Il Consiglio di Stato sulla separazione tra politica e amministrazione

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1775 del 27 marzo 2013, affronta il tema della distinzione tra atti di gestione e atti di indirizzo politico, giungendo ad affermare l‘illegittimità di tutte quelle delibere o direttive adottate da una Giunta comunale con cui in sostanza si sceglie un determinato contraente, in violazione del principio di separazione delle competenze politiche da quelle di gestione.

Si pone così un freno alla prassi di quegli organi politici che, attraverso lo strumento della direttiva, non si limitano a dettare indicazioni di carattere generale ma finiscono in pratica ad entrare nel merito delle scelte gestionali che competono ai dirigenti.

Come affermato dai giudici di Palazzo Spada infatti “Il criterio discretivo tra attività di indirizzo e di gestione degli organi della P.A. è rinvenibile nella estraneità della prima al piano della concreta realizzazione degli interessi pubblici che vengono in rilievo, esaurendosi nella indicazione degli obiettivi da perseguire e delle modalità di azione ritenute congrue a tal fine”. E , ancora, “gli atti di gestione includono funzioni dirette a dare adempimento ai fini istituzionali posti da un atto di indirizzo o direttamente dal legislatore, oppure includono determinazioni destinate ad applicare, pure con qualche margine di discrezionalità, criteri predeterminati per legge, mentre attengono alla funzione di indirizzo gli atti più squisitamente discrezionali, implicanti scelte di ampio livello”, come la fissazione di linee generali e scopi da perseguire.

Ne discende che l’imposizione, a mezzo di una delibera dell’organo politico, della scelta di un dato contraente, costituisce a tutti gli effetti atto di gestione, indipendentemente dalla terminologia utilizzata per descriverlo. Peraltro, nel caso di specie, il dirigente responsabile del servizio dopo la delibera in questione non avrebbe potuto compiere alcuna valutazione circa la convenienza dell’offerta, ma solo il compito di liquidare la spesa.

Non solo.

Provvedimenti di questo tipo non possono neanche essere successivamente sanati in modo generico ma solo con l’adozione uno specifico atto di convalida che esterni le ragioni di interesse pubblico giustificatrici, che dia atto dell’illegittimità per incompetenza dell’atto e che espliciti chiaramente la volontà dell’organo competente di fare proprio tale atto. Si tratta in buona sostanza del rispetto delle condizioni minime di operatività dell’istituto di cui all’art. 21-nonies della L. 241/1990.

Il Consiglio di Stato, quindi, richiamandosi anche alla propria consolidata giurisprudenza in materia, conclude “L’atto di convalida deve tuttavia contenere una motivazione espressa e persuasiva in merito alla sua natura e in punto di interesse pubblico alla convalida, essendo insufficiente la semplice e formale appropriazione da parte dell’organo competente all’adozione del provvedimento, in assenza dell’esternazione delle “ragioni di interesse pubblico” giustificatrici del potere di sostituzione e della presupposta indicazione, espressa, della illegittimità per incompetenza in cui sarebbe incorso l’organo che ha adottato l’atto recepito in via “sanante”.

Per ulteriori approfondimenti, si rende disponibile il testo integrale della sentenza n. 1775 del 27 marzo 2013 del Consiglio di Stato.

 

Redazione

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