La Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 2142 del 27 gennaio 2017 sui presupposti per l’applicabilità del mobbing nel pubblico impiego.
Nel caso di specie si trattava di vigile urbano che, per rappresaglia, era stato accompagnato all’entrata del cimitero e gli veniva indicato lo stesso quale sede del suo lavoro.
La Suprema Corte ha affermato che “Anche nel pubblico impiego privatizzato, al fine di configurare, nel loro concorso, il mobbing lavorativo, devono ricorrere i seguenti elementi:
a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
E’ stata confermata, pertanto, la sentenza che, in applicazione del principio, che aveva rilevato la configurabilità del mobbing in relazione al fatto che un dipendente comunale con la qualifica di Vigile urbano, per rappresaglia rispetto ad alcune rimostranze, era stato collocato presso un altro ufficio ed era stato “lasciato inattivo e senza compiti” o gli erano stati assegnati compiti esigui.
Inoltre, nel caso di specie, come da fonti testimoniali, il dipendente era stato collocato in un’ambiente senza scrivania o sedia, senza le necessarie precauzioni a livello di sicurezza, costretto a stare in piedi nel corridoio. Elementi questi che denotavano una condotta lesiva della dignità umana a discapito del dipendente.