La violazione del termine finale di conclusione del procedimento (art. 2-bis 241/90)

La violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo – salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.

L’art. 2-bis della legge sul procedimento, infatti, correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.

 

Il Consiglio di Stato chiarisce i connotati dell’obbligo di ragionevole durata del procedimento amministrativo, e le conseguenze della sua violazione (Cons Stato, sez. VI, 26 luglio 2018, n. 4577)

In seguito alla rideterminazione di  una sanzione dell’Antitrust, dopo un primo annullamento da parte del giudice amministrativo, le imprese sanzionate ricorrevano al  medesimo giudice amministrativo, sostenendo che l’Autorità sarebbe incorsa in una decadenza procedimentale e comunque in una palese violazione del principio di ragionevole durata del procedimento, il cui rispetto si imporrebbe in ragione della natura «penale» ‒ in senso convenzionale ‒ delle sanzioni antitrust.

Viene rimarcato, a tal fine, che il procedimento di rideterminazione è stato avviato soltanto quattro anni dopo la definizione del contenzioso giudiziario instaurato dalle imprese avverso l’originaria sanzione, e ad oltre otto anni dall’originario annullamento ad opera del giudice di prime cure.

Per le sanzioni antitrust si applica il termine di prescrizione quinquiennale, che viene interrotto durante il processo amministrativo

In primo luogo il Consiglio di Stato chiarisce che la sanzione è stata applicata nel rispetto del termine di prescrizione quinquennale fissato in via generale dall’art. 28 della legge n. 689 del 1981 (applicabile, ai procedimenti antitrust, in virtù del richiamo generale di cui all’art. 31 della legge n. 287 del 1990), da computarsi a decorrere dalla data di deposito della sentenza del Consiglio di Stato.

E infatti il decorso della prescrizione ‒ a partire dal «giorno in cui è stata commessa la violazione» ‒ è stato interrotto più volte, dall’atto di avvio del procedimento istruttorio e dalla successiva delibera, per poi restare sospeso durante tutto il giudizio amministrativo (2943-2945 c.c.).

Il rispetto del termine finale del procedimento e il principio di ragionevole durata

Passando alla questione della supposta violazione del principio di ragionevole durata del procedimento, il Consiglio di Stato osserva che, in termini generali, alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo, salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge.

Infatti si tratta di una regola di comportamento e non di validità.

L’art. 2-bis della legge sul procedimento, da un lato, prevede l’obbligo di terminare il procedimento amministrativo entro un termine ragionevole, e dall’altro correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include, tra le conseguenze giuridiche del ritardo, profili afferenti la stessa legittimità dell’atto tardivamente adottato.

Il ritardo, osserva il Collegio, non è quindi un vizio in sé dell’atto ma è un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una possibile forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione. Resta inoltre ferma la possibilità per gli interessati di chiedere la condanna dell’Amministrazione a provvedere ai sensi dell’art 117 c.p.a.

Il ritardo come vizio dell’atto in caso di perentorietà del termine

La sentenza in commento chiarisce che la perentorietà dei termini procedimentali può aversi, quale eccezione alla regola della loro natura meramente ordinatoria o acceleratoria, soltanto laddove la stessa perentorietà sia espressamente prevista dalle norme che disciplinano in modo specifico i procedimenti di volta in volta considerati, o queste sanzionino espressamente con la decadenza il mancato esercizio del potere dell’amministrazione entro i termini stabiliti.

Il ritardo come vizio dell’atto in caso di pregiudizio per la difesa delle imprese sanzionate per  “vizio della funzione pubblica”

In aggiunta a questa ipotesi, il Consiglio di Stato richiama la giurisprudenza europea ‒ e in particolare della Corte di giustizia (sentenza 21 settembre 2006, in C-105/04, punto 42) – per cui nei procedimenti relativi al regolamento n. 1 del 2003 deve ritenersi che il superamento del termine ragionevole di conclusione del procedimento (da computarsi di volta in volta alla luce della specifica disciplina di settore) possa costituire un motivo di annullamento delle decisioni che constatino la commissione di infrazioni soltanto qualora risulti provato che la violazione del principio del termine ragionevole ha pregiudicato i diritti della difesa delle imprese interessate, ridondando in un vizio della funzione pubblica.

Al di fuori di tale specifica ipotesi ‒ conclude il Collegio ‒, il mancato rispetto dell’obbligo di decidere entro un termine ragionevole non incide sulla validità dell’atto.

In allegato Cons Stato, sez. VI, 26 luglio 2018, n. 4577

Redazione

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