Ormai da più di quattro anni, con il Dlgs 15 del 2009, è stato introdotto nel sistema della giustizia amministrativa l’azione per l’efficienza delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari pubblici, la cosiddetta “class action amministrativa”.
Grazie a questo strumento i titolari di interessi che siano giuridicamente rilevanti e allo stesso tempo omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, in caso di lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi.
Lo stesso decreto chiarisce come la legittimazione ad agire spetti anche ad associazioni o comitati, a tutela degli interessi dei propri associati. A sua volta tale lesione diretta, concreta e attuale deve derivare: a) dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento; b) dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi; c) dalla violazione di standard qualitativi ed economici; d) dall’omesso esercizio di poteri di vigilanza di controllo o sanzionatori.
A differenza dell’analoga class action prevista dal Codice del consumo, tale azione non ha scopi risarcitori. Infatti il giudice che decide nel senso dell’accoglimento della domanda, accertando la violazione, l’omissione o l’inadempimento, ordina alla pubblica amministrazione o al concessionario di porvi rimedio entro un congruo termine, nei limiti delle risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Sono escluse dalla disciplina in questione una serie di pubbliche amministrazioni: le autorità amministrative indipendenti, gli organi giurisdizionali, le assemblee legislative e gli altri organi costituzionali nonché la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il 9 giugno 2011 è stata depositata la prima sentenza del Consiglio di Stato in materia, la 3512 del 2011 della sezione V, la quale conferma la sentenza del Tar Lazio. I giudici di primo grado (sezione III bis, n. 552 del 2011) avevano accolto il ricorso del Codacons condannando i Ministri dell’Istruzione e dell’Economia a emanare – nel termine di quattro mesi – il piano generale di edilizia scolastica. In tale occasione il Tar Lazio ha precisato che nel caso di atti generali e obbligatori per legge non rilevi l’effettiva esigibilità del comportamento in relazione ai limiti delle risorse finanziarie disponibili, trattandosi di un aspetto già vagliato dal legislatore nel momento in cui ha imposto l’adozione dell’atto stesso.
Ancora il Tar Lazio ha accolto un altro ricorso del Codacons, questa volta condannando l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e il Ministero della Salute ad adottare le linee d’azione per la prevenzione, il contrasto e il recupero di fenomeni di ludopatia conseguente a gioco compulsivo (sezione II, n. 7028 del 2012).
Più recentemente, sempre il Tar Lazio (sezione I, n. 8231 del 2012) ha accolto il ricorso dell’Associazione Amici dei Bambini ordinando al ministero della Giustizia di mettere in funzione la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili.
Il Tar Basilicata, in accoglimento del ricorso dell’associazione Agorà digitale, ha disposto con la sentenza n. 478 del 2011 che la Regione pubblicasse l’elenco gli indirizzi Pec permettendo agli utenti di comunicare con gli uffici
Non sono mancate diverse decisioni di rigetto. Il Tar Lazio, con la sentenza 8142 del 2012 ha stabilito che non può essere fatta oggetto di class action la mancata adozione da parte dell’amministrazione scolastica di interventi atti ad impedire la reiterazione dei contratti a termine, così come previsto dalla normativa comunitaria. Ciò perché, affinché possa esperirsi un’azione collettiva è necessario che l’amministrazione abbia violato un termine contenuto in una legge o in un regolamento di diritto interno, e non basta un termine imposto dalla normativa comunitaria agli stati membri e non direttamente ad una pubblica amministrazione.