quest’ottica, dunque, che si innesta la seconda proposta, relativa all’art. 4 CAD, sulla “partecipazione al procedimento amministrativo telematico”, articolo che peraltro, al momento, non è stato ancora interessato dalla bozza di correttivo oggi in questione.
L’art. 4, infatti, da un lato prevede, genericamente, la partecipazione al procedimento amministrativo mediante l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (comma 1), dall’altro lato, attribuisce al cittadino ed all’impresa la facoltà di trasmettere qualsivoglia atto e documento alle pubbliche amministrazioni con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (comma 2). Anche in questo caso, dunque, nulla più di una previsione programmatica che, più che un diritto, pare essere un principio, come al solito, svuotato di qualsiasi forza precettiva.
Tale norma, a nostro avviso, andrebbe dunque integrata con una previsione che imponga un corrispondente obbligo in capo ad ogni amministrazione procedente: opportuno sarebbe, infatti, che le PA indicassero, con apposito regolamento, uno o più strumenti di comunicazione telematica a distanza per ogni procedimento amministrativo di propria competenza, sul modello di quanto dispone l’art. 2, legge n. 241/90 sulla conclusione del procedimento amministrativo. In tal modo, sarebbe scongiurato il rischio per il cittadino, che volesse intraprendere un rapporto procedimentale per via telematica con la PA, di vedersi qualificare la propria istanza come inammissibile e, ancor peggio, non più proponibile – neppure nelle forme consentite – per la sopravvenuta scadenza del relativo termine.
Un regolamento di tal fatta, inoltre, faciliterebbe il compito del Giudice Amministrativo eventualmente adito ai sensi dell’art. 3 comma 1-ter, il quale, una volta accertata la pretesa del ricorrente sulla scorta del suddetto regolamento, si dovrebbe semplicemente limitare a chiederne l’attuazione all’amministrazione resistente, anche con decreto inaudita altera parte.
Infine, la terza proposta – strettamente connessa alla precedente – riguarda l’individuazione di un rito processuale speciale, da adottare specificamente per tale materia, peraltro già espressamente prevista e menzionata dalla bozza di Codice del Processo Amministrativo all’art. 150, comma 1, lett. w), tra le materie ricadenti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Allo stato, il rito speciale più adatto sembra essere quello attualmente previsto dall’art. 25, comma 5 e ss. della L. 241/1990, che disciplina la tutela del diritto di accesso, secondo cui al comma 5, legge n. 241/90, “contro le determinazioni amministrative … è dato ricorso, nel termine di trenta giorni, al tribunale amministrativo regionale, il quale decide in camera di consiglio entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta”.
In tal modo, infatti, il giudizio in questione ovvierebbe all’eventuale mancata adozione del regolamento sopra ipotizzato.
Carmelo Giurdanella – Elio Guarnaccia