Il dirigente ministeriale illegittimamente rimosso in base allo spoil system, non può essere reintegrato nel posto di lavoro.
Risulta pertanto inutile chiedere al giudice amministrativo l’ottemperanza della sentenza del giudice del lavoro, anche se nelle more è divenuta irrevocabile.
È quanto emerge dalla sentenza n. 3093 del 25 maggio 2012, pubblicata dalla quarta sezione del Consiglio di Stato.
Nonostante lo spoil system sia stato più volte dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale, il massimo organo della giustizia amministrativa è stato chiaro nell'affermare che non tutte le pronunce possono essere eseguite in forma specifica, come, nel caso specifico, la sentenza riguardante il manager, il cui contratto a tempo è scaduto. L’incarico risulta ora coperto da un’altra persona, affermano i giudici, pertanto è non solo inutile ma anche impossibile chiedere l’ottemperanza alla sentenza.
Risulta anche vano, per la difesa del dirigente, eccepire che il decorso del termine contrattuale sarebbe una circostanza imputabile al solo Ministero. La stessa sentenza di cui si chiede l’ottemperanza distingue infatti tra «l’astratta ammissibilità di pronunce di tipo reintegratorio» e «coercibilità dell’ordine di reintegrazione»: in questo caso è escluso che il dirigente possa riavere il suo posto per il tempo residuo dell’incarico “troncato” prematuramente, visto che la «effettività della tutela reale» è essere esclusa dalla presenza di un altro sulla stessa poltrona. Insomma: non c’è possibilità di accordare la tutela ripristinatoria.
In tema di spoil system e dirigenza pubblica, si veda questo interessente articolo di Nicola Durante, magistrato Tar, pubblicato il 9 settembre 2011 su giustizia-amministrativa.it
Di seguito, il testo della sentenza n. 3093/2012 del Consiglio di Stato:
N. 03093/2012REG.PROV.COLL.
N. 04820/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4820 del 2011, proposto da:
Mario Piccioni, rappresentato e difeso dagli avv. Lorenzo Acquarone, Luca Gabrielli, con domicilio eletto presso Lorenzo Acquarone in Roma, via Nazionale, 200;
contro
Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l’ottemperanza
alla sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I n. 03847/2011, resa tra le parti, concernente OTTEMPERANZA SENTENZA CORTE D'APPELLO DI ROMA , SEZIONE LAVORO E PREVIDENZA, N. 3622 DEL 2010 – PROSECUZIONE INCARICO DIRIGENZIALE
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 20 dicembre 2011 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti l’ avvocato Giovanni Acquarone, su delega di Lorenzo Acquarone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con l’appello in esame, il dott. Mario Piccioni impugna la sentenza 4 maggio 2011 n. 3847, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, in parte ha dichiarato la cessazione della materia del contendere, in parte ha respinto il suo ricorso proposto per l’ottemperanza al giudicato formatosi sulla sentenza della Corte di Appello di Roma, sez. lavoro, 25 maggio 2010 n. 3622.
Il dott. Piccioni, che svolgeva l’incarico di direttore della Direzione generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi nell’ambito del Dipartimento per la giustizia minorile del Ministero della Giustizia, ha subito la interruzione anticipata di tale incarico (che avrebbe dovuto cessare il 15 gennaio 2009), ai sensi dell’art. 19, co. 8, d. lgs. n. 165/2001, come mod. dall’art. 2, co. 161, d.l. n. 262/2006.
La sentenza della Corte di Appello di Roma, sez. lavoro, 25 maggio 2010 n. 3622, della quale si è chiesto disporsi l’ottemperanza, in accoglimento dell’appello del dott. Piccioni:
– ha condannato il Ministero della Giustizia a reintegrarlo nell’incarico apicale per il periodo residuo di durata contrattuale corrispondente al periodo di illegittima interruzione, posto che “l’unico motivo indicato nel provvedimento di interruzione dell’incarico è quello di cui alla norma dichiarata incostituzionale, mancando qualsiasi profilo di responsabilità dirigenziale” (la norma è l’art. 2, co. 161, d.l. n. 262/2006, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 161/2008);
– ha dichiarato il diritto del dirigente alla rassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il periodo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca”.
Tanto premesso, la sentenza appellata afferma che:
– “l’astratta ammissibilità di pronunce di tipo reintegratorio deve essere distinta dalla coercibilità dell’ordine di reintegrazione e, quindi, dall’effettività della tutela reale, sicchè non tutte le suddette pronunce sono idonee ad essere eseguite in forma specifica”;
– la sentenza di cui è chiesta esecuzione non può essere, pertanto, “eseguita in forma specifica in quanto il contratto a suo tempo stipulato dal dott. Piccioni è scaduto in data 15 gennaio 2009 e l’incarico è attualmente ricoperto da altro dirigente”.
Avverso tale sentenza, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) violazione degli artt. 102, 111 e 113 Cost., del giudicato formatosi con la sentenza della Corte d’Appello di Roma 3622/2010 nonché della giurisdizione del giudice ordinario; ciò in quanto il giudice di I grado ha fornito “una legittima nuova lettura ed interpretazione di un elemento di fatto, nella specie costituito dall’avvenuto decorso del termine contrattuale, già apertamente valutato dal giudice ordinario e dallo stesso ritenuto ininfluente ai fini del riconoscimento al dott. Piccioni della tutela in forma specifica”;
b) violazione degli artt. 102, 111 e 113 Cost., dei principi del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, nonché del giudicato formatosi con la sentenza della Corte d’Appello di Roma 3622/2010; poiché “il decorso del termine contrattuale è circostanza imputabile al solo Ministero della Giustizia, il quale ha volontariamente omesso di accogliere l’istanza di reintegra formulata dall’appellante in data 18 novembre 2008, e quindi a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 161/2008 nonché in vigenza del termine suddetto”, ed inoltre l’avvenuto decorso del termine contrattuale non può “validamente costituire un elemento impeditivo alla reintegra” (come peraltro già ritenuto dal Consiglio di Stato, con ord. n. 6487/2008), posto che, peraltro, “la reintegra del pubblico dipendente illegittimamente estromesso assolve anche al fine di garantire l’imparzialità amministrativa e, quindi, di salvaguardare interessi generali”;
c) violazione, sotto ulteriore profilo, degli artt. 97, 98, 102, 111 Cost., dei principi del giusto processo e dell’effettività della tutela giurisdizionale, nonché del giudicato formatosi con la sentenza della Corte d’Appello di Roma 3622/2010; poiché l’intervenuto conferimento dell’incarico ad altro dirigente – circostanza che, secondo la sentenza appellata, renderebbe impossibile la reintegra – “non può in nessuna maniera esser considerato una sopravvenienza di fatto, e ancor meno di diritto, per eludere l’applicazione della sentenza della Corte d’Appello;
d) violazione, sotto ulteriore profilo, del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, nonché del giudicato formatosi con la sentenza della Corte d’Appello di Roma 3622/2010; poiché, nel caso concreto, non vi è spazio per distinguere “astratta ammissibilità di pronunce di tipo reintegratorio” e “coercibilità dell’ordine di reintegrazione”;
e) violazione artt. 3 e 111 Cost, della sentenza Corte Cost. n. 161/2008, nonchè del giudicato formatosi con la sentenza della Corte d’Appello di Roma 3622/2010; poiché, per effetto dell’annullamento della norma sul cd. spoil system, è venuta meno “l’efficacia e la validità dei successivi atti e provvedimenti del Ministero connessi con l’esautorazione del dott. Piccioni”, ivi compreso il conferimento ad altro dirigente dell’incarico apicale in oggetto (che deve configurarsi atto affetto da nullità, perché lesivo del giudicato favorevole al dott. Piccioni).
Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, rigettato, con conseguente conferma della sentenza appellata.
Ai fini del decidere sui motivi di appello proposti, che appaiono tutti legati da un unico filo argomentativo, appare indispensabile stabilire, in primo luogo, quale sia l’esatto contenuto della sentenza del giudice ordinario dell’ottemperanza alla quale dovrebbe disporre il giudice amministrativo; in secondo luogo, stabilito il contenuto prescrittivo della sentenza, verificare se, in concreto, sia possibile, ed in quali eventuali limiti, l’ottemperanza alla stessa.
Orbene, la sentenza della Corte d’Appello di Roma 25 maggio 2010 n. 3622, della quale si è chiesta l’ottemperanza, ha dichiarato “il diritto del ricorrente all’incarico di Direttore della Direzione Generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi nell’ambito del Dipartimento per la giustizia minorile, per il tempo residuo di durata contrattuale corrispondente al periodo di illegittima interruzione”, condannando quindi “il Ministero della Giustizia a reintegrare il ricorrente nel predetto incarico”.
Si precisa in motivazione, citando da Cass. Sez. Un.. n. 3677/2009, che “il dirigente ha diritto alla rassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca”.
Nella sostanza, l’attuale appellante ritiene che, per effetto della sentenza passata in giudicato, egli abbia diritto alla tutela reintegratoria, nel senso di avere titolo alla ricostituzione del rapporto contrattuale inerente al proprio incarico dirigenziale (illegittimamente cessato per effetto di una norma di legge poi dichiarata costituzionalmente illegittima), e quindi di dovere svolgere lo stesso per il tempo residuo, calcolato per differenza tra tempo complessivo dell’incarico a suo tempo conferito e tempo dell’incarico già decorso al momento dell’illegittima cessazione.
A fronte di ciò, la sentenza appellata ha invece affermato che non può in concreto essere disposta l’ottemperanza alla citata sentenza della Corte di Appello, poiché la stessa non può essere “eseguita in forma specifica in quanto il contratto a suo tempo stipulato dal dott. Piccioni è scaduto in data 15 gennaio 2009 e l’incarico è attualmente ricoperto da altro dirigente”.
A tal fine, la sentenza distingue tra “l’astratta ammissibilità di pronunce di tipo reintegratorio” e “coercibilità dell’ordine di reintegrazione” e, quindi, “effettività della tutela reale, sicchè non tutte le suddette pronunce sono idonee ad essere eseguite in forma specifica”.
Orbene, il Collegio ritiene di condividere quanto affermato dal primo giudice e ciò sia con riferimento a quanto effettivamente statuito dalla sentenza del giudice ordinario e coperto da giudicato, sia con riferimento ai limiti propri del giudizio di ottemperanza, con riferimento alla effettiva possibilità di accordare tutela ripristinatoria.
3. Quanto al primo aspetto, occorre osservare che – come si evince dalla motivazione della sentenza della Corte di Appello, alla luce della quale deve essere letto e rettamente interpretato il dispositivo – il giudice del lavoro non ha meramente accertato la sussistenza di un diritto del dott. Piccioni all’incarico di Direttore della Direzione Generale delle risorse materiali, dei beni e dei servizi nell’ambito del Dipartimento per la giustizia minorile, per il tempo residuo di durata contrattuale corrispondente al periodo di illegittima interruzione”, con la conseguente condanna del “Ministero della Giustizia a reintegrare il ricorrente nel predetto incarico”.
La sentenza afferma chiaramente che il dirigente ha diritto alla rassegnazione dell’incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata, detratto il periodo di illegittima revoca”.
Ciò significa che dalla sentenza della Corte di Appello – prima ancora di verificare quale sia l’attuale situazione del rapporto contrattuale ricostituito per effetto delle vicende giudiziarie e quale sia l’attuale assetto organizzativo dell’amministrazione – non consegue che il Ministero e, in caso di mancata esecuzione, il giudice deve comunque ricostituire un rapporto per la durata non svolta dell’incarico e proprio per quell’incarico di cui al contratto per il quale vi è stato l’illegittimo recesso.
Più correttamente, occorre evidenziare che la sentenza limita la possibilità di tutela reintegratoria al periodo residuo dell’incarico, ove ancora di “periodo residuo” si possa parlare al momento della pronuncia., in relazione al termine conclusivo originariamente stabilito,
Per un verso, è questa l’unica spiegazione possibile, sul piano letterale, dell’espressione “tempo residuo di durata (dell’incarico), detratto il periodo di illegittima revoca”, espressione che, al contrario, confligge palesemente con l’interpretazione offerta dall’appellante a sostegno della sua domanda di reintegrazione, posto che quest’ultima presuppone un periodo di incarico “non svolto”, senza considerare la detrazione del “periodo di illegittima revoca”.
Per altro verso, il decisum della sentenza della Corte di Appello, nei sensi qui interpretati, coincide perfettamente con i principi statuiti in materia dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 febbraio 2009 n. 3677, della quale, peraltro, espressamente la suddetta Corte di appello dichiara di voler fare applicazione.
Infatti, la Suprema Corte, nel giudicare di una revoca di incarico dirigenziale conseguente ad approvazione di nuova pianta organica di ente pubblico, pur ancora esistente e valida, in quanto non annullata dal giudice amministrativo, ha affermato:
“Nel caso in esame, l'attribuzione del solo risarcimento non costituirebbe effettiva "disapplicazione" dell'illegittimo provvedimento presupposto, perchè questo continuerebbe a giustificare la revoca dell'incarico dirigenziale e i conseguenti provvedimenti che sono culminati, per quanto riguarda il F., con il licenziamento a seguito del decorso dei ventiquattro mesi di collocazione in disponibilità.
Invero, in tal caso, la situazione che si viene a creare non sembra dissimile rispetto a quanto avviene nel lavoro privato, in relazione alle pronunzie di reintegra nel posto di lavoro conseguenti a sentenze che ravvisino la illegittimità del licenziamento e che intervengano a distanza di tempo: anche in questi casi la posizione lavorativa, il reparto, le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacchè una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica. Si tratta invero dei consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva, in cui peraltro non può escludersi l'adempimento spontaneo da parte del datore. D'altra parte, ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, comma 2, il giudice adotta, nei confronti delle PA, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi e di condanna ritenuti necessari e, precisa la disposizione, che siano richiesti dalla natura dei "diritti" tutelati, e non vi è dubbio che il dipendente vanti un diritto soggettivo, di talchè è consentito condannare la PA ad un facere a seguito della disapplicazione. Precisandosi che, in ogni caso, la riassegnazione è limitata alla durata residua di cui all'atto di attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima sottrazione.
Quanto poi alle conseguenze che si determinano sul piano del rapporto di lavoro, il conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il cd. sistema "binario") l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell'art. 2119 c.c., è passibile di recesso prima della scadenza solo per giusta causa . . . La norma codicistica citata non precisa le conseguenze che si determinano sul rapporto di lavoro a tempo determinato in caso in cui il recesso ante tempus non sia assistito dalla giusta causa, tuttavia, a fronte dell'inadempimento datoriale, i dirigenti ben potevano chiedere, in forza dell'art. 1453 c.c., la condanna dell'Amministrazione all'adempimento, per cui, una volta ritenuta illegittima la revoca, riacquista efficacia l'originario provvedimento di conferimento dell'incarico dirigenziale. Infatti, a seguito di questo, la posizione del dirigente aveva ormai acquisito lo spessore del diritto soggettivo allo svolgimento, non più di un qualsiasi incarico dirigenziale, ma proprio di quello specifico che era stato attribuito.
Va ancora negato, sotto questo aspetto, il parallelismo tra dirigenti pubblici e dirigenti privati, giacchè se è vero che a questi ultimi è negata la tutela ripristinatoria, è vero anche che per essi il rapporto è a tempo indeterminato, mentre l'incarico conferito al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo, di talchè la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente circoscritti alla scadenza prefissata.”.
In definitiva, i principi espressi dalla Corte di Cassazione, per quel che interessa la presente sede, sono:
a) nel rapporto di lavoro pubblico, così come nel rapporto di lavoro privato, “le funzioni precedentemente svolte possono non esistere più, eppure non per questo si è mai ritenuto di negare la pronunzia di reintegra nel posto di lavoro, giacchè una cosa è il tipo di provvedimento che il giudice può emettere, altra cosa è la sua idoneità ad essere eseguito in forma specifica.”. Questi ora considerati sono i “consueti limiti che incontra la tutela del lavoratore e che attengono non già al giudizio di cognizione ma alla fase esecutiva”;
b) se dunque “è consentito condannare la PA ad un facere . . . in ogni caso, la riassegnazione è limitata alla durata residua di cui all'atto di attribuzione originario, dedotto il periodo di illegittima sottrazione;;
c) ciò significa che, poiché “l'incarico conferito al dirigente pubblico è esclusivamente temporaneo . . . la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente circoscritti alla scadenza prefissata.”.
Appare, quindi, evidente, alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione, i cui principi sono stati espressamente e pienamente recepiti dalla Corte di Appello con la sentenza n. 3622/2010, che, laddove per l’incarico dirigenziale a suo tempo conferito (naturalmente a tempo determinato), sia ormai scaduto il termine finale al momento in cui il giudice di cognizione pronuncia il diritto alla reintegra del dirigente, non sia possibile disporre l’ottemperanza, nel senso di ricostituire “ora per allora” il rapporto (per il tempo di incarico non svolto), indipendentemente dallo spirare del termine finale fissato per detto incarico e dalla situazione concreta rappresentata dall’attuale assetto organizzativo dell’amministrazione e dalla concreta situazione (eventuale copertura con altro titolare) dell’incarico de quo.
Come affermato con chiarezza (ed in modo affatto conclusivo per ciò che riguarda la presente controversia) dalla Corte di Cassazione (e fatto proprio dalla Corte di Appello), “la pronunzia di ripristino ha in ogni caso effetti limitati, inevitabilmente circoscritti alla scadenza prefissata.”.
In definitiva, nel caso di specie, il giudice di primo grado, riscontrata come non sia possibile la reintegrazione nell’incarico, per decorso del termine contrattuale (il che, come già detto, costituisce un preciso limite espresso dalla sentenza passata in giudicato) e per essere lo stesso incarico all’attualità, coperto con altro titolare, ha condivisibilmente rigettato la domanda, ritenendo non possibile la tutela reintegratoria.
4. A quanto sin qui esposto, e che appare già di per sé sufficiente a sorreggere la reiezione dei motivi di appello, occorre ulteriormente aggiungere che, come pacificamente ritenuto dalla giurisprudenza del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, 17 giugno 2010 n. 3651; sez. VI, 22 ottobre 2002 n. 5816):
“costituisce principio consolidato quello secondo cui l’esecuzione del giudicato trova ostacolo e limite nelle sopravvenienze di fatto e di diritto verificatesi anteriormente alla notificazione della sentenza, restando irrilevanti solo le sopravvenienze successive alla notificazione medesima . . . più in generale, può affermarsi che le sopravvenienze di fatto e di diritto anteriori alla notifica della sentenza costituiscono un ostacolo e un limite all’esecuzione del giudicato laddove le stesse comportino un diverso assetto dei pubblici interessi che sia inconciliabile con l’interesse privato salvaguardato dal giudicato; ove siffatta inconciliabilità non vi sia, deve invece darsi piena espansione alla regola secondo cui la durata del processo non deve andare in danno della parte vittoriosa, e la parte vittoriosa ha diritto all’esecuzione del giudicato in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento dell’adozione degli atti lesivi caducati in sede giurisdizionale”.
In definitiva, anche in considerazione del nuovo assetto dei rapporti contrattuali vigente nell’ambito della Pubblica Amministrazione, e rispondente ad una ponderata valutazione dell’interesse pubblico (che non è affatto esclusa anche nei casi in cui l’amministrazione pone in essere atti e costituisce rapporti di diritto privato), l’ottemperanza alla sentenza per il tramite di una piena reintegrazione dell’interessato nell’incarico a suo tempo anticipatamente (ed illegittimamente) cessato, non può essere concretamente disposta
Per tutte le ragioni esposte, l’appello (motivi sub a – e dell’esposizione in fatto) deve essere respinto.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto da Piccioni Mario (n. 4820/2011 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.
Compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Anna Leoni, Presidente FF
Guido Romano, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/05/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)