“Il legislatore ha ammesso la proposizione dell’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico da parte della procura operante presso il giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla categoria dei ‘delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione’.
La formulazione della disposizione non consente di ritenere che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per responsabilità amministrativa ai sensi dell’art. 103 Cost.
Deve, quindi, ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa.
In altri termini, non è condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria.
La norma deve essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria”.
. . . .
Corte Costituzionale
Sentenza 15 dicembre 2010 n. 355
(presidente De Siervo, relatore Quaranta)
(…)
Considerato in diritto
(…)
6.— Nel merito, pertanto, devono essere esaminate le censure rivolte nei confronti di quella parte della disposizione impugnata che pone limiti al risarcimento del danno per lesione all’immagine della pubblica amministrazione, secondo le prospettazioni delle ordinanze di rimessione.
Al riguardo, in via preliminare, è necessario individuare, anche al fine di una corretta delimitazione del thema decidendum, l’esatta portata della normativa impugnata.
Il legislatore ha ammesso la proposizione dell’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico da parte della procura operante presso il giudice contabile soltanto in presenza di un fatto di reato ascrivibile alla categoria dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione»; ciò per effetto del richiamo, contenuto nella norma censurata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che fa, appunto, espresso riferimento ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale.
Non vi è dubbio che la formulazione della disposizione non consente di ritenere che, in presenza di fattispecie distinte da quelle espressamente contemplate dalla norma impugnata, la domanda di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione possa essere proposta innanzi ad un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei conti, adita in sede di giudizio per responsabilità amministrativa ai sensi dell’art. 103 Cost. Deve, quindi, ritenersi che il legislatore non abbia inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore di altra giurisdizione, e segnatamente di quella ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell’immagine dell’amministrazione imputabile a un dipendente di questa. In altri termini, non è condivisibile una interpretazione della normativa censurata nel senso che il legislatore abbia voluto prevedere una responsabilità nei confronti dell’amministrazione diversamente modulata a seconda dell’autorità giudiziaria competente a pronunciarsi in ordine alla domanda risarcitoria. La norma deve essere univocamente interpretata, invece, nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all’immagine dell’ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria.
Del resto, costituisce dato pacifico, come riconosciuto anche da questa Corte con la sentenza n. 371 del 1998, sulla quale si ritornerà nel prosieguo, che la limitazione della responsabilità amministrativa, sul piano soggettivo, al dolo o alla colpa grave, non implica che il dipendente pubblico, qualora la sua condotta si caratterizzi per la presenza di un minore grado di colpa, possa essere evocato in giudizio innanzi ad una autorità giudiziaria diversa dal giudice contabile.
7.— Così definita la portata della disposizione impugnata, si può passare ad analizzare le singole doglianze prospettate dai giudici a quibus. In questa analisi si procederà mediante un accorpamento delle diverse questioni, avendo riguardo ai parametri costituzionali evocati.
8.— In tale indagine, ha carattere prioritario la censura relativa all’art. 77 Cost. In particolare, con la richiamata ordinanza n. 125 del 2010, la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lombardia lamenta la mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, ai fini dell’emanazione della norma contestata, che – a suo dire – dovrebbero sussistere anche in relazione alle norme, quale quella in esame, introdotte soltanto in sede di conversione in legge del decreto-legge n. 78 del 2009.
La questione non è fondata.
Questa Corte, in passato, ha affermato che, con riferimento alla adozione di nuove norme da parte del Parlamento nel corso dell’esame di un disegno di legge di conversione di un decreto-legge, non è pertinente il richiamo all’art. 77 Cost. Ciò in quanto «la valutazione preliminare dei presupposti della necessità e dell’urgenza investe (…), secondo il disposto costituzionale, soltanto la fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, né può estendersi alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina “aggiunta” a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che – a differenza di quella espressa con la decretazione d’urgenza del Governo – non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione» (sentenza n. 391 del 1995).
Successivamente, però, questa stessa Corte, con la sentenza n. 171 del 2007, ha mutato orientamento sul punto, precisando − dopo aver ribadito che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge − che «le disposizioni della legge di conversione in quanto tali» – nei limiti, cioè, in cui «non incidono in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto», come nel caso (allora) in esame – «non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso». La Corte ha aggiunto che «a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.) e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l’iter dei disegni di legge proposti dal Governo».
Seguendo il suddetto più recente orientamento, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto.
Orbene, nella specie, per le ragioni che meglio risulteranno nel prosieguo della motivazione, la norma contenuta nel comma 30-ter, aggiunto all’art. 17 del decreto-legge n. 78 del 2009, non si trova in una condizione di totale eterogeneità rispetto al contenuto del decreto-legge in esame; sicché rispetto ad essa rileva la indispensabile sussistenza dei requisiti di necessità e di urgenza.
I giudici remittenti, a questo riguardo, osservano che la norma censurata sarebbe priva di siffatti requisiti.
A giudizio di questa Corte, invece, deve in contrario osservarsi, innanzi tutto, che la valutazione in ordine alla sussistenza, in concreto, dei requisiti in parola è rimessa al Parlamento all’atto della approvazione dell’emendamento ora oggetto di censure. Tale valutazione non deve tradursi in una motivazione espressa, che sarebbe incompatibile con le caratteristiche del procedimento di formazione legislativa. Né, a questo riguardo, può assumere rilievo il contenuto del preambolo allo stesso decreto-legge che, proveniente dal Governo, concerne le sole disposizioni originarie del medesimo provvedimento.
In realtà, la suindicata valutazione è rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata innanzi a questa Corte soltanto se essa sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, ovvero per mancanza evidente dei presupposti (sentenza n. 116 del 2006). Evenienze queste che non possono ritenersi sussistenti nella specie, in quanto non è dato evincere la carenza, nella censurata disposizione introdotta dal Parlamento in sede di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, dei necessari presupposti di necessità ed urgenza. Né, sotto altro aspetto, può ritenersi che la norma stessa sia del tutto dissonante rispetto al contenuto della decretazione di urgenza emessa con il citato decreto-legge nel quadro generale di «provvedimenti anticrisi, nonché proroga dei termini». E ciò con specifico riguardo alla esigenza di limitare ambiti, ritenuti dal legislatore troppo ampi (come, d’altronde, dimostrano il numero delle ordinanze di remissione e – soprattutto – la tipologia delle contestazioni), di responsabilità dei pubblici dipendenti cui sia imputabile la lesione del diritto all’immagine delle amministrazioni di rispettiva appartenenza.
A questo proposito, può ritenersi palese l’intento del legislatore di intervenire in questa materia sulla base della considerazione secondo cui l’ampliamento dei casi di responsabilità di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, è suscettibile di determinare un rallentamento nell’efficacia e tempestività dell’azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, è demandato l’esercizio dell’attività amministrativa. D’altronde, a tale precipuo scopo risulta preordinato lo stesso potere discrezionale del giudice contabile (c.d. “potere riduttivo”) di graduare la condanna sulla base della gravità della colpa, così determinando il debito risarcitorio del convenuto (sentenze n. 184 e n. 183 del 2007). Ed allo stesso scopo è preordinata anche la limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di dolo o colpa grave (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998).
Sotto altro aspetto, deve pure osservarsi che, nella stessa ottica finalistica, il legislatore – come emerge chiaramente dal tenore delle rispettive previsioni normative – ha introdotto, anche in questo caso ex novo nel testo del decreto-legge n. 78 del 2009, ulteriori disposizioni contenute nei commi 30-bis e 30-quater. Esse perseguono lo scopo, da un lato, di attenuare il regime dei controlli della Corte dei conti e, dall’altro lato, di limitare ulteriormente l’area della gravità della colpa del dipendente incorso in responsabilità, proprio all’evidente scopo di consentire un esercizio dell’attività di amministrazione della cosa pubblica, oltre che più efficace ed efficiente, il più possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi, per chi è chiamato, appunto, a porla in essere.
In definitiva, dunque, la stessa ampiezza della disposizione della rubrica del decreto-legge in questione, nonché il complessivo quadro legislativo che deriva dalle originarie disposizioni della decretazione di urgenza e da quelle, aggiuntive, contenute nella relativa legge di conversione, consentono di ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei meccanismi, previsti con il citato decreto-legge, aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il Paese.
9.— In più ordinanze di rimessione sono state formulate, sia pure con argomentazioni non sempre coincidenti tra loro, censure volte a denunciare l’asserita violazione dell’art. 3 Cost., in alcuni casi richiamato unitamente all’art. 97 Cost.
Un primo gruppo di ordinanze ha prospettato la irragionevolezza della norma, sul piano oggettivo, per avere il legislatore limitato il risarcimento del danno ai soli casi in cui sia stato commesso un delitto contro la pubblica amministrazione e non anche in presenza di condotte non delittuose altrettanto gravi (reg. ord. n. 24, n. 27, n. 44 e n. 125 del 2010) ovvero in presenza di reati diversi da quelli espressamente indicati (reg. ord. n. 26, n. 27 e n. 44 del 2010).
La questione non è fondata.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta, conformare le fattispecie di responsabilità amministrativa, valutando le esigenze cui si ritiene di dover fare fronte. Senza volere indagare in questa sede quale sia la effettiva natura della responsabilità derivante dalla lesione del diritto all’immagine di un ente pubblico, è indubbio che la responsabilità amministrativa, in generale, presenti una peculiare connotazione, rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, che deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998). In questa prospettiva, il legislatore ha, tra l’altro, il potere di delimitare l’ambito di rilevanza delle condotte perseguibili, stabilendo, «nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza», quanto «del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (citata sentenza n. 371 del 1998).
Nel caso in esame, il legislatore ha ulteriormente delimitato, sul piano oggettivo, gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo la risarcibilità del danno per lesione dell’immagine dell’amministrazione soltanto in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare categoria di delitti. La scelta di non estendere l’azione risarcitoria anche in presenza di condotte non costituenti reato, ovvero costituenti un reato diverso da quelli espressamente previsti, può essere considerata non manifestamente irragionevole. Il legislatore ha ritenuto, infatti, nell’esercizio della predetta discrezionalità, che soltanto in presenza di condotte illecite, che integrino gli estremi di specifiche fattispecie delittuose, volte a tutelare, tra l’altro, proprio il buon andamento, l’imparzialità e lo stesso prestigio dell’amministrazione, possa essere proposta l’azione di risarcimento del danno per lesione dell’immagine dell’ente pubblico. In altri termini, la circostanza che il legislatore abbia inteso individuare esclusivamente quei reati che contemplano la pubblica amministrazione quale soggetto passivo concorre a rendere non manifestamente irragionevole la scelta legislativa in esame.
In definitiva, pertanto, la particolare struttura e funzione della responsabilità amministrativa, unitamente alla valutazione della specifica natura del bene giuridico protetto dalle norme penali richiamate dalla disposizione impugnata, rende non palesemente arbitraria la scelta con cui è stato delimitato il campo di applicazione dell’azione risarcitoria esercitatile dalla procura operante presso le sezioni della Corte dei conti.
10.— Le medesime ordinanze di rimessione prospettano, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sul piano soggettivo, per la disparità di trattamento che la norma censurata determinerebbe tra dipendenti e amministratori dell’ente pubblico, questi ultimi esclusi dall’ambito applicativo della norma per effetto del richiamo, da parte della disposizione impugnata, all’art. 7 della legge n. 97 del 2001, il quale ammette il risarcimento del danno all’immagine dell’amministrazione per i soli dipendenti di questa (reg. ord. n. 25, n. 26, n. 27 e n. 125 del 2010). Altro profilo di violazione dell’art. 3 Cost. per asserita disparità di trattamento è dedotto con riferimento alle posizioni dei dipendenti, da un lato, e delle persone giuridiche, dall’altro (reg. ord. n. 24 del 2010), o tra la pubblica amministrazione e altri soggetti dell’ordinamento, «in quanto il deterioramento dell’immagine della prima non è sanzionato se non in casi limite» rappresentati «dalla commissione di gravi delitti, mentre quello dei secondi è ben tutelato in tutti i casi di commissione di illecito di non rilievo penale» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010; in analogo senso reg. ord. n. 125 del 2010).
Le questioni prospettate sono in parte inammissibili e in parte non fondate.
È, innanzi tutto, inammissibile quella relativa alla dedotta disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico, contemplati espressamente dalla norma (art. 7 della legge n. 97 del 2001) cui fa rinvio la disposizione impugnata, e gli amministratori dell’ente stesso cui, invece, le due disposizioni non fanno riferimento. Ciò in quanto, prescindendo dalla condivisibilità o meno dell’interpretazione proposta da alcuni dei remittenti (comunque rimessa ai giudici competenti) che esclude gli amministratori pubblici dalla sfera di applicazione della norma in esame, in nessuna delle ordinanze di remissione, che propongono la questione, i giudici a quibus si sono posti il problema del tipo di responsabilità per danni arrecati dagli amministratori dell’ente per violazione dell’immagine di quest’ultimo e, conseguentemente, dell’autorità giudiziaria eventualmente competente a conoscere della correlata vicenda contenziosa. Essi, infatti, avrebbero dovuto esplorare la percorribilità di soluzioni costituzionalmente orientate, prima di sollevare la questione di costituzionalità della norma ora impugnata.
Quanto poi alle restanti censure relative alla presunta disparità di trattamento tra la situazione giuridica del dipendente, da un lato, e quelle delle persone giuridiche private e pubbliche, dall’altro, deve rilevarsene la non fondatezza, attesa la eterogeneità delle situazioni poste a confronto.
11.— Ancora con riferimento all’art. 3 Cost., deve essere esaminata la censura con cui alcuni remittenti deducono, da un lato, la irragionevolezza derivante dall’inserimento di una norma, che comporta un maggiore esborso economico, in un testo legislativo che persegue, quale principale finalità, quella di adottare misure idonee a fronteggiare l’attuale crisi economica (reg. ord. n. 24, 44 e 125 del 2010), nonché, dall’altro, la mancata valutazione, nel corso della «brevissima discussione» svolta in sede di conversione, della portata e delle conseguenze che sarebbero derivate dalla sua applicazione; né sarebbero emerse esigenze di natura finanziaria o di interesse pubblico idonee a giustificare la introduzione nel sistema della norma censurata (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Tali questioni non sono fondate.
A prescindere da valutazioni, sulle quali si ritornerà tra breve, circa la correttezza dell’assunto secondo cui la norma censurata comporterebbe una maggiore spesa per la pubblica amministrazione, deve ritenersi, in relazione alla prima questione, come non possa considerarsi manifestamente irragionevole il precetto normativo in esame, almeno avendo riguardo alla peculiarietà della vicenda oggetto del presente giudizio.
Con riferimento poi alla seconda doglianza, è sufficiente rilevare come non occorra che gli atti legislativi contengano una motivazione, ovvero che questa comunque risulti dal loro iter di approvazione, circa le esigenze che è necessario assicurare, essendo sufficiente che la norma stessa non sia viziata da palese irragionevolezza o arbitrarietà.
12.— Infine, è destituita di fondamento la ulteriore censura, prospettata anch’essa con riferimento all’art. 3 Cost., con cui si lamenta che la disposizione in esame comporterebbe una evidente disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico che, avendo commesso uno dei delitti contro la pubblica amministrazione, sono sottoposti alla giurisdizione contabile, e dipendenti che, pur avendo commesso un altro delitto con abuso delle funzioni ricoperte e nell’esercizio delle stesse, «sono sottoposti, per il risarcimento del danno all’immagine, alla giurisdizione ordinaria, con un differente regime processuale e prescrizionale» (reg. ord. n. 44 del 2010).
A tale riguardo, è sufficiente richiamare quanto già sopra precisato (punto 6) in ordine alla definizione del campo di applicazione della norma e, in particolare, ai limiti con i quali tale tipologia di responsabilità è stata configurata dal legislatore e alla esclusione di forme di concorrenza di altre giurisdizioni in relazione a fattispecie diverse da quelle contemplate dalla norma stessa.
13.— Sotto altro aspetto taluni giudici remittenti assumono la violazione dell’art. 2 Cost., in un caso evocato unitamente all’art. 24 Cost. (reg. ord. n. 24 del 2010), in quanto tale norma, da leggere in combinato disposto con l’art. 2059 del codice civile (reg. ord. n. 125 del 2010), imporrebbe una tutela piena, e non limitata, come nel caso in esame, dei diritti della personalità, tra i quali deve essere ricompreso quello all’immagine della pubblica amministrazione (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 125 del 2010).
La questione non è fondata.
La tutela dei diritti della persona ha conosciuto negli ultimi anni una complessa evoluzione, con particolare riferimento alla portata e all’ampiezza del risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla loro lesione.
Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell’art. 2059 cod. civ. – nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto nei casi previsti dalla legge – si riteneva che la legge richiamata fosse esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale – inteso come danno morale subiettivo (sentenza n. 184 del 1986) – era, pertanto, necessario che la condotta posta in essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.
La successiva giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 233 del 2003) e anche della Corte di cassazione (Cass., Sezioni unite, sentenza 11 novembre 2008, n. 26972) – dopo avere spostato il centro dell’analisi sul danneggiato, e dunque sui profili restitutori, e dopo avere identificato l’esatta natura del danno non patrimoniale come avulsa da qualunque forma di rigidità dommatica legata all’impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni – ha allargato le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti gli altri requisiti richiesti ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti dal legislatore, quando viene leso un diritto della persona costituzionalmente tutelato. In definitiva, l’attuale sistema della responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è, pertanto, essenzialmente un sistema bipolare. La Corte di cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha, inoltre, elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a selezionare l’area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972 del 2008). Di significativo rilievo, in particolare, sono le considerazioni che le Sezioni unite hanno espresso in ordine al fatto: che la lesione deve riguardare un interesse di rilievo costituzionale; l’offesa deve essere grave, nel senso che deve superare una soglia minima di tollerabilità; il danno deve essere risarcito quando non sia futile, vale a dire riconducibile a mero disagio o fastidio.
Inoltre, per quanto attiene specificamente alla responsabilità per violazione dell’immagine dell’ente pubblico, deve rilevarsi, in linea con quanto affermato dalla Cassazione con la stessa sentenza n. 26792 del 2008, che il relativo danno, in ragione della natura della situazione giuridica lesa, ha valenza non patrimoniale e trova la sua fonte di disciplina nell’art. 2059 cod. civ. D’altra parte, il riferimento, contenuto nella giurisprudenza della Corte dei conti, alla patrimonialità del danno stesso – in ragione della spesa necessaria per il ripristino dell’immagine dell’ente pubblico – deve essere inteso come attinente alla quantificazione monetaria del pregiudizio subito e non alla individuazione della natura giuridica di esso.
Né può ritenersi che l’inquadramento della responsabilità per la lesione del diritto all’immagine dell’ente pubblico nell’ambito della responsabilità amministrativa, devoluta alla giurisdizione contabile della Corte dei conti, possa condurre ad una diversa qualificazione della peculiare forma di responsabilità disciplinata dalla norma ora censurata.
Nondimeno, deve rilevarsi che la responsabilità amministrativa presenta, per le ragioni già esposte, una struttura ed una funzione diverse da quelle che connotano la comune responsabilità civile. Non si può, pertanto, lamentare, come fanno taluni giudici a quibus, la violazione dell’art. 2 Cost., evocando l’elaborazione giurisprudenziale che ha avuto riguardo a tale forma di responsabilità per violazione di diritti costituzionalmente protetti della persona umana.
Identificato, infatti, il danno derivante dalla lesione del diritto all’immagine della p.a. nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha di sé in conformità al modello delineato dall’art. 97 Cost., è sostanzialmente questa norma costituzionale ad offrire fondamento alla rilevanza di tale diritto.
Né varrebbe richiamare, data la specialità della relativa norma e la ratio che ne ha giustificato l’introduzione nel sistema, quanto stabilito dall’art. 69 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), il quale riconosce la possibilità, ricorrendo i presupposti specificamente ivi contemplati, di condannare il dipendente al risarcimento dei danni all’immagine subiti dall’amministrazione di appartenenza in conseguenza di sue assenze ingiustificate dal lavoro.
Quanto esposto non significa che non sia possibile riconoscere l’esistenza di diritti “propri” degli enti pubblici e conseguentemente ammettere forme peculiari di risarcimento del danno non patrimoniale nel caso in cui i suddetti diritti vengano violati. Ma tale riconoscimento deve necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di assicurare il prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione (sentenza n. 172 del 2005). In questa prospettiva, non è manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell’immagine dell’amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica.
Sulla base delle suindicate considerazioni, la norma censurata non può ritenersi in contrasto con l’art. 2 Cost., in quanto la peculiarità del diritto all’immagine della pubblica amministrazione, unitamente all’esigenza di costruire un sistema di responsabilità amministrativa in grado di coniugare le diverse finalità prima richiamate, può giustificare una altrettanto particolare modulazione delle rispettive forme di tutela.
14.— Secondo taluni giudici remittenti, sarebbe violato, altresì, l’art. 24 Cost., in quanto la previsione contenuta nella disposizione censurata si risolverebbe in una limitazione del diritto della pubblica amministrazione di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi (reg. ord. n. 44 e n. 145 del 2010). Tale parametro costituzionale viene evocato, in alcune ordinanze (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010), unitamente all’art. 113 Cost., che non ammette «alcuna limitazione alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi in materia di funzione amministrativa». Secondo, poi, l’ordinanza n. 125 del 2010, l’art. 24 Cost. sarebbe violato, in quanto «l’irrazionale e macchinoso “doppio binario”» (giudice contabile, ricorrendo i presupposti previsti dalla norma censurata, e giudice ordinario negli altri casi) inciderebbe sulla legittimazione ad agire del pubblico ministero, «con una presumibile minore tutela dell’erario, in carenza di un organo dotato di strumenti di indagine e poteri istruttori di cui gli ordinari uffici pubblici certo non possono disporre».
La questione non è fondata.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che la garanzia apprestata dall’art. 24 Cost. «opera attribuendo la tutela processuale delle situazioni giuridiche soggettive nei termini in cui queste risultano riconosciute dal legislatore; di modo che quella garanzia trova confini nel contenuto del diritto al quale serve, e si modella sui concreti lineamenti che il diritto riceve dall’ordinamento» (ex multis, sentenze n. 453 e n. 327 del 1998). Pertanto, una volta ritenuto che sia esente dai prospettati vizi di costituzionalità la configurazione ricevuta, nel caso in esame, dalla specifica situazione giuridica qui in rilievo, non è ravvisabile alcun vulnus alle conseguenti modalità di tutela processuale.
Per analoghe ragioni non è fondata la censura riferita all’art. 113 Cost.
15.— La lesione del quarto comma dell’art. 81 Cost. ad opera della norma censurata è prospettata da taluni giudici a quibus, in quanto non sarebbe stata prevista alcuna copertura finanziaria «della minore entrata imposta agli enti pubblici a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata» (in particolare, reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010).
Anche tale questione non è fondata.
La norma costituzionale evocata, prevedendo che la «legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte», è, nella specie, inconferente, in quanto l’art. 81 Cost. «attiene ai limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità amministrativa» (sentenze numeri 371 e 327 del 1998).
In ogni caso non può ritenersi che una astratta limitazione del risarcimento del danno spettante alla pubblica amministrazione, determinando una possibile minore entrata, comporti «nuove o maggiori spese». In altri termini, non è possibile porre una equiparazione fra «nuova o maggiore spesa» ed il mancato risarcimento di danni cagionati ad una pubblica amministrazione (sentenza n. 46 del 2008). Del resto, non potendosi procedere alla quantificazione delle minori entrate, essendo tale diminuzione eventuale e comunque connessa a variabili concrete non determinabili a priori, non sarebbe neanche possibile, come sottolineato dall’Avvocatura generale dello Stato nelle sue difese, prevedere la necessaria copertura finanziaria.
16.— Alcune ordinanze di remissione evocano, sia pure sotto diversi angoli prospettici, talora in connessione con l’art. 54, l’art. 97 Cost. per lamentarne la violazione. In particolare, si osserva che, sebbene il buon andamento e l’imparzialità non costituiscano il «fondamento costituzionale della tutela dell’immagine pubblica», la «stretta relazione tra l’immagine pubblica e l’agire corretto» e la circostanza che essi costituiscono «criteri cui deve essere improntata l’azione amministrativa affinché il prestigio pubblico non venga leso», comportano che «una ridotta tutela della prima inevitabilmente indebolisce il diritto sostanziale dell’amministrazione ad agire, attraverso i propri funzionari, in modo corretto, imparziale, efficace ed efficiente» (reg. ord. n. 24 del 2010). In altre ordinanze si assume che la norma impugnata violi l’evocato parametro costituzionale in quanto: a) «determina un’alterazione della funzionalità degli enti pubblici sotto il delicato profilo della reputazione e della conseguente fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni» (reg. ord. n. 25 e n. 26 del 2010); b) «contraddice» il principio di imparzialità «che si risolve essenzialmente nel rispetto della giustizia sostanziale» e per « gli evidenti effetti distorsivi che ciò comporta sull’organizzazione della pubblica amministrazione sotto il duplice profilo della ridotta potenzialità operativa ed efficienza nella cura dell’interesse pubblico» (reg. ord. n. 145 del 2010); c) favorisce «l’irresponsabilità dei dipendenti pubblici, non più soggetti al giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti in caso di comportamenti illeciti causativi di danno all’immagine dell’ente di riferimento al di fuori delle ipotesi di reato» (reg. ord. n. 125 del 2010); d) da un lato, «indebolisce l’efficacia deterrente del giudizio di responsabilità; dall’altro, come nella presente fattispecie ed in ipotesi similari, comporta il dispendio di maggiori risorse a carico dell’erario per l’attivazione di plurimi giudizi volti ad ottenere l’“integrale” risarcimento del danno all’immagine, pur essendo state poste in essere condotte da parte di un pubblico dipendente in un unico contesto criminoso, integranti sia le ipotesi delittuose di cui al capo I del titolo II del libro II del codice penale che altre fattispecie delittuose» (reg. ord. n. 44 del 2010).
Anche tali questioni non sono fondate.
L’art. 97 Cost. impone la costruzione, sul piano legislativo, di un modello di pubblica amministrazione che ispiri costantemente la sua azione al rispetto dei principi generali di efficacia, efficienza e imparzialità. Si tratta di regole che conformano, all’“interno”, le modalità di svolgimento dell’attività amministrativa.
È indubbio come sussista una stretta connessione tra la tutela dell’immagine della pubblica amministrazione e il rispetto del suddetto precetto costituzionale. Può ritenersi, infatti, che l’autorità pubblica sia titolare di un diritto “personale” rappresentato dall’immagine che i consociati abbiano delle modalità di azione conforme ai canoni del buon andamento e dell’imparzialità. Tale relazione tendenzialmente esistente tra le regole “interne”, improntate al rispetto dei predetti canoni, e la proiezione “esterna” di esse, giustifica il riconoscimento, in capo all’amministrazione, di una tutela risarcitoria.
Il legislatore, nell’esercizio non manifestamente irragionevole della sua discrezionalità, ha ritenuto che tale tutela sia adeguatamente assicurata mediante il riconoscimento del risarcimento del danno soltanto in presenza di condotte che integrino gli estremi di fatti di reato che tendono proprio a tutelare, tra l’altro, il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa. In altri termini, il legislatore ha inteso riconoscere la tutela risarcitoria nei casi in cui il dipendente pubblico ponga in essere condotte che, incidendo negativamente sulle stesse regole, di rilevanza costituzionale, di funzionamento dell’attività amministrativa, sono suscettibili di recare un vulnus all’immagine dell’amministrazione, intesa, come già sottolineato, quale percezione esterna che i consociati hanno del modello di azione pubblica sopra descritto.
Sotto altro profilo, neppure può ritenersi che una modulazione del giudizio di responsabilità, che tenga conto dei diversi interessi in gioco, possa in qualche modo incidere negativamente sulle regole di efficienza, efficacia e imparzialità dell’azione amministrativa.
17.— In alcune ordinanze si assume anche la violazione dell’art. 103, secondo comma, Cost., in quanto non sarebbe consentito «escludere apoditticamente la giurisdizione della Corte dei conti con riferimento ad ipotesi specifiche di responsabilità rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità pubblica» (reg. ord. n. 25, n. 26 e n. 27 del 2010). Si assume, inoltre, la violazione del primo comma dell’art. 25 Cost., non essendo possibile distogliere la controversia dal giudice naturale «successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione» (reg. ord. n. 25 del 2010; reg. ord. n. 24 e n. 125 del 2010, ove si evocano, contestualmente, gli artt. 125 e 103 Cost.).
La questione non è fondata.
Il secondo comma dell’art. 103 Cost. prevede che la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.
La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa», non operando automaticamente in base al disposto costituzionale, è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario (da ultimo sentenza n. 46 del 2008).
Nel caso in esame va osservato – come si è già chiarito − che il legislatore non ha neanche inteso attribuire la cognizione di talune fattispecie di responsabilità amministrativa ad una diversa autorità giudiziaria, essendosi limitato a conformare, su un piano sostanziale, la disciplina di un particolare profilo della responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti (sentenza n. 371 del 1998).
Per quanto attiene, poi, all’asserita violazione dell’art. 25 Cost., é sufficiente rilevare come non sia la Corte dei conti «il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela da danni pubblici» (sentenza n. 641 del 1987). A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, il legislatore ha ridefinito i contorni, sul piano sostanziale ed oggettivo, della responsabilità amministrativa, escludendo la possibilità di proporre l’azione risarcitoria in mancanza degli elementi indicati dalla norma censurata, senza incidere in alcun modo sulle modalità di individuazione del giudice competente.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile l’intervento in giudizio dei signori G.A.N., P.G., G.B., G.G., R.R.;
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 30-ter, periodi secondo, terzo e quarto, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera c), numero 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, sollevate, in riferimento, da un lato, nel complesso, agli artt. 3, 24, primo comma, 54, 81, quarto comma, 97, primo comma, 103, secondo comma, e 111 della Costituzione, dall’altro, agli artt. 3, 24, 25 e 97 Cost., rispettivamente dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Umbria e dalla Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte al n. 331 del 2009 e al n. 162 del 2010 del registro ordinanze;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, con l’ordinanza, indicata in epigrafe, iscritta al n. 95 del 2010;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevata, in riferimento nel complesso agli artt. 3, 24, 103 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con l’ordinanza, indicata in epigrafe, iscritta al n. 27 del 2010;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento tra dipendenti dell’ente pubblico ed amministratori dello stesso, dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per la Campania e per la Lombardia, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte rispettivamente ai numeri 25, 26 e 27 del 2010 ed al n. 125 del 2010.
5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del predetto art. 17, comma 30-ter, periodi secondo e terzo, del decreto-legge n. 78 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103, e 113 Cost., dalla Corte dei conti, sezioni giurisdizionali per le Regioni Calabria, Campania, Lombardia e Toscana, nonché dalla sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, con le ordinanze, indicate in epigrafe, iscritte rispettivamente ai numeri 24, 25, 26, 27, 125 e 145 del 2010 ed al n. 44 del 2010.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’1 dicembre 2010. Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2010.