La Corte Costituzionale, pur non pronunciandosi sul merito della costituzionalità della normativa, analizza i punti più controversi sulla responsabilità per danno della Pubblica Amministrazione all’immagine dopo l’adozione del Codice di Giustizia Contabile del 2016.
Corte Costituzionale, sentenza n. 191 2019
La Corte Costituzionale, pur dichiarando inammissibile la questione di costituzionalità dell’art. 51 comma 7 del Codice di Giustizia Contabile (D. Lgs 174/2016) ha dato alcuni chiarimenti sulla responsabilità dei dipendenti pubblici per danno erariale in caso di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.
La questione che si è posta è la responsabilità per danno all’immagine a carico del dipendente in mancanza di condanna per reato: come nel caso del poliziotto il cui reato di violenza privata aggravata nei fatti del G8 del 2001 a Genova era stato dichiarato prescritto in sede penale.
La questione che la Consulta avrebbe dovuto valutare era la costituzionalità della norma che richiede una previa condanna penale, quand’anche i fatti siano stati accertati ai fini dell’azione spiegata dalla parte civile.
Da ricordare che la Corte si era pronunciata sul merito con le precedenti decisioni (ordinanze n.167 e n. 168 del 2019), che però si riferivano alla normativa anteriore all’entrata in vigore del Codice della giustizia contabile.
L’evoluzione del danno all’immagine come tipologia di responsabilità amministrativa per danno erariale
La Corte Costituzionale premette un breve excursus sull’evoluzione del danno all’immagine della PA e sull’attuale situazione di incertezza normativa.
Il risarcimento del danno all’immagine della PA ha origine pretoria.
Tale forma di lesione fu infatti inizialmente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte dei conti.
Fino al 2009, è stata ritenuta proponibile la relativa domanda risarcitoria da parte del PM senza alcun limite, né in ordine al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità che tale fatto venisse preventivamente accertato in sede penale.
Dopo il 2009 il legislatore, con l’art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, che, nella parte inerente ai presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria ad opera del procuratore contabile, così stabiliva: «Le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97».
All’esito di questo primo intervento normativo la risarcibilità del danno all’immagine era limitata all’ipotesi di condanna irrevocabile del pubblico dipendente per uno dei delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la PA (artt. da 314 a 335-bis del codice penale).
Tale disciplina ha subito una trasformazione per effetto della successiva entrata in vigore del cod. giust. contabile, di cui fanno parte le norme censurate.
Dopo l’entrata in vigore del codice di giustizia contabile, pertanto, è rimasta in vita la norma che circoscrive la proponibilità della domanda a casi specifici; a tale scopo, tuttavia, detta norma continua a fare rinvio ad una previsione che lo stesso codice ha contestualmente abrogato.
L’esigenza di una ricostruzione completa del quadro normativo e in particolare dei reati “a danno della P.A.”
Secondo la Corte Costituzionale, la Corte dei Conti non avrebbe rappresentato in modo completo il frastagliato quadro che emerge da tale percorso, per permettere alla Consulta di valutare la rilevanza della questione.
In particolare il giudice a quo assume che il reato per il quale è stato condannato il pubblico dipendente, e dal quale ha preso avvio l’azione del procuratore contabile (ovvero una violenza privata – art. 610 cod. pen. – aggravata dall’abuso del pubblico potere ai sensi dell’art. 61, numero 9, cod. pen.), è un reato «a danno» della pubblica amministrazione, e consente perciò, in base all’art. 51 cod. giust. contabile, di agire per il risarcimento del danno all’immagine.
Sennonché, secondo i giudici costituzionali, l’interpretazione prescelta dal rimettente in ordine alla nozione di reato «a danno» della PA non considera numerosi elementi normativi, astrattamente idonei ad incidere su di essa, fino potenzialmente ad inficiarla.
Era dovere della Corte dei Conti prendere in considerazione le altre possibili interpretazioni.
In particolare non è pacifico l’assunto della Corte dei Conti, secondo cui l’intervenuta abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ad opera dell’art. 4, lettera g), dell’Allegato 3 al cod. giust. contabile, comporterebbe l’impossibilità di prendere ulteriormente a riferimento la disposizione abrogata per l’individuazione dei casi in cui le procure contabili possono esercitare l’azione risarcitoria per danno.
Conseguenza di tale impostazione è che il perimetro dei reati che consentono l’azione risarcitoria andrebbe rinvenuto, secondo il rimettente, nello stesso cod. giust. contabile, ed in particolare nel censurato art. 51, comma 7.
La nuova disciplina consentirebbe dunque il risarcimento del danno all’immagine della PA in conseguenza di un delitto commesso dal pubblico impiegato «a danno» della stessa, che sia stato accertato con sentenza penale definitiva.
Osserva la Corte Costituzionale, tuttavia, che il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di riferimento legittimi un’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, e non si è chiesto se si tratta di rinvio fisso o mobile.
L’ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi interamente costituita dal censurato art. 51, comma 7.
In ogni caso il rimettente qualifica il fatto accertato a carico del convenuto come «delitto a danno della pubblica amministrazione» sulla sola base del fatto che lo stesso «ha inferto alla reputazione pubblica dell’Amministrazione della Polizia di Stato un grave pregiudizio di immagine»; ma a supporto di una simile ricostruzione non offre alcuno spunto ermeneutico, limitandosi a compiere un ragionamento di tipo tautologico.
Di seguito si riportano in estratto i punti più rilevanti della decisione della Corte Costituzionale, sentenza n. 191 2019
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3.– Le questioni, ad avviso di questa Corte, sono inammissibili per inadeguata rappresentazione del quadro normativo entro il quale la disposizione impugnata è ricompresa, restando assorbita l’ulteriore eccezione di inammissibilità dedotta in causa.
3.1.– Conviene, in tal senso, riassumere l’evoluzione della disciplina dell’esercizio, da parte delle procure della Corte dei conti, dell’azione di risarcimento del danno all’immagine della pubblica amministrazione (PA) come componente ulteriore del danno erariale.
3.1.1.– Il risarcimento del danno all’immagine della PA ha origine pretoria. Tale forma di lesione fu infatti inizialmente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte dei conti, che ritenne proponibile la relativa domanda risarcitoria da parte del PM senza alcun limite, né in ordine al fatto generatore di responsabilità, né, tantomeno, con riguardo alla necessità che tale fatto venisse preventivamente accertato in sede penale.
3.1.2.– In siffatto contesto intervenne il legislatore, con l’art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato, in pari data, dall’art. 1, comma 1, lettera c), numero 1), del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009), convertito, con modificazioni, nella legge 3 ottobre 2009, n. 141 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009).
Tale norma, nella parte inerente ai presupposti per l’esercizio dell’azione risarcitoria ad opera del procuratore contabile, così stabiliva: «Le procure della Corte dei conti possono iniziare l’attività istruttoria ai fini dell’esercizio dell’azione di danno erariale a fronte di specifica e concreta notizia di danno, fatte salve le fattispecie direttamente sanzionate dalla legge. Le procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97».
Il legislatore individuò pertanto i presupposti per l’esercizio dell’azione mediante un espresso rinvio all’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche); disposizione che, a sua volta, prevedeva che la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei pubblici dipendenti per i delitti contro la pubblica amministrazione (previsti dal Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale) venisse comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti per il successivo avvio, entro trenta giorni, dell’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato.
3.1.3.– Conclusivamente, all’esito di questo primo intervento normativo la risarcibilità del danno all’immagine era limitata all’ipotesi di condanna irrevocabile del pubblico dipendente per uno dei menzionati delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la PA (artt. da 314 a 335-bis del codice penale).
3.1.4.– Tale disciplina ha subito una trasformazione per effetto della successiva entrata in vigore del cod. giust. contabile, di cui fanno parte le norme censurate.
Per quanto in questa sede interessa, in particolare, il codice – pur abrogando il primo periodo del primo comma dell’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009 – ha lasciato invariato il secondo periodo, contenente la limitazione dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine; e tuttavia, con l’art. 4, comma 1, lettera g), dell’Allegato 3 (Norme transitorie e abrogazioni), ha abrogato l’art. 7 della legge n. 97 del 2001, cui tale previsione faceva rinvio nel delimitare i casi nei quali il PM contabile poteva promuovere l’azione risarcitoria.
3.1.5.– Dopo l’entrata in vigore del cod. giust. contabile, pertanto, è rimasta in vita la norma che circoscrive la proponibilità della domanda a casi specifici; a tale scopo, tuttavia, detta norma continua a fare rinvio ad una previsione che lo stesso codice ha contestualmente abrogato.
3.2.– Il frastagliato quadro che emerge all’esito di tale percorso esige quindi di essere adeguatamente rappresentato, al fine di offrire a questa Corte una valutazione adeguata a sorreggere la motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni di costituzionalità.
È infatti onere del rimettente confrontarsi con ogni elemento normativo che incida su tali requisiti di ammissibilità, chiarendo in termini non implausibili il preliminare percorso logico compiuto, e soffermandosi poi sulle ragioni che rendono possibile l’applicazione della norma impugnata nel giudizio principale.
3.2.1.– Nel caso di specie, il giudice a quo assume che il reato per il quale è stato condannato il pubblico dipendente, e dal quale ha preso avvio l’azione del procuratore contabile (ovvero una violenza privata – art. 610 cod. pen. – aggravata dall’abuso del pubblico potere ai sensi dell’art. 61, numero 9, cod. pen.), è un reato «a danno» della pubblica amministrazione, e consente perciò, in base all’art. 51 cod. giust. contabile, di agire per il risarcimento del danno all’immagine.
Sulla base di questo presupposto, attinente alla rilevanza, vengono formulate le questioni di legittimità costituzionale, che investono un diverso profilo del regime della responsabilità, vale a dire la necessità che vi sia stata condanna penale, quand’anche i fatti siano stati accertati ai fini dell’azione spiegata dalla parte civile.
Sennonché, come si vedrà, l’interpretazione prescelta dal rimettente in ordine alla nozione di reato «a danno» della PA non considera numerosi elementi normativi, astrattamente idonei ad incidere su di essa, fino potenzialmente ad inficiarla.
3.2.2.– Il giudice a quo, infatti, a fronte di una disposizione di dubbia lettura, introdotta attraverso l’esercizio di una delega legislativa, avrebbe dovuto prendere in considerazione anche la legge delegante, e in particolare l’ambito operativo della delega conferita al Governo, come tracciato dall’art. 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
3.2.3.– Ed ancora, nell’ottica di una pur possibile interpretazione restrittiva della nozione di reato «a danno» della PA, se anche non desumibile dalla legge delega, il rimettente non tiene in alcuna considerazione l’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, citato ad altro proposito, ma non posto a base del processo ermeneutico qui in discussione, nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno all’immagine «nei soli casi» previsti dalla legge.
3.2.4.– Né, infine, può trascurarsi che, a sua volta, sarebbe stato necessario confrontare la nozione di reato «a danno» della PA con i parametri normativi offerti dall’ordinamento ai fini di definire cosa debba intendersi per delitto «a danno» di taluno.
Si tratta di profili che assumono un rilievo decisivo nell’ottica della preliminare valutazione in ordine alla sufficienza della motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle questioni.
4.– Le considerazioni svolte dal rimettente sulla rilevanza sono incentrate sul rapporto fra sentenza di condanna e declaratoria di prescrizione del reato pur in presenza dell’accertamento del fatto; alle stesse, tuttavia, l’ordinanza necessariamente premette che nel caso di specie la condotta accertata nel giudizio presupposto consentirebbe al PM contabile di agire per il risarcimento del danno all’immagine dell’amministrazione.
A tanto l’ordinanza perviene muovendo dall’assunto secondo cui l’intervenuta abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, ad opera dell’art. 4, lettera g), dell’Allegato 3 al cod. giust. contabile, comporterebbe l’impossibilità di prendere ulteriormente a riferimento la disposizione abrogata per l’individuazione dei casi in cui le procure contabili possono esercitare l’azione risarcitoria.
Conseguenza di tale impostazione è che il perimetro dei reati che consentono l’azione risarcitoria andrebbe rinvenuto, secondo il rimettente, nello stesso cod. giust. contabile, ed in particolare nel censurato art. 51, comma 7.
La nuova disciplina consentirebbe dunque il risarcimento del danno all’immagine della PA in conseguenza di un delitto commesso dal pubblico impiegato «a danno» della stessa, che sia stato accertato con sentenza penale definitiva.
Questa lettura del contesto normativo esaurisce il contenuto dell’ordinanza.
4.1.– A fronte di ciò, osserva questa Corte che il giudice a quo non ha vagliato la possibilità che il dato normativo di riferimento legittimi un’interpretazione secondo cui, nonostante l’abrogazione dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, che si riferisce ai soli delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, non rimanga privo di effetto il rinvio ad esso operato da parte dell’art. 17, comma 30-ter, del d.l. n. 78 del 2009, e non si è chiesto se si tratta di rinvio fisso o mobile. L’ordinanza, quindi, trascura di approfondire la natura del rinvio, per stabilire se è tuttora operante o se, essendo venuto meno, la norma di riferimento è oggi interamente costituita dal censurato art. 51, comma 7.
4.2.– In ogni caso, anche a voler ritenere che l’entrata in vigore del cod. giust. contabile abbia esteso il novero dei reati che legittimano l’esercizio dell’azione risarcitoria, occorre stabilire quali fattispecie delittuose consentono al PM contabile l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine.
Si tratta, infatti, di un’attività indispensabile anche ove si ritenga che, in base alla disciplina vigente, la domanda risarcitoria non richieda la commissione di uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, ma solo la commissione di un delitto «a danno» della stessa. Anche questa previsione rivela infatti l’intento del legislatore di delimitare l’ambito della relativa responsabilità.
In proposito, il rimettente qualifica il fatto accertato a carico del convenuto come «delitto a danno della pubblica amministrazione» sulla sola base del fatto che lo stesso «ha inferto alla reputazione pubblica dell’Amministrazione della Polizia di Stato un grave pregiudizio di immagine»; ma a supporto di una simile ricostruzione non offre alcuno spunto ermeneutico, limitandosi a compiere un ragionamento di tipo tautologico.
5.– Nei profili evidenziati, l’ordinanza di rimessione offre dunque un’inadeguata rappresentazione della normativa donde trarre l’indicazione dei presupposti per l’esercizio, da parte del PM contabile, dell’azione di risarcimento del danno all’immagine della PA, e, segnatamente, l’indicazione dei reati per i quali debba essere intervenuta sentenza di condanna.
Tale carenza, pertanto, non consente di ritenere compiutamente rappresentato il quadro normativo di riferimento in ordine ad un elemento della fattispecie che si configura come requisito indefettibile per la valutazione di rilevanza delle questioni sottoposte; e tanto non può che condurre alla dichiarazione d’inammissibilità delle stesse, in applicazione della giurisprudenza di questa Corte relativa a casi analoghi (sentenze n. 154 del 2019 e n. 133 del 2017).