Con la sentenza 16 ottobre 2013 n. 23, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata, dirimendo il precedente contrasto giurisprudenziale, in tema di obbligo di dichiarazione dell’impresa partecipante alla gara circa il possesso dei requisiti di moralità professionale, la cui assenza è contemplata dal codice dei contratti pubblici come causa espressa di esclusione dalla procedura.
L’art. 38, comma 1, del Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 163/2006) stabilisce che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti” i soggetti nei cui confronti è pendente procedimento per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui alla legge 1423/1956 o di una delle cause ostative previste dalla legge 575/1965 (lett. b), nonché i soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta (lett. c).
In tutte queste ipotesi è tuttavia previsto che l’esclusione e il divieto operino solo se la sentenza, il decreto ovvero la pendenza del procedimento riguardino, per i principali tipi di società, “gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o il direttore tecnico o il socio unico persona fisica”.
Con specifico riferimento a tale previsione, esistevano in giurisprudenza due orientamenti totalmente contrapposti:
– il primo, ancorato al dato formale della norma, richiedeva la compresenza della qualità di amministratore e del potere di rappresentanza, non ritenendo dunque necessarie le dichiarazioni in relazione al procuratore o all’institore.
– il secondo indirizzo, che si può definire sostanzialista, superava invece il dato formale dell’art. 38 ed estendeva l’obbligo della dichiarazione della sussistenza dei requisiti morali e professionali anche a quei procuratori che avessero poteri di rappresentanza dell’impresa tali da permettere una consistente ingerenza nella gestione societaria. Si trattava dunque di un orientamento basato sulla ratio della norma, la quale mira a prevenire ogni ricaduta di condotte che siano incorse in giudizi riprovevoli sull’affidabilità e moralità dell’ente che aspira all’affidamento della pubblica commessa.
La quinta sezione del Consiglio di Stato (ordinanza 9 aprile 2013, n. 1943) ha così deciso di rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, la quale ha in primo luogo precisato che l’art. 38, con la locuzione di amministratori muniti del potere di rappresentanza, “ha inteso riferirsi ad un’individuata cerchia di persone fisiche che, in base alla disciplina codicistica e dello statuto sociale, sono abilitate ad agire per l’attuazione degli scopi societari e che, proprio in tale veste qualificano in via ordinaria, quanto ai requisiti di moralità e di affidabilità, l’intera compagine sociale”.
Al contrario il procuratore ad negotia, figura solo eventuale e non necessaria nell’assetto della società, è titolare di limitati poteri gestori individuati dall’atto di procura e soggiace alle direttive degli stessi amministratori; pertanto, in assenza di una espressa previsione della lex specialis, non occorre che egli renda la dichiarazione sui requisiti di moralità professionale ex art. 38.
D’altro canto, i giudici dell’Adunanza Plenaria sottolineano però che a volte “nella modulazione degli assetti societari, la prassi mostra l’emersione di figure di procuratori muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti così che, per sommatoria, possano configurarsi omologhi, se non di spessore superiore, a quelli che lo statuto assegna agli amministratori”.
In queste ipotesi, anche con riferimento alla figura del procuratore, l’assenza di una dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di moralità professionale potrà portare all’esclusione dell’impresa dalla procedura, in quanto “in tal caso il procuratore speciale finisce col rientrare a pieno titolo nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché da un lato si connota come amministratore di fatto ai sensi dell’art. 2639, comma 1, cod. civ. e, d’altro lato, in forza della procura rilasciatagli, assomma in sé anche il ruolo di rappresentante della società, sia pure eventualmente solo per una serie determinata di atti”.
Per ulteriori approfondimenti si rende disponibile il testo integrale della sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 16 ottobre 2013 n. 23.