Mobbing: criteri necessari per una corretta pretesa risarcitoria

Occorre, per prima cosa, richiamare la definizione che il Consiglio di Stato dà sul concetto di mobbing. Nella sentenza n.3648 del 15 giugno 2011 afferma, infatti, che per mobbing si intende comunemente “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica”.

Il Consiglio di Stato nella sentenza numero 856 del 17 febbraio scorso, ha affermato che “ai fini della configurabilità di una siffatta condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio…

Nel verificare l’integrazione di una tale evenienza è quindi necessario attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro:

– da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione),

– e, dall’altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta.

E’ in primo luogo necessaria, quindi, che sia fornita la prova dell’esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue dominanti finalità i singoli atti cui viene riferito.

D’altra parte, determinati comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se può emergere che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.



Se il lavoratore non riesce a dimostrare l’organicità della strategia vessatoria a proprio carico, il Giudice avrà modo di acclarare solo l’illegittimità o meno di talune procedure attivate dal datore di lavoro”.

Di seguito, il testo della sentenza.

Consiglio di Stato, Sezione sesta

Sentenza numero 856 del 17 febbraio 2012

(estensore Garofoli, presidente Severini)

(…)

DIRITTO

Il ricorso va respinto.

Giova considerare che, come già dalla Sezione chiarito con la sentenza 15 giugno 2011, n. 3648, per mobbing si intende comunemente – in assenza di una definizione normativa – una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.

Ai fini della configurabilità di una siffatta condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Nel verificare l’integrazione di una tale evenienza è quindi necessario, anche in ragione della indeterminatezza normativa della figura, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro:

– da un lato, l’idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione),

– e, dall’altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta.

Ne consegue che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di ordinaria verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.

E’ in primo luogo necessaria, quindi, che sia fornita la prova dell’esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue dominanti finalità i singoli atti cui viene riferito.

D’altra parte, determinati comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se può emergere che vi è una ragionevole ed alternativa spiegaz
ione al comportamento datoriale.

Nella specie, non è dato escludere questo carattere con riferimento all’atto – peraltro mai contestato – di assegnazione, nel mese di aprile del 2004, alla sezione tutela degli assicurati, servizio tutela degli utenti, con funzioni di dirigente capo della sezione, alla circostanza della meno intensa partecipazione del ricorrente alle riunioni interne ed esterne, oltre che all’attività convegnistica, alla denunciata progressiva riduzione del personale della sezione alla quale è addetto il ricorrente, alla sostenuta contrazione dell’attività didattica, a livello universitario, e pubblicistica dell’appellante.

Tanto premesso, come condivisibilmente sostenuto dal giudice di primo grado, ritiene il Collegio che gli indicati elementi costitutivi della figura di mobbing non siano presenti nel caso di specie. In particolare, non può dirsi in alcun modo provata l’esistenza di un disegno persecutorio elaborato e perseguito dall’ISVAP in danno dell’odierno ricorrente.

Va sottolineato a questi riguardi che in sé un atto illegittimo, o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri ed ulteriori elementi sopra richiamati. Perciò, l’eventuale accertamento giurisdizionale dell’illegittimità degli atti della procedura per la promozione ai gradi superiori della dirigenza non permette – da sé sola considerata- di affermare l’integrazione della fattispecie di mobbing: tanto più che al riscontro della indicata illegittimità lo stesso giudice di prima istanza è pervenuto – con distinta sentenza n. 3706 del 2011 –

avendo accertato vizi di tipo solo procedimentale, in specie il difetto di motivazione della delibera gravata in relazione alla mancata predeterminazione delle posizioni dirigenziali da ricoprire.


Non è in senso più generale emersa la presenza di un complessivo disegno persecutorio qualificato da comportamenti materiali, ovvero da provvedimenti, contraddistinti da finalità di volontaria e organica vessazione nonché di discriminazione, con connotazione emulativa e pretestuosa.

A maggior ragione risulta indimostrata la complessità ed organicità della strategia vessatoria che, sola, può consentire di accedere alla prospettata ipotesi di mobbing.

Alla stregua delle esposte ragioni l’appello va quindi respinto.

Segue la condanna del ricorrente alle spese processuali, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Depositata in segreteria il 17 febbraio 2012.

Redazione

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