Le società partecipate possono fallire?

Il tema del fallimento delle società in mano pubblica, e in particolare delle società partecipate dagli enti locali, ha affaticato per anni giurisprudenza e dottrina. Ciò in particolare da quando, nel 2009, si è affacciata l’idea di applicare anche a tali società l’esenzione dal fallimento prevista, dall’art. 1 della legge fallimentare per gli enti pubblici.

Il ragionamento era all’incirca il seguente: se le società partecipate sono organizzate  e operano come se fossero enti pubblici, gestendo magari dei servizi pubblici come in precedenza avevano fatto enti pubblici (quali le aziende speciali) perché non trattarli, ai fini delle regole fallimentari, come enti pubblici? In fondo, si dice, tali soggetti sono società solamente nella forma, mentre nella sostanza sono soggetti pubblici.

Dopo anni di oscillazioni, ora in un senso ora nell’altro, la Cassazione si è infine pronunciata con la decisione n. 22209 del 2013, che ha dichiarato fallibile una società mista, per via del fatto che una società di capitali, anche se a capitale pubblico, rimane assoggettata al regime del Codice Civile se non vi è una deroga di legge. Inoltre secondo il giudice di legittimità l’esentabilità dal fallimento delle società pubbliche configurerebbe una violazione dei principi di concorrenza, di uguaglianza e affidamento.

Poco dopo, con la sentenza n. 26283 del 2013 delle Sezioni Unite, si è affermato che le società in house non sono altro che articolazioni organizzative dell’ente pubblico controllante.

Pertanto, se la fallibilità delle società a capitale misto pubblico-privato sembrerebbe essere pacifica, la giurisprudenza è estremamente oscillante per quanto riguarda le società a totale partecipazione pubblica.

Negli ultimi mesi i tribunali fallimentari si così sono divisi, pressoché in modo equo, tra i sostenitori della fallibilità delle società partecipate in house e quelli che hanno rigettato l’istanza di accesso delle stesse alle procedure concorsuali. Nel primo senso si sono pronunciate, per esempio, il Tribunale di Modena (decreto del 10.1.2014) e il Tribunale di Pescara (decreto del 14.1.2014) .

Hanno invece sostenuto la non fallibilità il Tribunale di Verona (decreto del 19.12.2013) e il Tribunale di Napoli (decisione del 20.1.2014). In tutti questi casi la società non è stata ritenuta fallibile perché mera longa manus dell’ente locale. Ne risulta che i relativi patrimoni, pur separati, non sono pienamente distinti.

Ma la conseguenza  di tutto ciò sarebbe che i creditori delle società in house avrebbero il potere di aggredire il patrimonio degli enti locali. È chiaro che un risultato del genere metterebbe a dura prova i già traballanti conti degli enti locali, esponendoli al dissesto. Pertanto non è difficile prevedere che, se tale orientamento giurisprudenziale avrà la forza di affermarsi, il legislatore correrà ai ripari, magari disciplinando, finalmente in modo specifico, il tema del dissesto delle società di proprietà pubblica.

Andrea Giurdanella

Laureato a Catania con 110 e lode, dopo un master in diritto amministrativo alla Sapienza ed alcuni stage tra Roma e Milano, si abilita e svolge la professione a Catania nello studio Giurdanella & Partners, dove si occupa anche di formazione e di editoria. Ultimo libro pubblicato "I nuovi parametri forensi dopo il DM 37/2018", con Maggioli editore.