Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza n. 1484 del 30 marzo 2017, ha fornito importanti chiarimenti circa la distinzione tra la nozione di variazione essenziale e variante.
Si legge dalla sentenza: “La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso. In particolare, l’art. 31 del TUE disciplina gli abusi più gravemente sanzionati”.
Sulla distinzione tra varianti e variazione essenziale, i giudici di Palazzo Spada si sono così pronunciati: “Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE). Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27 febbraio 2014, n. 34099)”.
Si riporta di seguito il testo della sentenza.
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Pubblicato il 30/03/2017
N. 01484/2017 REG.PROV.COLL.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7749 del 2010, proposto dal signor GIOVANNI CALCAGNO, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Sartorio, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, via Luigi Luciani n. 1;
contro
Il COMUNE DI NAPOLI, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giacomo Pizza, Fabio Maria Ferrari e Antonio Andreottola, con domicilio eletto presso l’avvocato Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 18;
il MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI, in persona del ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
per la riforma:
della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI – SEZ. IV n. 4735/2009;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Napoli e del MIBACT;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti l’avvocato Luca Di Raimondo, per delega dell’avvocato Giuseppe Sartorio, e l’avvocato Gabriele Pafundi, per delega dell’avvocato Giacomo Pizza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I. Nel corso del giudizio di primo grado sono stati impugnati quattro distinti atti, tutti riguardanti il medesimo intervento edilizio operato all’ultimo piano e sul lastrico solare del Palazzo Carafa della Spina in Napoli, immobile sottoposto a vincolo storico-artistico.
I.1. Con il ricorso introduttivo, il sig. Giovanni Calcagno, proprietario di due appartamenti siti al quinto piano del fabbricato di via Benedetto Croce n. 45, Napoli, e titolare del diritto d’uso esclusivo del relativo soprastante terrazzo, ha impugnato la nota del Soprintendente per i Beni architettonici, il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico e etnoantropologico della Provincia di Napoli prot. 1360\05 del 4 febbraio 2005, recante conferma condizionata del parere favorevole, precedentemente espresso dal Soprintendente in data 8 maggio 2001, alla realizzazione delle opere in corso nella proprietà del ricorrente, consistenti nel rifacimento della pavimentazione, nel restauro del parapetto, nella sostituzione della preesistente tettoia e nella realizzazione di due lucernari.
Il provvedimento impugnato aveva imposto le seguenti due prescrizioni:
– che il torrino di copertura della scala, da adibire a volume tecnico, fosse demolito;
– che il progetto relativo alla sanatoria fosse portato a conoscenza del condominio.
I.2. Con ricorso per motivi aggiunti, il signor Calcagno ha impugnato anche la nota n. 7056\05 del 14 aprile 2005, con cui l’Amministrazione dei Beni culturali ha confermato il contenuto del proprio precedente parere, evidenziando che il fabbricato in cui è ubicato l’appartamento in questione già nel passato era stato oggetto di numerosi interventi abusivi realizzati da più condomini, nei cui confronti erano stati emessi dei provvedimenti repressivi rimasti senza effetto.
I.3. Con ulteriori motivi aggiunti, è stato gravata anche la determinazione dirigenziale n. 331 del 22 marzo 2005, con cui il Servizio antiabusivismo edilizio del Comune di Napoli ha ingiunto al ricorrente la demolizione delle suddette opere secondo i criteri da indicarsi a cura della Soprintendenza per i Beni architettonici, il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico e etnoantropologico della Provincia di Napoli, nonché il pagamento della sanzione pecuniaria di € 5.164,57.
I.4. Con la disposizione dirigenziale n. 761 del 2 dicembre 2005, il Comune di Napoli si è pronunciato sull’istanza di sanatoria prodotta dal sig. Calcagno il 22 giugno 2005, opponendovi un diniego motivato con la violazione dell’art. 66 delle norme tecniche di attuazione della variante generale al PRG approvata l’11 giugno 2004 (quanto al lucernario, che emerge per un metro, contro un massimo consentito di 80 centimetri), con la violazione del R.E.C. (quanto ai soppalchi interni, la cui altezza sarebbe inferiore a quella prevista dall’art. 43, comma II, lettera B, L. 457\78 per i locali abitabili), nonché con il mantenimento del vano tecnico del quale la Soprintendenza aveva richiesto l’eliminazione.
II. Il T.A.R. della Campania, con sentenza n. 4735 del 2009, ha dichiarato:
– improcedibile il ricorso principale, in quanto l’impugnazione del parere del Soprintendente del 4 febbraio 2005 è stato oggetto di riesame da parte dell’organo competente, all’esito del quale è stato emesso il parere contenuto nella nota prot. 7056\05 dell’11 aprile 2005;
– ha accolto il primo ricorso per motivi aggiunti, in relazione alla censura di difetto d’istruttoria, non avendo l’Amministrazione dei Beni culturali valutato le concrete risultanze di fatto che deponevano per una complessiva riduzione della cubatura dell’edificio, in ordine alla quale non potevano essere, quindi, dettate prescrizioni aventi finalità “compensative”;
– ha dichiarato improcedibile il secondo ricorso per motivi aggiunti per sopravvenuto difetto d’interesse, atteso che il provvedimento oggetto di questa parte dell’impugnativa è stato superato, nel contenuto, dal provvedimento emesso dal Comune sull’istanza di un titolo autorizzativo in variante all’autorizzazione edilizia ottenuta nel 2001, presentata dall’interessato il 22 giugno 2005;
– ha respinto il terzo ricorso per motivi aggiunti, relativo alla disposizione dirigenziale n. 761 del 2 dicembre 2005, con la quale il Comune ha respinto l’istanza di titolo in variante alla autorizzazione rilasciata all’interessato nel 2001, ed ha nuovamente ingiunto la remissione in pristino dello stato dei luoghi e il pagamento della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001. A quest’ultimo riguardo, il TAR ha accertato la non conformità. del lucernario realizzato alle previsioni dell’art. 66 delle norme di attuazione del piano regolatore vigente del Comune di Napoli e, per quanto riguarda i soppalchi, la loro altezza inferiore a quella minima prevista dal II comma dell’art. 15 del R.E.C., pari a 2,70 metri.
III. Il signor Calcagno ha proposto appello avverso la predetta sentenza n. 4735 del 5 agosto 2009, limitatamente alla parte in cui essa ha respinto il terzo ricorso per motivi aggiunti promosso avverso la citata disposizione dirigenziale n. 761 del 2 dicembre 2005, con la quale l’amministrazione comunale ha denegato l’istanza di accertamento di conformità presentata dal proprietario ed ha nuovamente ingiunto la remissione in pristino dello stato dei luoghi e il pagamento della sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 DPR 380\2001.
DIRITTO
I. Ritiene la Sezione che l’appello sia infondato.
I.1. L’immobile in cui sono stati realizzati gli interventi contestati sopra rappresentati è vincolato in quanto di interesse storico e artistico. L’intervento contestato è consistito nella realizzazione di un unico lucernario di metri 2,85 per 6,15 in luogo dei due previsti (entrambi a forma di un quadrato di tre metri), la cui apertura, inoltre, risulta collocata in posizione diversa rispetto a quella autorizzata originariamente ed emergente dal piano di calpestio del terrazzo per circa un metro; nonché nella realizzazione di soppalchi posti a m. 2,40 dal piano di calpestio.
I.2. Il provvedimento impugnato reca la seguente motivazione: «letta la relazione istruttoria redatta dal responsabile del procedimento arch. A. Antinolfi dalla quale si rileva che l’intervento eseguito non è consentito a norma dell’art. 66, comma 2, punto a), che prevede l’apertura di lucernai emergenti nel limite massimo di m 0,80 su terrazze piane e di superficie di bucatura di 1 mq. Nel caso in esame il lucernaio realizzato non rispetta le condizioni succitate, emergendo dai solaio per m 1,00. Inoltre parte dell’area soppalcata realizzata non rispetta le prescrizioni dettate dall’art. 15, comma 2, del vigente regolamento edilizio, in quanto l’altezza utile all’intradosso del soppalco è inferiore a quella prevista dall’art. 43, comma 2, lettera b) della L 457/78 per i locali abitabili; che il vano tecnico di cui alla prescrizione espressa dalla soprintendenza BAP nel nulla osta prot. ml 360/05 viene mantenuto».
II. Con il primo motivo l’appellante censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che l’intervento realizzato sia del tutto difforme rispetto a quello assentito dal Comune con l’autorizzazione edilizia n. 935 del 27 novembre 2001. Le opere eseguite (con particolare riferimento alla realizzazione di un unico lucernario, in luogo dei due previsti nell’originario titolo autorizzatorio e con una consistente diminuzione della superficie) non potrebbero in alcun modo configurare una variazione essenziale, ovvero una totale difformità rispetto all’intervento già assentito astrattamente idonea a giustificare la pesante sanzione ripristinatoria dell’ordine di demolizione.
II.1. La censura è infondata.
La disciplina sanzionatoria degli abusi nelle costruzioni contempla tre fattispecie ordinate secondo la gravità dell’abuso: l’ipotesi di interventi in assenza di permesso o di totale difformità; l’ipotesi intermedia di variazioni essenziali dal titolo edilizio; l’ipotesi residuale della parziale difformità da esso.
In particolare, l’art. 31 del TUE disciplina gli abusi più gravemente sanzionati.
L’assenza di permesso consiste nella sua insussistenza oggettiva per l’opera autorizzata.
Accanto al caso del permesso mai rilasciato, vi sono i casi nei quali il titolo è stato rilasciato, ma è privo (o è divenuto privo) di effetti giuridici.
L’art. 31, comma 1, del TUE prevede anche una figura di mancanza sostanziale del permesso, che si verifica quando vi è difformità totale dell’opera rispetto a quanto previsto nel titolo, pur sussistente. Si ha difformità totale, quando sia realizzato un organismo edilizio:
– integralmente diverso per caratteristiche tipologiche architettoniche ed edilizie; – integralmente diverso per caratteristiche planovolumetriche, e cioè nella forma, nella collocazione e distribuzione dei volumi;
– integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione (la destinazione d’uso derivante dai caratteri fisici dell’organismo edilizio stesso);
– integralmente diverso perché comportante la costituzione di volumi nuovi ed autonomi.
Accanto alle forme di abuso appena ricordate, l’art. 32 del TUE, ‒ così come prima l’art. 7, comma 2, della legge n. 47 del 1985 ‒ regola la fattispecie dell’esecuzione di opere in «variazione essenziale» rispetto al progetto approvato. Tale tipo di abuso è parificato, quanto alle conseguenze, al caso di mancanza di permesso di costruire e di difformità totale, salvo che per gli effetti penali. Le variazioni essenziali sono soggette alla più lieve pena prevista per l’ipotesi della lett. a) dell’articolo 44.
La determinazione dei casi di variazione essenziale è affidata alle regioni nel rispetto di alcuni criteri di massima. In particolare, ai sensi dell’art. 32, comma 1, del TUE, sussiste variazione essenziale esclusivamente in presenza di una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento di destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato, ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza; d) il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentite; e) la violazione della normativa edilizia antisismica.
Il concetto di variazione essenziale, che attiene alla modalità di esecuzione delle opere, va distinto dalle “varianti” che invece riguardano la richiesta di una variazione del titolo autorizzativo (art. 22, comma 2, del TUE).
Mentre le varianti in senso proprio, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire, le varianti essenziali, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall’art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante (cfr. Cassazione penale, sez. III, 27 febbraio 2014, n. 34099). Nel caso di variante essenziale il problema si concentra nella necessità o meno di nuovo titolo, che deve quindi considerare l’eventuale diversa normativa sopravvenuta; la variante invece si riferisce al titolo originario senza nuova valutazione della normativa vigente.
Il caso della difformità parziale dal permesso di costruire per le nuove costruzioni è invece previsto e regolato dall’art. 34 del TUE (applicabile anche ai casi di DIA sostitutiva del permesso di costruire ai sensi dell’art. 22, comma 3, del TUE). Si tratta una categoria residuale, la cui nozione è stata ulteriormente chiarita dalla giurisprudenza amministrativa.
Il concetto di parziale difformità presuppone che un determinato intervento costruttivo, pur se contemplato dal titolo autorizzatorio rilasciato dall’autorità amministrativa, venga realizzato secondo modalità diverse da quelle previste e autorizzate a livello progettuale, come si desume in negativo dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001.
In base alla norma infatti, mentre si è in presenza di difformità totale del manufatto o di variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, quando i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera.
Ai fini sanzionatori, per gli interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, va senz’altro disposta la demolizione delle opere abusive; per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, la legge prevede la demolizione, a meno che, non potendo essa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, debba essere applicata una sanzione pecuniaria.
Il campo di applicazione dell’art. 34 del TUE è stato modificato dall’articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2011, n. 106.
In particolare, proprio l’assenza di una compiuta definizione della categoria dei lavori ed interventi eseguiti in parziale difformità ha indotto il legislatore a fissare una soglia di rilevanza minima delle variazioni non costituenti illecito edilizio. Si tratta di quegli scostamenti dai parametri autorizzati di misura talmente contenuta da non potere essere considerati un illecito edilizio. Per questo è stata introdotta una soglia minima di rilevanza delle difformità parziali, che è esclusa «in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali» (comma 2-ter).
L’ambito di applicazione della nuova disposizione viene espressamente circoscritto alla materia edilizia. Non opera, dunque, nel caso di interventi su immobili “vincolati” eseguiti in difformità dalle autorizzazioni rilasciate ai sensi del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Ovviamente, inoltre, la disposizione opera unicamente nei rapporti con l’amministrazione, senza interferire con i rapporti privatistici di vicinato.
II.2. Nel caso di specie, comparando sinteticamente il progetto allegato al titolo edilizio e il manufatto scaturente dalla complessiva attività di edificazione, risulta evidente la totale difformità di quest’ultimo rispetto al primo quanto a caratteristiche tipologiche, forma, collocazione e distribuzione dei volumi.
Difatti, è stato realizzato un unico grande lucernario rettangolare con lati di 6 x 3 della dimensione di quasi 18 mq al posto dei due autorizzati, ognuno dei quali delle forma di un quadrato di lato 3 m. Tale apertura, essendo collocata in posizione diversa rispetto a quanto originariamente assentito ed emergendo dal piano di calpestio del terrazzo per circa un metro, ha comportato una diversa distribuzione delle luci e delle vedute, a cui, consegue una modifica della sagoma.
L’intervento in esame – come sottolineato dal giudice di prime cure – viola, al contempo, l’art. 66 delle norme di attuazione del piano regolatore vigente del Comune di Napoli, in quanto supera i limiti dimensionali massimi ivi previsti (un metro quadrato di apertura e 80 cm di emersione dal piano di calpestio). Ne consegue che la sanzione ripristinatoria irrogata dal Comune è stata legittimamente adottata ai sensi dell’art. 33, comma 6, del T.U.E.
III. Il secondo motivo di appello è riferito all’ordine di demolizione delle aree soppalcate realizzate senza titolo edilizio. Rispetto al piccolo ripostiglio ammezzato, realizzato mediante soppalcatura all’interno del proprio appartamento, il TAR avrebbe errato nel ritenere che tale opera abbia determinato un incremento della superficie utile dell’unità immobiliare, con conseguente applicabilità delle sanzioni previste per gli interventi assoggettati a permesso di costruire. Non sarebbe stata considerata la circostanza fondamentale che il ripostiglio, essendo posto ad un’altezza di soli 0,60 mt dal soffitto, non realizzerebbe alcun incremento della superficie utile.
III.1. Il motivo non coglie nel segno. L’illegittimità risiede, infatti, nella mancanza dell’altezza minima del soppalco nella parte inferiore tra il solaio dell’appartamento e l’intradosso, in violazione delle prescrizioni dettate dall’art. 15, comma 2 del vigente regolamento edilizio: in particolare, l’altezza utile all’intradosso del soppalco è inferiore a quella prevista dall’art. 43, comma 2, lettera b) della legge n. 457 del 1978 per i locali abitabile, di 2,40 m.
IV. Nel terzo motivo di gravame l’appellante sostiene che il Comune non avrebbe valutato che la demolizione degli interventi disposta dal Comune reca pregiudizio anche alle opere conformi al titolo edilizio.
IV.1. Anche tale censura è infondata.
L’art. 34 del TUE – che disciplina gli interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo al secondo comma che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione» – presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate senza titolo o in totale difformità.
La disposizione in esame, inoltre, deve essere interpretata, in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal comma 1, nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione.
Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (cfr. ex plurimis Consiglio di Stato, sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1912).
IV.2. Ebbene, nel caso in esame, l’amministrazione non doveva fare applicazione dell’art. 34 del T.U.E., in quanto (come si è sopra osservato) la fattispecie in esame riguarda interventi completamente diversi rispetto a quelli assentiti. Inoltre, l’eliminazione del soppalco e il ripristino del solaio, per la loro inidoneità a recare nocumento alla struttura preesistente, non rientrano tra le ipotesi circoscritte ed oggettive che soltanto giustificano la deroga alla sanzione principale a contenuto ripristinatorio dello status quo ante.
V. Con il quarto motivo di appello, l’appellante ripropone «i motivi di diritto già formulati nei terzi motivi aggiunti, da valere oggi come motivi di appello».
V.1. È dirimente osservare che, nel processo amministrativo d’appello, è inammissibile, per violazione del dovere di specificità dei motivi sancito dall’art. 101 c.p.a., la mera riproposizione di tutte le censure sviluppate in primo grado effettuata dalla parte appellante con il motivo di gravame (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, 14 febbraio 2017, n. 625; Consiglio di Stato, sez. IV, 10 febbraio 2017, n. 571).
VI. Per le ragioni che precedono, l’appello risulta infondato e va respinto.
Le spese del secondo grado di lite seguono la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 7749/2010, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in € 4000,00 (quattromila) in favore del Comune di Napoli, oltre IVA e CPA come per legge, e in € 1.000,00 in favore del MIBACT.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2017, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore
L’ESTENSORE | IL PRESIDENTE | |
Dario Simeoli | Luigi Maruotti | |
IL SEGRETARIO