Il Collegio, nella sentenza n. 1260 del 6 marzo scorso, ribadisce il proprio convincimento in ordine alla circostanza che nello schema giuridico delineato dall’art. 31 del d.P.R. n. 80/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell’esecuzione di un’opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione; e, pertanto, accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull’attività edilizia (Consiglio Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2529).
Non appare neppure persuasiva la censura fondata sulla asserita impossibilità per l’appellante di procedere alla demolizione stante la pendenza di un sequestro penale sul manufatto.
Si rammenta in proposito il condivisibile orientamento della Corte di Cassazione penale – dal quale il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi- secondo cui “in tema di tutela penale del territorio, l’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l’acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune (art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380).
Di seguito il testo della sentenza.
…
Consiglio di Stato, Sezione quinta
Sentanza numero 1260 del 6 marzo 2012
(estensore Taormina, presidente Trotta)
(…)
DIRITTO
1.Stante la completezza del contraddittorio e la mancata opposizione delle parti rese edotte della possibilità di immediata definizione della causa, la controversia può essere decisa nel merito tenuto conto della palese inammissibilità e comunque infondatezza dell’appello.
1.1. Va premesso che l’appellante non ha impugnato – neppure formalmente- il capo dell’impugnata decisione dichiarativo della perenzione del ricorso proposto avverso l’ordinanza di demolizione mentre ha formalmente gravato unicamente il capo della sentenza reiettivo del ricorso avverso il provvedimento emesso in data 6 ottobre 2008 con cui il Comune (sulla base dell’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione n. 8 del 2006) aveva disposto l’acquisizione gratuita al proprio patrimonio dell’immobile e della annessa area di sedime.
1.2.Il proposto appello, tuttavia, non prospetta alcuna critica alla motivazione reiettiva resa dal primo giudice, ma si limita a ripercorrere la vicenda sotto il profilo cronologico (anche con riferimento al parallelo procedimento penale celebratosi a carico dell’appellante) ed a richiamare le norme di legge regolatrici della fattispecie.
Le censure proposte, infatti, costituiscono integrale ed acritico richiamo delle norme di legge, nell’ambito delle quali nessuna seppur embrionale argomentazione critica ha attinto la motivazione della impugnata decisione.
L’appellante è così venuto meno all’onere di specifica argomentazione delle censure.
Sul punto la giurisprudenza amministrativa, già antecedentemente alle positive prescrizioni contenute nel codice del processo amministrativo ha avuto modo costantemente di rilevare che “nonostante l’appello nel processo amministrativo sia un mezzo di impugnazione a critica libera, occorre comunque che esso contenga una critica della sentenza gravata e, dunque, specifiche censure avverso la stessa, essendo insufficiente la mera proposizione di motivi, eccezioni, argomenti, sollevati in prime cure e disattesi dalla sentenza di primo grado. La specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che la sorreggono, ragion per cui, alla “parte volitiva” dell’appello deve sempre accompagnarsi una “parte argomentativa” che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice; pertanto, è necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata.”(Consiglio Stato , sez. VI, 15 dicembre 2010 , n. 8932).
Ancora di recente, questa Sezione del Consiglio di Stato ha chiarito che “è inammissibile l’appello fondato sulla semplice riesposizione delle censure svolte in primo grado, senza specifica e concreta impugnativa dei diversi capi della sentenza gravata, atteso che l’appello ha carattere impugnatorio, sicché le censure in esso contenute devono investire puntualmente il decisum di primo grado e, in particolare, precisare i motivi, per i quali la decisione impugnata sarebbe erronea e da riformare.” (Consiglio Stato , sez. IV, 12 marzo 2009 , n. 1473).
Il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi da tale condivisibile approdo ermeneutico, dal che discende la declaratoria di inammissibilità del primo e del terzo motivo dell’appello.
1.2. Quanto alla censura secondo cui il Comune avrebbe dovuto emettere una nuova ordinanza di demolizione e di acquisizione che tenesse conto degli (ulteriori ed abusivi) manufatti medio tempore edificati dall’appellante in spregio ai procedimenti già avviati ed al sequestro penale insistente sull’immobile, essa costituisce censura nuova, in quanto non proposta in primo grado, e come tale, violando il precetto di cui all’art. 345 del codice di procedura civile (oggi: art. 104 del codice del processo amministrativo) è del pari inammissibile.
2. Per completezza rileva il Collegio che comunque il gravame è del tutto infondato.
2.1. Premesso che il Collegio ribadisce il proprio convincimento in ordine alla circostanza che nello schema giuridico delineato dall’art. 31 del d.P.R. n. 80/2001 non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo di un abuso edilizio consistente nell’esecuzione di un’opera in assenza del titolo abilitativo costituisce atto dovuto, per il quale è in re ipsa l’interesse pubblico alla sua rimozione; e, pertanto, accertata l’esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull’attività edilizia (cfr Consiglio Stato, sez. IV, 27 aprile 2004, n. 2529) nessuna delle censure appare persuasiva.
2.2. Non lo è certamente quella fondata sulla asserita impossibilità per l’appellante di procedere alla demolizione stante la pendenza di un sequestro penale sul manufatto (che egli violò più volte, violando anche i sigilli, il che gli valse l’adozione di una misura cautelare coercitiva a carico).
Si rammenta in proposito il condivisibile orientamento della Corte di Cassazione penale – dal quale il Collegio non ravvisa motivo per discostarsi- secondo cui “in tema di tutela penale del territorio, l’esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina la sospensione del termine di novanta giorni, il cui decorso comporta, in caso di inottemperanza, l’acquisizione gratuita di diritto al patrimonio del comune (art. 31 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380). (In motivazione la Corte, nell’enunciare il predetto principio, ha precisato che il sequestro non rientra tra gli “impedimenti assoluti” che non consentono di dare esecuzione all’ingiunzione, stante il disposto dell’art. 85 disp. att. c.p.p.).”(Cassazione penale , sez. III, 14 gennaio 2009 , n. 9186)
2.3. Eguale sorte segue la seconda censura proposta: secondo tale originale tesi, la circostanza che – in spregio ai provvedimenti amministrativi ed a quelli penali- l’appellante avesse proseguito i lavori abusivi, determinava (in dipendenza della circostanza che il manufatto era divenuto “ diverso” da quello descritto nella ordinanza di ingiunzione alla demolizione del 26 luglio 2006) determinava la conseguenza che il comune avrebbe avuto l’obbligo di “sostituire” la detta ordinanza (divenuta “inattuale”), con altra che desse conto dello stato effettivo del manufatto.
La detta tesi, portata alle estreme conseguenze, implicherebbe che una pervicace azione contraria ai provvedimenti penali ed amministrativi, ove protratta nel tempo con successivi e “nuovi” interventi, (seppur eventualmente modesti) sul manufatto, impedisca sine die l’adozione dei prescritti provvedimenti repressivi: la reiterazione delle violazioni edilizie, insomma, finirebbe con il produrre un effetto “premiale” sul reo (e di volta in volta dovrebbero essere rispettati i termini tra la emissione dell’ordinanza di demolizione “nuova” e l’accertamento dell’inottemperanza ovviamente).
La inconsistenza della detta prospettazione è palese; un simile incombente non è prescritto ex lege e si rivela peraltro illogico e, pertanto, la censura va respinta, unitamente a quella (peraltro formulata in termini poco chiari, della asserita preclusione alla demolizione discendente dalla pendenza di appello avverso la sentenza penale di condanna pronunciata a carico dell’appellante).
2.4. Quanto all’ultima censura, la circostanza che sull’area esista un numero spropositato di immobili abusivi non può essere invocata né quale esimente né quale segno di disparità di trattamento, ma semmai comune utile stimolo ad accertare e reprimere, ove sussistenti, detti abusi: di certo nessuna illegittimità discende sul procedimento in esame.
3. Conclusivamente, deve essere dichiarata la inammissibilità dell’appello, che è comunque infondato.
4. Le spese processuali seguono la soccombenza, e pertanto l’appellante deve essere condannato al pagamento delle medesime in favore dell’appellata amministrazione, in misura che appare equo quantificare in Euro tremila (€ 3000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sul ricorso, numero di registro generale 8627 del 2010 come in epigrafe proposto,lo respinge nei termini di cui alla motivazione.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore dell’appellata amministrazione comunale, nella misura di Euro tremila (€ 3000,00) oltre accessori di legge, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Depositata in segreteria il 6 marzo 2012.