Esame Avvocato 2012, possibile soluzione parere penale “notaio”

Dopo i riferimenti normativi e giurisprudenziali riguardo la traccia relativa al possibile reato di peculato del notaio e alla confisca per equivalente, proponiamo adesso una delle migliori soluzioni che circola in rete.

Svolgimento

La prima problematica che viene in rilievo nel caso di specie attiene alla possibilità di ritenere integrati gli estremi del delitto di peculato dalla condotta di Tizio, il quale, come si evince dalla traccia, riveste la qualità di pubblico ufficiale.
L'art. 314 c.p., come da ultimo novellato dalla  L. 6 novembre 2012, n. 190, prevede espressamente che "Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni".
Nella giurisprudenza della Suprema Corte si osserva un indirizzo interpretativo pacifico secondo il quale il momento consumativo del delitto di peculato deve individuarsi nel comportamento approppriativo dell'agente avente a oggetto il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia il possesso per ragioni d'ufficio o di servizio. In particolare, peraltro, a detta della Corte, l'interesse all'integrità patrimoniale della Pubblica Amministrazione viene leso dal comportamento incompatibile con il titolo per il quale si possiede il bene pubblico (ex plurimis, Cass. pen., Sez. VI, 3 novembre 2003 – 20 gennaio 2004, n. 1256) indipendentemente, quindi, dalla mancanza di danno patrimoniale conseguente all'appropriazione. In tale ipotesi, difatti, la condotta dell'agente lede l'altro interesse tutelato dalla disposizione, vale a dire il buon andamento, la legalità e l'imparzialità dell'amministrazione (Cass. pen., Sez. VI, 4 ottobre 2004 – 31 gennaio 2005, n. 2963).
A ciò si aggiunga che, secondo l'opinione della Suprema Corte "Non v'è dubbio che la condotta appropriativa del notaio vada qualificata come peculato. La qualifica di pubblico ufficiale spetta al notaio non solo nell'esercizio del suo potere certificativo in senso stretto, ma in tutta la sua complessa attività, disciplinata da norme di diritto pubblico (legge notarile) e diretta alla formazione di atti pubblici! (Cass. Pen. SEZ. V, 11 dicembre 2009, n. 47178)
Tornando al caso di specie, la circostanza che il notaio sia responsabile d'imposta ed assuma come tale la veste di coobbligato solidale, che la legge affianca al soggetto passivo d'imposta, al fine di agevolare la riscossione dei tributi, non vale certo ad escludere la qualifica pubblicistica che gli compete.
Configurandosi pertanto l'ipotesi di reato prevista dall'art. 314 c.p.c., Tizio  potrà essere  "punito con la reclusione da quattro a dieci anni" (art. 314 c.p. così come modificato dalla, L. 6 novembre 2012, n. 190.). Nel caso di specie si ritiene peraltro che ricorra altresì la c.d. "continuazione"  del reato in esame, in quanto Tizio con più azioni ha commesso una pluralità di violazioni della stessa disposizione di legge, in esecuzione del medesimo disegno criminoso.
Premesso quanto sopra, occorre ora chiedersi se effettivamente la misura cautelare della confisca possa o meno avere a oggetto i beni nella disponibilità di Tizio.
Nell'ambito delle misure di sicurezza la figura della confisca, la cui disciplina generale è contenuta nell'art. 240 c.p., assume un ruolo peculiare, Attraverso detta misura ablatoria vengono acquisiti dallo Stato beni che per la loro intrinseca natura ovvero per un collegamento funzionale con un illecito penale devono considerarsi criminosi.
Per quanto attiene ai presupposti applicativi della confisca occorre precisare che questa, a differenza della altre misure di sicurezza, prescinde dall'accertamento della pericolosità sociale del reo, essendo sufficiente la commissione di un reato o di un quasi reato.
In linea generale, essa è di applicazione facoltativa (art. 240, comma 1, c.p.) ovvero obbligatoria (art. 240, comma 2, c.p.)
Attraverso la l. 29 settembre 2000, n. 300, che ha inciso sul titolo dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, la confisca obbligatoria è stata estesa, grazie alle previsioni contenute nell'art. 322 ter c.p.. ad alcune fattispecie ivi previste e, inoltre, è stato inserito l'istituto della confisca per equivalente, già contemplato dal nostro ordinamento in materia di usura (l.  7 marzo 1996, n. 108).
Il tratto che connota tale figura giuridica consiste nella possibilità, per l'autorità giudiziaria, di procedere, qualora manchino i beni che si identificano con il profitto e il prezzo del reato, all'ablazione di beni diversi per un valore equivalente al prezzo del reato (art. 322 ter, comma 1) ovvero al profitto del medesimo (art. 322 ter, comma 2, c.p.).
Nel caso di specie, la questione si colloca, insomma, nel contesto relativo alla definizione dello spettro operativo della confisca per equivalente disciplinata nell'art. 322 ter c.p.
L'art. 322 ter, introdotto nel codice penale dalla l. 29 settembre 2000, n. 300, in occasione delle ratifiche da parte del nostro Paese di specifiche convenzioni internazionali volte a contrastare i fenomeni corruttivi, dispone al comma 1, che in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti contro la Pubblica Amministrazione previsti negli articoli da 314 a 322 c.p. è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono "il profitto o il prezzo" salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando questa non sia possibile, la confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale "prezzo" (c.d. confisca per equivalente). Nei termini chiariti dall'autorevole insegnamento delle Sezioni unite della Suprema Corte, la ratio dell'istituto della confisca per equivalente risiede nella scelta di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall'attività criminosa, anche di fronte all'impossibilità di aggredire l'oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale misura che assume a tutti gli effetti i tratti distintivi di una vera e propria sanzione (Cass. pen., S.U., 27 marzo 2008 – 2 luglio 2008, n. 26654).
Stando alla formulazione letterale della disposizione (art. 322 ter, comma 1, c.p.), come rilevato dalla costante e più recente giurisprudenza di legittimità, la confisca per equivalente non è applicabile in relazione al profitto del delitto di peculato (art. 314 c.p.), dovendo ritenersi limitata al solo tantundem del prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 5 novembre 2008 – 7 aprile 2009, n. 14966; Cass. pen., Sez. VI, 10 marzo 2009, n. 10679).
Depongono a favore di questa soluzione argomenti di diversa natura.
In prospettiva sistematica, si esclude che il legislatore abbia utilizzato nell'art. 322 ter c.p. il termine prezzo in senso atecnico, così da comprendere qualsiasi utilità connessa al reato, derogando alla disciplina generale stabilità nell'art. 240 c.p., ove le nozioni di prezzo e profitto sono nettamente distinte.
Da un punto di vista esegetico, poi, sembra chiara la volontà del legislatore di escludere, salvo le ipotesi del comma 2 dell'art. 322 ter c.p., il profitto del reato dalla confisca per equivalente.
In senso contrario si registra un isolato orientamento che aderisce a una interpretazione estensiva secondo la quale, riguardo al delitto di peculato, sono assoggettabili a confisca, ai sensi dell'art. 322 ter c.p., comma 1, beni nella disponibilità dell'imputato per un valore corrispondente a quello relativo al profitto o al prezzo del reato (Cass. pen., Sez. VI, 29 marzo 2006 – 17 luglio 2006, n. 24633).
Di recente, a dirimere l'illustrato contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni unite della Suprema Corte. La Corte ha precisato che, in difetto di una nozione legale di profitto del reato, può accogliersi la ricostruzione semantica di tale concetto offerta dalla dominante giurisprudenza di legittimità secondo la quale esso deve essere identificato con il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al prodotto e al prezzo del reato. In particolare, il prodotto rappresenta ciò che materialmente deriva dall'illecito, vale a dire le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato, il prezzo, invece, deve individuarsi nel compenso dato o promesso a una determinata persona, a titolo di corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (ex plurimis, Cass. pen., S.U., 3 luglio 1996 – 17 ottobre 1996, n. 9149).
Le Sezioni unite, pertanto, alla luce della netta distinzione fra le nozioni di prezzo e profitto del reato, unitamente alla mancanza di una chiara indicazione legislativa che attribuisca a tali termini un significato diverso da quello comunemente assegnato dalla giurisprudenza di legittimità, ritengono che non sussista alcun elemento idoneo a far ritenere che il legislatore, nella formulazione dell'art. 322 ter, comma 1 c.p., abbia usato il termine prezzo in senso atecnico, così da includere qualsiasi utilità connessa al reato sicchè, con riferimento al delitto di peculato può disporsi la confisca per equivalente prevista dall'art. 322 ter, comma 1, ultima parte c.p., soltanto del prezzo e non anche del profitto (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009 – 6 ottobre 2010, n. 38691).
Premesso quanto sopra deve tuttavia essere rilevato, la L. 6 novembre 2012, n. 190 ha parzialmente modificato il citato articolo 322-ter, primo comma: dopo le parole: «a tale prezzo» sono difatti state aggiunte aggiunte le seguenti: «o profitto». A seguito dell'intervento del Legislatore, non v'è pertanto dubbio che, per quanto concerne la misura di sicurezza della confisca per i delitti con¬tenuti nel titolo II del Libro I del codice penale, ai sensi del novellato art. 322-ter c.p., in caso di condanna, è possibile disporre l'ablazione per equivalente non solo del prezzo del reato (cioè del corrispettivo per l'acquisto dell'utilità) ma anche del suo profitto, estendendo quindi la ritenzione a beni il cui valo¬re corrisponde all'utilità economica immediatamente derivante dall'avvenuto compimento del fatto illecito.
A ciò si aggiunga che,  come affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce – la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all'assenza di un "rapporto di pertinenzialità" (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all'indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura "eminentemente sanzionatoria", che impedisce l'applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell'articolo 200 del codice penale, secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, e possono essere, quindi, retroattive (ex multis, Cassazione penale, sentenze 39173, 39172 e 21566 del 2008). A tale conclusione si giunge sulla base della duplice considerazione che il secondo comma dell'articolo 25 della Costituzione vieta l'applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto in contrasto con i princípi sanciti dall'articolo 7 della Convenzione l'applicazione retroattiva di una confisca di beni riconducibile proprio a un'ipotesi di confisca per equivalente (Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 307A/1995, Welch v. Regno unito).
Stando così le cose, si ritiene che, nel caso di specie,

1.    laddove il reato sia stato commesso prima l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, Tizio potrà ottenere, previa istanza di riesame del sequestro preventivo, la restituzione dei propri beni;
2.    laddove il reato sia stato commesso dopo l'entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, i beni di tizio potranno essere validamente confiscati.

 

Redazione

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