Esame Avvocato 2013, diritto penale, parere svolto
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Ecco un esempio di parere di diritto penale, in tema di rapporto di causalità, in particolare sulla causalità omissiva e violenza sessuale.
In particolare si verterà sulla responsabilità penale omissiva della madre per non aver impedito gli abusi sessuali del marito ai danni delle figlie minori: se sia o meno configurabile ex artt. 40, II e 609-bis c.p.
Art. 40. Rapporto di causalità.
Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione
Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.
609-bis. Violenza sessuale.
Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi
La sentenza.
Cass. pen. 30 gennaio 2008 n. 4730
1. Il genitore esercente la potestà sui figli minori, in quanto investito di una posizione di “garanzia” in ordine alla tutela della integrità psico-fisica degli stessi, risponde penalmente degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli, quando sussistano le condizioni costituite: a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento; b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”; c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento.
2. La posizione di garanzia verso i propri figli è costituita dall’art. 147 c.c. e comporta l’obbligo per il genitore di tutelare la vita, l’incolumità e la moralità sessuale dei minori contro altrui aggressioni, anche endofamiliari, adottando anche le misure più drastiche in vista del raggiungimento di tale scopo. Tra i suddetti “doverosi” interventi rientrano anche i rimedi estremi, quali la denuncia dell’autore del reato ed il suo allontanamento dall’abitazione coniugale.
3. La posizione di “garanzia” del genitore impone a questi di porre in essere tutti gli interventi concretamente idonei a far cessare l’attività delittuosa nei confronti dei figli, posto che l’obbligo di tutela del minore, che la legge affida al genitore, ha natura assolutamente prioritaria rispetto a qualsivoglia altra esigenza.
Il PARERE
Mevia e Caia, figlie minori di Tizia – medico chirurgo – rivelano alla stessa che il loro padre Sempronio (marito di Tizia) le sottopone ad abusi sessuali. Dinnanzi alle dichiarazioni delle figlie, Tizia adotta talune “cautele” per evitare il ripetersi dei turpi comportamenti del coniuge: espellere il marito dalla camera da letto, ridurre al minimo la propria permanenza fuori casa, rientrare a “sorpresa” nell’abitazione. La situazione non muta e la frustrazione delle minori le conduce a confidarsi ai propri insegnati a scuola che fanno denunzia dei fatti in questione. Sottoposto a procedimento penale, Sempronio viene condannato: gli abusi sono durati per circa 7 anni, senza interruzione alcuna. Dalle dichiarazioni delle vittime risulta, peraltro, che “intorno al 2000”, ai rapporti completi, che non avvenivano alla presenza della madre, si erano anche aggiunte “convocazioni” domenicali nel letto matrimoniale, durante le quali, Sempronio, mentre consumava un rapporto con la moglie, “toccava” anche le figlie, fatte posizionare ai lati. Nelle more, anche tizia viene sottoposta a procedimento penale: le viene ascritto il reato qualificato ai sensi degli artt. 40, comma 2, 609 bis comma 1 c.p., per non aver impedito al marito la commissione di abusi sessuali perpetrati sulle figlie minori. Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizia, premessi cenni sulla causalità omissiva, rediga motivato parere
Svolgimento
1. Causalità omissiva
L’imputazione del fatto illecito in capo al soggetto avviene sulla base di un criterio soggettivo e di uno oggettivo, sulla scorta della teoria bipartita del reato: il criterio di imputazione soggettiva concerne il rapporto autore – fatto ed attiene alla verifica della sussistenza del dolo o, se ex lege prevista, della colpa. Il criterio di imputazione oggettiva è integrato invece dalla causalità giuridica concernente il rapporto azione – evento. Il rapporto di causalità è presupposto indefettibile del reato integrando gli estremi di uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa: in assenza del nesso eziologico al soggetto non può essere ascritto l’evento illecito. La causa, tecnicamente, è la condizione contingente necessaria per la produzione dell’evento ed il presupposto logico che determina la consequenzialità tra un’azione ed un evento. A livello di inquadramento sistematico e di ratio, non deve essere trascurata la funzione cd. selettiva della casualità che risponde all’ottemperanza ai principi di personalità e materialità della responsabilità penale poiché circoscrive l’area del penalmente rilevante secondo un indice sintomatico di carattere oggettivo. Proprio sulla scorta di tale indicazione, il nostro ordinamento non ha recepito la teoria della cd. imputazione oggettiva dell’evento, reietta perché punisce l’autore del fatto per la sola presenza dell’aumento del rischio creato dalla condotta. Alla stregua dell’art. 40 del codice penale, clausola generale di tutto l’ordinamento, il nesso causale è il rapporto intercorrente tra azione/omissione ed evento criminoso: la formulazione generale degli artt. 40, 41 ha, tuttavia, suscitato diversi indirizzi interpretativi volti a spiegare quando ed a quali condizioni un evento lesivo fosse conseguenza dell’azione. Le diverse scuole di pensiero hanno infatti prospettato soluzioni anche molto differenti tra di loro proponendo una teoria della causalità scientifica, umana o materiale, al di là delle scuole minoritarie. L’indirizzo accreditato in giurisprudenza, ritiene che il criterio di imputazione oggettiva vada dedotto secondo il principio della condicio sine qua non con il correttivo della cd. causalità adeguata e, quindi, prestando fede al brocardo id quod plerumque accidit: è causa di un determinato evento, quell’antecedente logico indefettibile tipicamente idoneo ed adeguato a produrlo, secondo criteri di regolarità causale ovvero secondo ciò che ordinariamente avviene, anche a prescindere da una nota e accreditata legge di copertura, (se essa manca o non può conosciuta con certezza). La nozione di causalità del moderno diritto penale è, ciò nonostante, sul piano pratico, dibattuta tra teorie ex ante e teorie ex post: le prime propongono un giudizio prognostico con focus sulla condotta; le secondo optano per un giudizio di diagnosi con maggiore interesse per l’evento. Trattasi, in ogni caso, di una causalità reale in cui il rapporto si sviluppo sul piano fenomenico tangibile e concreto.
Più precisamente si ricorre al cd. modello nomologico – deduttivo con ammissione dei coeteris paribus. Tale giudizio di realtà, in passato, abbracciava anche il rapporto di causalità nei reati cd. omissivi, in cui, strutturalmente, il reato è posto in essere mediante un’omissione del reo e non una sua azione. Secondo un orientamento dottrinale, infatti, la causalità materiale era tale a prescindere dalla tipologia di reato posto in essere. Nella tradizione classica, infatti, si negava autonoma struttura ai reati omissivi e si riteneva, più semplicemente, che il reato commissivo potesse essere posto mediante azione od omissione: la tipicità omissiva, quindi, diveniva mera modalità di esecuzione del reato. La tradizione classica è stata superata dalla più attenta dottrina la quale ha proposto una autonoma collocazione del reato omissivo ed il riconoscimento di una sua autonomia strutturale. Per reato omissivo, peraltro, si fa riferimento ai reati omissivi propri, (tipizzati ex lege, e prescindenti dalla verificazione di un evento), ma anche a quelli impropri, in cui si verifica un evento e non c’è tipizzazione legislativa: essi sono ricavati in via ermeneutica dall’interprete attraverso il combinato disposto di una norma di parte speciale base e l’art. 40 c.p. Il comma II dell’art. 40, infatti, sancisce il principio di cd. equivalenza causale: non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Alcuni autori hanno molto dibattuto in ordine al contenuto, ai limiti ed alla funzione del comma II dell’art. 40 c.p. poiché l’omissione era già stata disciplinata nel I comma il quale, per l’appunto, prevede la causalità per ogni azione od omissione. Si è ritenuto, pertanto, che il II comma abbia perseguito l’intento di estendere l’area della punibilità alle fattispecie di reato cd. commissivo mediante omissione individuando, contestualmente, quali obblighi d’azionarsi siano idonei ed esclusivi all’addebito di responsabilità penale: quelli giuridici. Peraltro, il rapporto di causalità è implicitamente una querelle che attiene ai soli reati di evento, (il cui ambito è più che dibattuto in dottrina). Il reato omissivo improprio presenta delle caratteristiche del tutto peculiari. Quanto alla sua struttura esso è composto dalla situazione tipica derivata, dalla condotta omissiva e dall’evento non impedito. La condotta omissiva è integrata dall’omesso impedimento dell’evento e non dalla semplice omissione, (es. omissione di soccorso): tipico il caso dell’omicidio per omesso intervento terapeutico dovuto. Proprio per la struttura succitata i reati omissivi improprio sono anche definiti, come già fatto presente, commissivi mediante omissione. La rilevanza penale delle condotte omissive discende da un criterio di equivalenza causale normativo che si traduce in una forma di causalità la quale non può dirsi reale. La giurisprudenza e la dottrina più accreditata hanno parlato, infatti, di causalità ipotetica o cd. normativa poiché il rapporto eziologico discende da un giudizio ipotetico prognostico e non reale: il giudizio controfattuale opera all’inverso poiché il giudice deve fingere avvenuta l’azione dovuta per verificare se l’evento persiste o non si sarebbe prodotto. Peraltro, attenta dottrina ha evidenziato che la formula di accertamento è doppiamente ipotetica: nella protasi (azione) e nell’apodosi, (evento) poiché nella protasi mancano dati comportamentali reali e nella protasi vi è solo l’antecedente statico, (omissione), reale solo a condizione di essere animato dall’azione impeditiva, immaginaria. La causalità ipotetica, quindi, si traduce in una evidente difficoltà dogmatica nell’ambito dei reati omissivi impropri, laddove la fattispecie penale non è indicata dal legislatore ma è ricavata dall’opera ermeneutica dell’interprete.
Nel caso involgente Tizia, peraltro, emerge tutta la problematicità sin qui descritta: ella è imputata di violenza sessuale mediante omissione sub specie di omesso impedimento degli abusi sessuali del marito. Più precisamente, si tratta di un concorso omissivo nel reato commissivo: in dottrina e giurisprudenza appare incontestata l’interpretazione dell’art. 40, co. 2, c.p., nel senso che il concetto di evento da impedire sia comprensivo, in alcuni casi, di ipotesi di reato: è, pertanto, configurabile un concorso in forma omissiva nel reato commissivo altrui. A tal proposito sarà necessario, però, nel caso concreto, verificare la sussistenza di una cd. posizione di garanzia in capo al soggetto omittente, atteso che solo in questo caso sarà possibile ipotizzare una sua responsabilità penale. Per stabilire se incomba in capo all’agente un obbligo giuridico di impedire l’evento-reato vanno esperite differenti valutazioni a seconda dell’indirizzo ermeneutico prescelto ed in particolare: occorrerà guardare alle sole fonti di attribuzione dell’obbligo se si sposa la tesi formale che individua le stesse nella legge, nel contratto e nella pregressa azione pericolosa; sarà, invece, necessaria la verifica della possibilità empirico-fattuale di impedire l’evento se si segue l’indirizzo sostanziale, salvo richiedere entrambi gli elementi accogliendo la maggiormente garantista tesi mista. Una volta chiarito questo primo fondamentale aspetto il concorso omissivo nel reato commissivo sarà configurabile qualora ed in quanto venga provato un nesso di causalità, anche in forma meramente agevolativa, tra omissione ed evento – reato, oltre che, come ovvio, l’elemento soggettivo. Applicando le esposte coordinate al caso in esame, pare configurabile la responsabilità penale di Tizia: conforta l’assunto la più recente giurisprudenza; in particolare, in un recentissimo arresto, la Cassazione, in un caso analogo, ha optato per la soluzione positiva.
2. Omesso impedimento dell’evento
La Suprema Corte (decisione 4730/2008), nel casus decisus richiamato, ha confermato la sentenza di condanna per violenza sessuale, pronunciata dal Giudice di merito, nei confronti di una madre che non aveva impedito al proprio coniuge di perpetrare degli abusi sessuali nei confronti delle figlie minori. La responsabilità della donna, secondo la suaccennata giurisprudenza, trova fondamento giuridico nel disposto dell’art. 40, comma 2, c.p., secondo il quale << non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo>>. Come già visto, deve sussistere, dunque, in capo al soggetto attivo dell’illecito il dovere di assicurare il rispetto del bene penalmente protetto. Ma qual è l’origine di tale obbligo? Sul punto si contendono il campo fondamentalmente le due teorie già illustrate: una formale, secondo la quale l’obbligo scaturirebbe dalla legge, penale o extrapenale, o dal contratto, ed un’altra sostanziale che attribuisce rilievo al potere di fatto che un soggetto possiede sulle condizioni del verificarsi dell’evento. Con la sentenza sopraccitata, i Giudici di Piazza Cavour sposano la tesi formalistica ed individuano la fonte dell’obbligo della madre nell’art. 147 c.c. che, nell’ambito dei doveri che gravano sui genitori, prevede, in particolare, l’obbligo di tutelare la vita, l’incolumità e la moralità sessuale dei figli minori contro eventi naturali o altrui aggressioni. La donna avrebbe, quindi, dovuto adottare opportune cautele, quali l’allontanamento del marito dalla casa coniugale o la denuncia dello stesso, volte ad impedire la continuazione del rituale delittuoso e ad assicurare il rispetto del bene protetto. In buona sostanza, la tutela dei figli minori ha natura assolutamente prioritaria rispetto a qualsivoglia altra esigenza.
Nel caso di specie, l’autonomia intellettiva, economica e sociale della donna, in quanto persona colta ed agiata, consentiva di escludere che ella potesse essere una vittima incolpevole del marito. Secondo l’apparato motivazionale della Corte di legittimità, la sudditanza nei confronti del coniuge era, pertanto, frutto di una scelta di vita, di una precisa volontà di comunione e di uno scellerato legame da salvaguardare anche a scapito delle primarie esigenze di protezione della integrità fisica e morale delle figlie. Alla luce delle sopra esposte considerazioni, gli ermellini hanno reputato giusta la condanna inflitta all’imputata.
4. Conclusioni
Da tutte le considerazioni sin qui richiamate emerge che il genitore esercente la potestà sui figli minori, in quanto investito di una posizione di “garanzia” in ordine alla tutela della integrità psico-fisica degli stessi, risponde penalmente degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli, quando sussistano le condizioni costituite: a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento; b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”; c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento. Ai sensi del citato art. 40 c.p., l’equiparazione tra il non impedire un evento, che si abbia l’obbligo giuridico di impedire, ed il cagionarlo, consente di configurare la stessa equiparazione tra fattispecie commissive ed omissive improprie, tutte le volte che l’ordinamento giuridico ponga in capo al soggetto attivo dell’illecito il dovere di assicurare il rispetto del bene penalmente protetto. In tal caso, infatti, l’inosservanza dell’obbligo di garantire la protezione del bene determina una situazione giuridica di parificazione al comportamento di colui che lo distrugge o lo danneggia (cfr. Cass. Sez. III, 19/1/2006 n. 4331, P.G. in proc. Biondillo ed altri). L’imputata, pertanto, rischia seriamente la condanna ai sensi degli artt. 40, II e 609-bis c.c.: proprio in ragione di una situazione professionale ed economica sicuramente privilegiata, avrebbe, infatti, avuto ogni possibilità – quanto meno una volta venuta “ufficialmente” a conoscenza degli abusi – di evitare il ripetersi di tali gravissimi fatti.