Pur mancando ancora una legge che disciplina in maniera generale e astratta il fenomeno religioso, il «pluralismo confessionale e culturale» e l’«eguale libertà delle confessioni religiose» sono valori costituzionali che devono essere assicurati e garantiti. E tale compito non può che spettare al giudice amministrativo.
E’ quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 16305 depositata il 28 giugno 2013, richiamando principi già enunciati in numerose pronunce della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato.
Nella pronuncia, i giudici ermellini hanno rigettato il ricorso presentato dal Governo avverso una sentenza del Consiglio di Stato inerente l’avvio della trattativa, richiesta dall’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar), per stipulare un’intesa con il Governo italiano, come previsto dall’articolo 8, terzo comma, della Costituzione.
Palazzo Chigi aveva tuttavia rigettato l’istanza dell’Uaar.
L’associazione aveva fatto però ricorso al giudice amministrativo. Il Tar del Lazio aveva dichiarato inammissibile il ricorso, accogliendo l’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione sollevata dall’amministrazione, che aveva opposto la natura di atto politico del provvedimento impugnato, ritenuto insindacabile. Ma il Consiglio di Stato accoglieva il gravame interposto dall’Uaar, e annullava con rinvio la pronuncia di primo grado.
Da qui, il ricorso in Cassazione, che con la pronuncia in esame ha stabilito che il diniego del Governo ad aprire una trattativa di tal genere non é insindacabile e che, dunque, può essere vagliato dal giudice amministrativo. «Negare la sindacabilità del diniego di apertura della trattativa per il fatto che questa é inserita nel procedimento legislativo – si legge nella sentenza – significa privare il soggetto istante di tutela e aprire la strada, come ha indicato il Consiglio di Stato, a una discrezionalità foriera di discriminazioni».