Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 11832 del 16 maggio 2013, hanno dichiarato l’inammissibilità di un ricorso per denegata giurisdizione, con il quale si era impugnata una pronuncia del Consiglio di Stato che censurava la mancata applicazione integrale della disciplina statale in materia di concorsi per posti di dirigente, banditi da alcune amministrazioni provinciali della regione Puglia.
La questione giuridica sottoposta all’attenzione della Suprema Corte, attiene all’applicazione e all’interpretazione delle disposizioni contenute nell’art. 28 del T.U. Pubblico impiego (Dlgs n. 165/2001) – che definisce i requisiti per l’accesso alla qualifica di dirigente di seconda fascia – in rapporto con quanto stabilito dall’art. 27 Dlgs cit., che invece si preoccupa di fissare i “criteri di adeguamento per le pubbliche amministrazioni non statali” alla disciplina del testo unico, rendendola applicabile tenuto conto delle eventuali peculiarità degli ordinamenti locali.
Nel caso di specie l’impugnata sentenza del Consiglio di Stato aveva ritenuto parzialmente violate le predette disposizioni da parte dell’amministrazione provinciale che, nel proprio regolamento dei concorsi e nel successivo bando, aveva richiesto come requisito di partecipazione la sola iscrizione quinquennale del pubblico dipendente nell’albo professionale correlato al titolo di studio richiesto, senza aggiungervi l’ulteriore requisito (menzionato dall’art. 28 cit.) dell’effettivo e qualificato esercizio della relativa professione all’interno della pubblica amministrazione o in prevalente rapporto con essa. Pertanto, ai primi due classificati, era stato assegnato un termine per dimostrare il possesso di questo ulteriore requisito di legge.
Benchè in linea di principio un Ente locale, nell’adozione del proprio regolamento e del successivo bando di concorso per dirigente, sia tenuto unicamente ad adeguarsi ai principi desumibili dalla disciplina di cui all’art. 28 e non anche a seguirla nelle disposizioni di dettaglio, le valutazioni del Consiglio di Stato si sono svolte sul piano ermeneutico, individuando tra tutte le possibili interpretazioni quella applicabile al caso esaminato, svolgendo un’attività sicuramente rientrante nei poteri giurisdizionali attribuitigli in sede di giurisdizione esclusiva.
Pertanto, concludono le Sezioni Unite, “l’operazione ermeneutico-applicativa effettuata dal Consiglio di Stato, in sede di controllo di legittimità, può essere censurata per errore di giudizio con riguardo alla individuazione della norma giuridica applicabile, oppure per avere ipotizzato la possibilità di una fattispecie di nullità parziale “per difetto” oppure ancora per avere, sul piano applicativo, ritenuto utilizzabile nel diritto amministrativo il meccanismo di integrazione legale previsto all’art. 1419, secondo comma, cod. civ., ma non è contestabile che essa si muova all’interno della giurisdizione attribuita al giudice amministrativo, quale interpretazione e applicazione della legge, senza invadere poteri altrui o esercitare poteri estranei, in maniera assoluta, all’ordinamento positivo”.
Per ulteriori approfondimenti, si rimanda al testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 11832 del 16 maggio 2013.