Diniego rilascio certificato di abitabilità e di agibilità

Non può essere qualificata come manutenzione straordinaria (che l’art. 4, comma 2, lett b), della L.r. 19/09 riferisce a “tutte le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti strutturali degli edifici, nonché per realizzare i servizi igienico-sanitari e gli impianti tecnologici, sempre che non alterino i volumi utili delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni d’uso e aumento del numero delle unità immobiliari esistenti”) bensì come nuova costruzione in ampliamento dell’esistente, la trasformazione, in una parte di un edificio, di un’area esterna descritta come “uno spazio adibito a deposito, di forma semicircolare costituito da una muratura perimetrale aperta e senza copertura”, in area chiusa, adibita in parte a magazzino, in parte a cella frigorifera, in parte a servizio igienico e spogliatoio.

E’ da ritenere legittimo, ai sensi artt. 24 e 25 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, il diniego di rilascio del certificato agibilità, motivato con riferimento a violazioni della normativa urbanistica o edilizia.

E’ quanto ha affremato il Tar Friuli Venezia Giulia nella sentenza numero 146 del 30 aprile scorso

Di seguito il testo della sentenza

Tar Friuli Venezia Giulia, Sezione Prima

Sentenza numero 146 del 30 aprile 2012

(estensore De Piero, Presidente Corasaniti)

(…)

FATTO e DIRITTO

1. – La ricorrente società, col ricorso introduttivo, impugna l’atto n. 3258 dell’11.5.11 con cui il Comune di Marano Lagunare ha denegato il permesso di agibilità di un manufatto eseguito presso il fabbricato “Club House” sito, a tenore del vigente Piano dei Porti – Aprilia Marittima, in zona MC7 – Mista Commerciale. Coi successivi motivi aggiunti ha opposto la successiva ordinanza di demolizione n. 4935 del 20.7.11.

1.1. – In fatto, espone che la sua dante causa S. spa, in data 23.9.10, aveva chiesto il permesso di costruire per un intervento di manutenzione straordinaria e realizzazione di servizi igienici e tecnologici ex art. 4, comma 2, lett. b) della L.r. 19/09. Il 3.1.11 il Comune notificava i motivi ostativi al rilascio del titolo richiesto facendo presente che l’intervento non poteva essere assentito in quanto – non trattandosi di volumi tecnici – si configurava come ampliamento dell’esistente, soggetto, ai sensi dell’art. 18, comma 3, delle N.T.A. del Piano dei Porti – Aprilia Marittima, a progetto unitario per l’intera UMI e a convenzione col Comune. Nel silenzio dell’interessata, il Comune, con atto del 31.1.11 (non opposto), denegava espressamente il rilascio del titolo.

In data 30.12.10, peraltro, era pervenuta al Comune una DIA con cui si comunicava la realizzazione di interventi di manutenzione straordinaria per la realizzazione di un locale da adibire a lavaggio e preparazione di pasti, e adeguamento dei servizi igienici. Il 28.2.10 giungeva un’ulteriore comunicazione significante lo svolgimento di attività edilizia libera, avente ad oggetto la realizzazione di pertinenze di immobili esistenti, nel limiti del 10% del volume utile, ex art. 16, comma 1, lett. k) della L.r. 19/09.

Ad avviso del Comune, dalla descrizione dell’intervento (rectius: del combinarsi dei lavori descritti nelle due comunicazioni) era agevole rilevare come essi fossero gli stessi oggetto della richiesta di permesso di costruire ex ante denegata.

Il 15.4.11, infatti, la ricorrente comunicava al Comune la fine dei lavori producendo, in allegato, un aggiornamento dell’elaborato di progetto da cui si evinceva come fossero stati – di fatto – realizzati interventi diversi da quelli dichiarati con la DIA e sostanzialmente coincidenti con quelli denegati, consistenti in due magazzini, un bagno, con relativo antibagno, ed un vano adibito a cella frigorifera.

Dal sopralluogo effettuato il 20.4.11 emergeva la difformità di quanto contenuto nella DIA e nella comunicazione di attività edilizia libera da ciò che, effettivamente, era stato realizzato.

Il 24.4.11, la ricorrente chiedeva il rilascio del certificato di agibilità. Il Comune, il 29.4.11, rendeva noto l’avvio del procedimento per la contestazione di abusi edilizi; l’11.5.11 denegava il certificato di agibilità e il 20.7.11 ordinava la demolizione e riduzione in pristino del manufatto.

1.2. – Con il ricorso introduttivo vengono eccepiti:

1) violazione dell’art. 3 della L. 241/90; carenza e contraddittorietà della motivazione. Violazione dell’art. 10-bis della L. 241/90;

2) violazione degli artt. 16, comma 1, lett. k), e 19 della L.r. 19/09;

3) sviamento e violazione del principio di proporzionalità;

4) violazione degli artt. 24 e 25 del D.P.R. 380/81 e degli artt. 27 e 28 della L.r. 19/09. Errore sui presupposti

Con i motivi aggiunti, vengono eccepiti:

5) contraddittorietà. Violazione degli artt. 60, comma 2, e 61, comma 1, della L.r. 19/09;

6) violazione degli artt. 40, 45, 47, 50 e 51 della L.r. 19/09 e delle corrispondenti norme di legge statale. Errore sui presupposti. Difetto di motivazione. Violazione del principio di proporzionalità. Carenza di potere

7) illegittimità derivata.

2. – Il Comune, costituito, puntualmente controdeduce nel merito del ricorso concludendo per la sua reiezione.

3. – Entrambe le parti hanno presentato svariate memorie di precisazione.

4: – Giova, innanzi tutto, premettere che la conformità o meno di un intervento edilizio al titolo che lo ha legittimato ed alle disposizioni di legge e di Piano in base ai quali è stato eseguito, va rilevata a lavoro concluso, valutato nella sua interezza, specie quando, come nel presente caso, le lavorazioni (oggetto di diverse comunicazioni) non sono state eseguite in tempi distanti tra loro, ma in un’unica sequenza temporale.

Il problema da esaminare è, quindi, se un medesimo intervento – che il Comune ha dichiarato di non poter assentire neppure con permesso di costruire, in quanto non costituente manutenzione straordinaria, bensì ampliamento dell’esistente, non consentito dalle norme urbanistiche vigenti – possa divenire autorizzabile sol perché frazionato dall’esecutore in due interventi distinti, dallo stesso dichiarati autonomi e, se separatamente considerati, il primo, soggetto a DIA, il secondo liberamente eseguibile.

4.1. – Innanzi tutto, va esaminata la disposizione di Piano che regola la fattispecie. Le N.T.A. del Piano dei Porti disciplinano, per quanto qui rileva, la zona “Mista Commerciale”, ove l’immobile è sito, all’art. 6 (che stabilisce, tra l’altro, che la superficie coperta va contenuta entro la “sagoma limite” prevista e deve essere comunque “rispettosa di un rapporto di copertura di mq/mq 0,5”) e all’art. 18, che determina le regole della sua attuazione, in particolare specificando che (anche) le previsioni della zona MC “sono attuate per UMI”, precisando che l’ “attuazione per UMI consiste nella realizzazione di opere eccedenti la manutenzione straordinaria da parte di privati dopo abilitazione di un progetto unitario”.

4.2. – Le opere realizzate consistono, di fatto, come si ricava agevolmente dalla documentazione in atti, nella trasformazione, sul alto nord di un edificio esistente, di un’area esterna descritta come “uno spazio adibito a deposito, di forma semicircolare costituito da una muratura perimetrale aperta e senza copertura”, in area chiusa, adibita in parte a magazzino, in parte a cella frigorifera, in parte a servizio igienico e spogliatoio.



Non occorrono molte parole per evidenziare come l’intervento realizzato non possa essere qualificato manutenzione straordinaria [che l’art. 4, comma 2, lett b), della L.r. 19/09 riferisce a “tutte le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti strutturali degli edifici, nonché per realizzare i servizi igienico-sanitari e gli impianti tecnologici, sempre che non alterino i volumi utili delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni d’uso e aumento del numero delle unità immobiliari esistenti”], come preteso dai ricorrenti, bensì nuova costruzione in ampliamento dell’esistente, definita dall’art. 4, comma 1, lett. a) n. 1, della L.r. 19/09 come l’insieme di “interventi rivolti, anche mediante l’uso di strutture componibili o prefabbricate, alla creazione di nuovi spazi in termini di volume o di superficie, ottenuti con l’aumento delle dimensioni e della sagoma delle costruzioni esistenti”. Ciò che la ricorrente ha realizzato neppure è inquadrabile nell’attività edilizia libera di cui all’art. 4, comma 2, lett. d), che la qualifica come “l’insieme di opere di tipo manutentivo o di nuova realizzazione espressamente individuate dalla legge e dalla cui esecuzione non dipendono alterazioni rilevanti dei luoghi o del patrimonio edilizio, e che come tali non necessitano di preventivo controllo tecnico-amministrativo”; attività meglio precisata dal successivo art. 16, comma 1, lett. k), che inquadra in tale fattispecie (per quanto qui rileva) anche la “realizzazione di pertinenze di edifici o unità immobiliari esistenti che comportino volumetria, bussole, verande, serre e depositi attrezzi e simili, …. nei limiti del 5 per cento della superficie utile dell’edificio o dell’unità immobiliare esistenti se a uso diverso dalla residenza; tali interventi non possono comunque comportare un aumento superiore a 100 metri cubi della volumetria utile della costruzione originaria”; e ciò per almeno due ragioni: che quanto realizzato non costituisce “pertinenza” nel senso indicato dalla legge e che, in ogni caso, non essendo inquadrabile nella manutenzione straordinaria, a tenore del vigente Piano dei Porti risulta comunque soggetta a presentazione di un Piano Unitario ai fini di una globale verifica di congruità rispetto a quanto già realizzato nell’UMI (in particolare per ciò che concerne il rispetto della sagoma limite e i corretti rapporti di copertura, volumetria, distanze dai confini ecc.).

Nè l’intervento – per le ragioni esposte – poteva divenire legittimo perché artificiosamente frazionato in due tempi, dapprima presentando una DIA per la realizzazione di tre magazzini (attività che, forse, avrebbe potuto essere ritenuta di realizzazione di pertinenze dell’esistente) e, successivamente, dichiarando di aver realizzato tutt’altro, ma inquadrato come attività edilizia libera.

4.3. – Alla stregua delle osservazioni che precedono, il ricorso avverso l’ordine di demolizione, risulta infondato.

E, invero, resta insuperabile il dato che il vigente Piano dei Porti vieta la realizzazione di opere eccedenti la manutenzione straordinaria (e quelle realizzate lo sono) senza presentazione di un progetto unitario, che salvaguardi la “sagoma limite” dell’edificio; per contro, ai fini del ricorso, è irrilevante il disposto dell’art. 61 della L.r. 19/09, laddove prevede che “le definizioni di cui alla presente legge prevalgono…su quelle contenute negli strumenti urbanistici vigenti e adottati e nei regolamenti edilizi comunali”.

Poiché il manufatto realizzato doveva essere assistito da permesso di costruire (e non da DIA + comunicazione di opere libere), correttamente il Comune l’ha sanzionato con l’ordine di demolizione, in quanto privo del prescritto titolo e realizzato in frode alla legge.

Né l’atto impugnato appare carente di motivazione, dato che esplicita con chiarezza e puntualità le ragioni della ritenuta irregolarità di quanto realizzato

4.4. – Va da sé che la ricorrente potrà sempre chiedere il rilascio del permesso di costruire a sanatoria, previa presentazione di idonea documentazione (avendo peraltro ben presente che il diniego del permesso di costruire originariamente richiesto, sul quale – non essendo oggetto di ricorso – il Collegio non può esprimersi, si fondava sulla circostanza che l’intervento progettato, non trattandosi di volumi tecnici, configura un vero e proprio ampliamento, che “eccede la sagoma limite prevista nella Tav. 2 – Zonizzazione Aprilia Marittima”).

4.5. – Per quanto concerne il diniego di agibilità, si osserva che le norme di riferimento sono gli artt. 24 e 25 del D.Lg. 380/11; il primo stabilisce che “il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”, quindi pare renderlo del tutto indipendente dal rapporto che il manufatto ha con la disciplina urbanistica; tuttavia il successivo art. 26 impone che tra la documentazione presentata vi sia anche una “dichiarazione, sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità, di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato, nonché in ordine alla avvenuta prosciugatura dei muri e della salubrità degli ambienti”, il che può far, invece, ritenere che la mancata conformità di quanto edificato al relativo progetto (e, quindi, anche alle norme che disciplinano l’edificabilità nella zona) sia, di per sé, ostativa al rilascio dell’abitabilità.

La non perfetta coerenza delle due norme ha portato la giurisprudenza a differenti soluzioni, quanto alla legittimità del diniego di certificato di agibilità per ragioni esclusivamente o prevalentemente urbanistico/edilizie ovvero per pendenza di procedimenti sanzionatori; infatti, accanto a decisioni che negano la rilevanza di tali motivazioni (si veda, per tutti: TAR Liguria n. 1754/11, secondo cui, “essendo finalizzato – il certificato di agibilità – al controllo di tipo igienico-sanitario ed escludendo qualsiasi riferimento alla conformità dell’edificio al progetto approvato, non assume alcun rilievo sotto il profilo urbanistico-edilizio, onde la pendenza di un procedimento repressivo edilizio di per sé non costituisce idonea motivazione di diniego del certificato”), ve ne sono altre che ritengono corretto il diniego motivato (prevalentemente o esclusivamente) con riferimento a violazioni urbanistiche. Ad esempio, TAR Lombardia – Milano n. 332/10, ritiene che “l’agibilità possa essere negata non solo in caso di mancanza di condizioni igieniche ma anche in caso di contrasto con gli strumenti urbanistici o con il titolo edilizio (DIA o permesso di costruire).”, precisando che “a tale conclusione perviene gran parte della giurisprudenza (TAR Lazio, n. 4129/05, Consiglio di Stato, n. 6174/08 e n. 1542/05; TAR Lombardia – Milano, n. 4672/09), senza contare che questa interpretazione ha anche un supporto normativo nell’art. 25, comma 1, del Testo Unico dell’Edilizia”; dovendo, per l’appunto, la domanda di agibilità deve essere corredata anche da una dichiarazione del richiedente di conformità dell’opera rispetto al progetto approvato, il che “significa che in caso di difformità dell’opera dal progetto edilizio, ma anche evidentemente in caso di assenza di idoneo progetto, l’agibilità dovrà essere negata”. Soggiunge poi la decisione che “appare assurdo che il Comune rilasci l’agibilità a fronte di un’opera magari palesemente abusiva e destinata quindi con certezza alla demolizione, apparendo tale comportamento dell’Amministrazione contraddittorio rispetto al perseguimento del pubblico interesse”, con la conseguenza che “il diniego di agibilità non può essere reputato illegittimo per la sola circostanza che è motivato con riferimento a presunte violazioni della normativa urbanistica o edilizia”.

Il Collegio (che condivide questo orientamento) è dell’avviso che, di per sé, la mera pendenza di un procedimento sanzionatorio non sia ostativa al rilascio dell’agibilità, a meno che, come prevede la legge, non si ravvisino differenze tra l’autorizzato (o il dichiarato) ed il realizzato, come è nel presente caso, ove la DIA rappresentava cose diverse rispetto a quanto poi (in pretesa applicazione delle norme sull’edilizia libera) di fatto è stato posto in essere.

Il diniego di agibilità, a tenore del citato art. 25, appare pertanto correttamente emesso, anche trascurando di considerare che la ricorrente non pare avere un apprezzabile interesse a lamentare il mancato rilascio del certificato di agibilità di un manufatto di cui è stata ordinata la demolizione per violazione delle norme urbanistiche. Infatti, se otterrà il titolo a sanatoria, l’istante potrà riproporre la domanda, alla quale il Comune risponderà previa valutazione dei soli requisiti igienico-sanitari dell’edificio.

In definitiva, il ricorso va respinto.

5. – Le spese, come di regola, seguono la soccombenza; pertanto la ricorrente viene condannata alla rifusione, in favore del Comune di Marano Lagunare, delle spese e competenze di causa, che pare equo quantificare in complessivi € 2.500,00 (duemilacinquecento/00), al netto di IVA e c.p.a..



P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli – Venezia Giulia, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo rigetta.

Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore del Comune resistente, della spese e competenze di causa, quantificate in complessivi € 2.500,00 (duemilacinquecento/00), al netto di IVA e c.p.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Depositata in segreteria il 30 aprile 2012.

Redazione

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