Con la recente sentenza n. 4/2015, depositata in data 13 aprile 2015, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla fondamentale questione relativa all’applicazione, nel processo amministrativo di legittimità, del principio dispositivo di cui all’art. 34 c.p.a. (nella parte in cui fa riferimento ai “limiti della domanda”) e all’art. 99 c.p.c., nonché del principio della corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, esplicitato all’art. 112 c.p.c., secondo cui “il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”.
La questione rimessa all’Adunanza Plenaria riguardava, in particolare, la possibilità per il giudice, una volta accertata la fondatezza dei motivi di ricorso, di emettere d’ufficio una pronuncia di risarcimento del danno anziché di annullamento, a fronte di una domanda del ricorrente esclusivamente di natura demolitoria degli atti impugnati.
Secondo la Sezione remittente del Consiglio di Stato, potrebbe ammettersi siffatta possibilità nei casi in cui gli effetti dell’annullamento, tenuto conto anche del tempo intercorso tra l’emanazione degli atti e la pronuncia giurisdizionale, sarebbero troppo pregiugizievoli nei confronti dei controinteressati o, comunque, non più utili a tutelare pienamente gli interessi del ricorrente.
Nel caso di specie, la ricorrente aveva impugnato tutti gli atti di una procedura concorsuale della quale non era risultata vincitrice, chiedendone l’annullamento ed insistendo per la rinnovazione della procedura.
A fronte di una sentenza di primo grado che rigettava il ricorso, il Consiglio di Stato aveva invece ritenuto fondate le censure sollevate dalla ricorrente, accertando così l’illegittimità della procedura; tuttavia, essendo trascorsi circa quindici anni dal momento della pubblicazione della graduatoria, il collegio rimettente evidenziava che l’annullamento avrebbe causato un impatto devastante sulla vita degli incolpevoli controinteressati e propendeva dunque per un mutamento d’ufficio della domanda, disponendo unicamente il risarcimento del danno senza il previo annullamento degli atti concorsuali.
L’Adunanza plenaria ha però ritenuto siffatta tesi non condivisibile, proprio alla luce del generale principio della domanda, che regola anche il processo amministrativo.
In questo senso è stato affermato che, “in virtù di detto principio della domanda. non può ammettersi che in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), potrebbe non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice”.
I giudici di Palazzo Spada hanno giustamente rilevato che azione di annullamento e azione risarcitoria configurano due tipi di tutela completamente diversi, sia sotto il profilo del petitum, sia con riguardo alla causa petendi (che nel primo caso è l’illegittimità dell’atto, mentre nel secondo caso è data dall’illiceità del comportamento).
Pertanto, nel caso in cui una domanda di annullamento, con il suo effetto tipico di eliminazione dell’atto impugnato dal mondo giuridico, non dovesse più soddisfare l’interesse del ricorrente, il giudice non avrebbe altra possibilità che accertare la sopravvenuta carenza di interesse, dichiarando il ricorso improcedibile.
Viceversa, come già osservato, “non è consentito al giudice, stante l’esistenza dell’interesse all’annullamento, derogare, sulla base di ragioni di opportunità, giustizia ed equità, al principio della domanda e trasformarne il petitum o la causa petendi, incorrendo altrimenti nel vizio di extrapetizione”.
Infine, l’Adunanza plenaria ribadisce il principio secondo cui il tempo necessario alla definizione del giudizio, a maggior quando esso sia eccessivamente lungo, non può pregiudicare andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicarne la pretesa.