Il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la sentenza n. 4577 del 2 novembre 2016, ha affermato che l’ordine di demolizione, emesso posteriormente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, è un atto dovuto, in quanto provvedimento sanzionatorio edilizio.
Secondo il Collegio l’ordinanza di demolizione deve essere emanata senza ritardo e non necessita di una previa comunicazione di avvio del procedimento, in quanto si tratta di una misura sanzionatoria volta all’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, che hanno come presupposto l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza.
Il Consiglio di Stato, richiamando una giurisprudenza consolidata (cfr. ex aliis Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2016, n. 1393), ha ravvisato come “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera”.
Al contrario, queste affermazioni trovano una limitazione in tutti quei casi in cui le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dall’abuso, cosa che rende evidentemente illegittimo un ordine di demolizione di un edificio “laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.
Si riporta di seguito il testo della sentenza.
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Pubblicato il 02/11/2016
N. 04577/2016 REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello nr. 9204 del 2006, proposto dalla signora Giuseppina ANASTASIO, rappresentata e difesa dall’avvocato Aldo Starace, con domicilio eletto presso lo studio De Curtis in Roma, via M. Dionigi, 57,
contro
il COMUNE DI SANT’ANASTASIA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Cresci e Antonio Messina, con domicilio eletto presso l’avv. Carlo Sarro in Roma, piazza di Spagna, 35,
per la riforma
della sentenza del T.A.R per la Campania, sede di Napoli, Sezione Terza, n. 13887/2005, resa tra le parti, concernente demolizione opere realizzate in assenza di concessione edilizia.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2016, il Consigliere Fabio Taormina;
Uditi l’avv. Claudia De Curtis, su delega dell’avv. Starace, per la parte appellante e l’avv. Massimo Malena, su delega dell’avv. Messina, per il Comune appellato;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 13887/05 il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha respinto il ricorso, proposto dalla odierna parte appellante, signora Giuseppina Anastasio, teso ad ottenere l’annullamento dell’ingiunzione n. 144 del 25 ottobre 1999 del responsabile del settore urbanistica del comune di Sant’Anastasia, notificata il successivo 3 novembre 1999, con la quale si era ingiunto alla detta originaria ricorrente di provvedere alla demolizione delle opere realizzate in assenza di concessione edilizia sul fondo di sua proprietà sito in Sant’Anastasia, via Arco, n. 161.
1.1. L’odierna parte appellante aveva prospettato numerose censure di violazione di legge ed eccesso di potere.
1.2. Il Comune di Sant’Anastasia si era costituito eccependo l’inammissibilità del ricorso per genericità e comunque chiedendone la reiezione nel merito.
2. Il T.a.r. – accertato che la parte appellante non aveva presentato alcuna istanza di condono ai sensi della legge n. 326 del 2004 – ha esaminato le dedotte censure di violazione di legge ed eccesso di potere prospettate dall’odierna parte appellante, e ne ha escluso la fondatezza, in quanto:
a) trattandosi di un provvedimento sanzionatorio per abusi edilizi, nessun avviso doveva essere comunicato, stante la natura vincolata del provvedimento ai sensi dell’art. 21 octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005;
b) era infondata la tesi secondo cui le opere abusive erano precarie e comunque rientranti nel novero delle pertinenze, come tali sottratte al regime concessorio e sottoposte solo ad autorizzazione posto che si trattava di 30 box adibiti a garage, composti da pareti esterne in lamiera, copertura in lamiera ondulata, struttura di sostegno in ferro e divisioni interne in pietra tufacea, per una superficie di circa 375 mq, realizzati da circa 15 anni e quindi (anche per la conformazione dei manufatti, realizzati con strutture stabili e resistenti) certamente non aventi natura precaria;
c) neppure di tali manufatti poteva affermarsi la natura pertinenziale: il loro numero (trenta garage) e la loro dislocazione, (essi erano stati “realizzati ai lati del fondo, creando al centro dello stesso un corridoio”) erano chiaramente indicativi della assenza di alcuna destinazione pertinenziale, rispetto a non meglio definiti edifici preesistenti;
d) la asserita inadeguata motivazione circa la sussistenza del pubblico interesse alla demolizione era insussistente, in quanto la natura vincolata del provvedimento sanzionatorio esimeva il Comune dal motivare diffusamente sull’interesse pubblico sotteso alla demolizione.
2.1. Il ricorso è stato quindi integralmente respinto.
3. L’originaria parte ricorrente, rimasta soccombente, ha impugnato la suindicata decisione criticandola sotto ogni angolo prospettico, e dopo avere rivisitato le principali tappe del contenzioso infraprocedimentale e giurisdizionale di primo grado ha riproposto (attualizzandole in relazione al contenuto della sentenza impugnata) le censure già invano prospettate nel ricorso di primo grado.
4. In data 3 aprile 2007 l’appellata Amministrazione comunale di Sant’Anastasia si è costituita depositando una breve memoria e chiedendo la reiezione dell’appello in quanto infondato.
5. In data 19 settembre 2016 l’appellata Amministrazione comunale ha depositato una ulteriore memoria ribadendo le proprie difese e chiedendo che l’appello venisse dichiarato inammissibile in quanto generico e (soprattutto con riferimento al secondo motivo) proposto in violazione del divieto di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c. e comunque respinto perché infondato.
7. Alla odierna udienza pubblica del 20 ottobre 2016 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. L’appello è infondato e va respinto.
2. Va respinta l’eccezione di inammissibilità dell’appello per genericità, in quanto nell’atto di impugnazione sono sufficientemente specificate le ragioni di critica alla motivazione della sentenza.
3.Nel merito, si osserva che:
a) per incontroversa giurisprudenza (tra le tante vedasi Cons. Stato, sez. III, 14 aprile 2015, n. 2411) “l’ordine di demolizione conseguente all’accertamento della natura abusiva delle opere realizzate, come tutti i provvedimenti sanzionatori edilizi, è un atto dovuto: l’ordinanza va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l’accertamento dell’inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l’abuso, di cui peraltro l’interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo”;
b) la tesi secondo cui l’appellante si era limitata solamente ad eseguire lavori di manutenzione straordinaria su1 manufatto preesistente (consistiti nella posa in opera di pareti e di coperture esterne in lamiera sorrette da strutture di sostegno in ferro) e senza aumento di volumetria, oltre ad essere a sproposito ed intempestivamente proposta nell’odierno grado di appello (semmai l’appellante avrebbe dovuto contestare la ritenuta natura abusiva in primo grado) e quindi inammissibile in quanto resa in spregio del divieto di motivi “nuovi” ex art. 104 del c.p.a. e 345 c.p.c. sarebbe comunque priva di prova, in quanto soltanto labialmente affermata, ed inaccoglibile, in quanto lo spazio in oggetto era prima aperto, e solo attraverso detti lavori è stato creato un incremento volumetrico;
c) né in primo grado, né in appello, è stata documentata la pertinenzialità di ogni singolo garage a singoli immobili adibiti ad abitazione, ed in ogni caso, la tesi sarebbe inaccoglibile, in quanto per incontroversa giurisprudenza penale (cfr. Cass. pen., sez. III, 9 dicembre 2004, n. 5465; id., 15 marzo 1994) “in materia di reati edilizi, la nozione di pertinenza urbanistica, sottratta al regime della concessione edilizia e assoggettata a quello dell’autorizzazione gratuita, ha peculiarità proprie e distinte dalla nozione civilistica, giacché deve avere una propria identità fisica ed una propria conformazione strutturale ed essere preordinata ad un’esigenza effettiva dell’edificio principale, al cui servizio deve essere posta in via funzionale ed oggettiva, mentre non deve possedere un autonomo valore di mercato, nel senso che il suo volume non deve consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell’immobile cui accede. Pertanto è priva di un oggettivo nesso di ‘strumentalità funzionale’ la costruzione di una parte di edificio in ampliamento e adiacente a quello principale, benché destinato ad autorimessa, in quanto è evidente che tale vano può mutare la sua destinazione o comunque è utilizzabile economicamente in altro modo”.
Inoltre, si è detto, che “perché un’opera edilizia possa essere annoverata tra le pertinenze, è necessario che la sua strumentalità rispetto all’immobile principale sia oggettiva, cioè connaturale alla sua struttura e non soggettiva, desunta cioè dalla destinazione data dal possessore. Ne deriva che la destinazione di una modesta costruzione (box) a garage (o autorimessa) non integra una pertinenza, poiché tale utilizzazione esorbita dal rapporto di servizio funzionale nei confronti dell’edificio stesso” (Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 1989, Cameran, in C.E.D. Cass., n. 183106);
d) quanto all’ultima censura, rammenta il Collegio che per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 8 aprile 2016, n. 1393) “l’ingiunzione di demolizione, in quanto atto dovuto in presenza della constatata realizzazione dell’opera edilizia senza titolo abilitativo o in totale difformità da esso, è in linea di principio sufficientemente motivata con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera; ma deve intendersi fatta salva l’ipotesi in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed il protrarsi dell’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato; ipotesi questa in relazione alla quale si ravvisa un onere di congrua motivazione che indichi, avuto riguardo anche all’entità ed alla tipologia dell’abuso, il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”.
Si è dedotto, pertanto che soltanto laddove “le difformità rilevate siano di limitata entità e sia trascorso un notevole lasso di tempo dal supposto abuso, è illegittimo un ordine di demolizione di un edificio laddove non fornisca alcuna adeguata motivazione sull’esigenza della demolizione nonostante il tempo trascorso e il conseguente affidamento ingeneratosi in capo al privato”.
Nel caso di specie, il numero dei garages abusivi, e la loro consistenza, impedisce di ritenere l’abuso di modesta entità, per cui correttamente è stato ritenuto dal T.a.r. che il Comune non era tenuto a fornire nessuna ulteriore motivazione in punto di pubblico interesse alla rimozione delle opere suddette.
L’appellante, poi avrebbe ben potuto presentare domanda di sanatoria (si rammenta che il processo di primo grado venne sospeso con ordinanza collegiale n. 83 del 2004 proprio per la pendenza dei termini per la proposizione dell’istanza di condono a i sensi del d.l. 269 del 2003), per cui i supposti – e comunque non dirimenti ai sensi dell’art. 21 octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, introdotto dalla legge n. 15 del 2005 – vizi infraprocedimentali del provvedimento impugnato comunque nessun danno in concreto gli avrebbero cagionato, sotto tale profilo.
4. Conclusivamente, l’appello deve essere integralmente respinto.
4.1. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, tra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663).
4.2. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
5. Le spese del presente giudizio seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento n. 55 del 2014.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna parte appellante al pagamento, a favore dell’Amministrazione resistente e costituita, delle spese del presente giudizio, che sono nel complesso liquidate in € 3.000,00 (euro tremila/00), oltre IVA e CPA e 15% a titolo di rimborso spese generali come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2016 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco, Presidente FF
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Andrea Migliozzi, Consigliere
Giuseppe Castiglia, Consigliere
Nicola D’Angelo, Consigliere
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Fabio Taormina | Raffaele Greco | |
IL SEGRETARIO