La Corte di Cassazione con la sentenza n. 5574 del 22 marzo scorso, ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che rispetto al totale dei permessi retribuiti concessegli ai sensi della Legge 104, ne aveva utilizzati solo il 17% per l’assistenza effettiva al parente disabile.
Ad avviso della Corte, tale condotta ha integrato una violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro di cui agli artt. 1175 e 1375 del codice civile, idonea a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro.
La Corte di Appello aveva infatti constatato che a fronte delle 24 ore di permessi retribuiti concessi, il lavoratore aveva tenuto una condotta compatibile alle esigenze assistenziali poste a sostegno della richiesta solo per circa 4 ore, pari per l’appunto al 17% del tempo totale.
La Cassazione ha ritenuto corretta l’interpretazione della Corte di Appello e legittimo il licenziamento operato dal datore di lavoro, rigettando pertanto il ricorso del lavoratore.
Si riporta di seguito il testo della sentenza.
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Svolgimento del processo
Con sentenza n. 737/2014, pubblicata il 22 settembre 2014, la Corte d’appello di L’Aquila, in accoglimento del reclamo proposto da S.E.VE.L. – Società Europea Veicoli Leggeri S.p.a. e in riforma della sentenza del Tribunale di Lanciano in data 7/7/2014, respingeva la domanda di S.A. volta alla dichiarazione dì illegittimità del licenziamento disciplinare intirnatogli il 13/12/2012 per giusta causa, consistita nella condotta di abuso posto in essere nella fruizione dei permessi ai sensi della I. 5 febbraio 1992, n. 104 nei giorni 22, 26 e 28 novembre 2012, allorquando il lavoratore era stato visto recarsi presso l’abitazione del parente assistito soltanto per complessive quattro ore e tredici minuti, pari al 17,5% dei tempo totale concesso.
La Corte osservava a sostegno della propria decisione come la sanzione irrogata dovesse ritenersi proporzionata all’evidente intenzionalità della condotta e alla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse dei lavoratore al rispetto delle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei contratto,
Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza l’A., con tre motivi; la società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 I. 4 novembre 2010, n. 183 per avere la Corte, pur riconoscendo che, a seguito dell’entrata in vigore di detta norma, erano venuti meno i requisiti della “continuità” e della “esclusività”, affermato che l’assistenza dovesse comunque uniformarsi ai criteri di sistematicità e di adeguatezza, già elaborati dall’INPS nell’ambito della disciplina previgente.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: deduce al riguardo che la Corte aveva ritenuto insufficiente un’attività assistenziale pari al 17,5% dei tempo complessivo dei permessi, così implicitamente riconoscendo che potrebbe essere sufficiente prestare assistenza anche per una percentuale inferiore al 100% dei monte ore e peraltro in difetto di una normativa che indichi quale siail livello percentuale minimo richiesto affinché la condotta assistenziale possa legittimamente rapportarsi ai permessi.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 2119 c.c. per avere la Corte di appello trascurato di considerare, nella necessaria valutazione complessiva della condotta dei lavoratore, che egli non aveva avuto alcuna intenzione di non prestare assistenza al familiare, essendosi anzi regolarmente recato da lui e non essendosi allontanato dalla propria abitazione per momenti di svago o per andare a svolgere altre attività lavorative; con la conseguenza che la condotta posta in essere, ove pure suscettibile, per ipotesi, di rilievo disciplinare, non poteva certamente, in assenza di un consapevole intento elusivo, condurre all’applicazione della sanzione espulsiva.
Il ricorso deve essere respinto.
Il primo motivo è, infatti, del tutto inconferente rispetto alla decisione adottata dalla Corte territoriale, la quale si fonda non sul tipo di assistenza ex art. 33, comma 3, I. 5 febbraio 1992, n. 104, così come modificato dalla legislazione successiva, che il lavoratore avrebbe dovuto prestare alla persona con handicap, ma sulla utilizzazione dei permessi mensili “per scopi estranei a quelli per i quali sono stati concessi”: comportamento, questo, nelle valutazioni dellaCorte, “oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa (v. sent. impugnata, penultima pagina, ove è sintetizzata la ratio decidendi).
Il secondo motivo di ricorso è palesemente inammissibile, posto che, con lo stesso, viene dedotto il vizio dì omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia e cioè un vizio che rispecchia la formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. anteriore alla modifica apportata dall’art. 54 d. 1. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella 1. 7 agosto 2012, n. 134, e che si applica alle sentenze che, come quella impugnata con il ricorso in esame, risultano pubblicate a decorrere dall’11/9/2012.
Il terzo motivo è infondato.
Al riguardo si deve preliminarmente osservare che il piano assistenziale, e pertanto della sussistenza dei requisiti per la concessione del beneficio (nel(a specie, 3 giorni di permesso mensile retribuito), e quello della condotta successiva dei lavoratore, che abbia conseguito tale beneficio e durante il tempo della sua fruizione, restano distinti, ben potendo il datore di lavoro procedere ad una propria e autonoma valutazione di tale condotta nell’ottica del rispetto dei canone di buona fede che presiedeall’esecuzione dei contratto di lavoro, come di ogni altro (art. 1375 c.c.).
Su tale premessa è da osservare come la sentenza impugnata si sottragga alla censura in oggetto.
La Corte territoriale, infatti, dopo avere richiamato la circostanza, peraltro pacifica, che l’A. – a fronte di 24 ore di permessi retribuiti concessi nei giorni 22, 26 e 28 novembre 2012 – aveva tenuto una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali poste a sostegno della richiesta solo per quattro ore e 13 minuti, pari al 17,5% dei tempo totale (v. sentenza, p. 5), ha sottolineato come tale condotta, dimostrando “un sostanziale disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali”, fosse tale da integrare “una grave violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., idonea a legittimare il recesso per giusta causa del datore di lavoro” (pp. 6-7).
Né può dubitarsi della conclusione così raggiunta dalla Corte di appello sul rilievo che l’A. si è comunque sempre recato in ognuno di tali giorni presso l’abitazione del parente da assistere,~l carattere abusivo della condotta dai medesimo posta in essere, e conseguentemente ia sua idoneità a integrare la violazione dei canoni richiamati e\una giusta causa di recesso datoriale,risultando dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale dei tempo destinato all’attività di assistenza rispetto a quello totale dei permessi, sia relativi alle altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata, caratterizzate – come la sentenza ha posto in rilievo (p. 3) – da un’evidente, quanto anch’essa non contestata, irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 per esborsi e in curo 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dei comma 1 bis dello stesso articolo 13.