Per comprendere se un atto amministrativo è sindacabile non rileva tanto la sua natura di atto politico o di alta amministrazione, ma la concreta conformazione della norma posta a fondamento della funzione.
Ciò che rileva non è tanto che il provvedimento promani da un organo di vertice della pubblica amministrazione e che concerna le supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri, ma che sussista una norma che predetermini le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che, comunque, la circoscriva.
Consiglio di Stato, parere n. 2483 del 19 settembre 2019
Il Consiglio di Stato si sofferma sulla nozione del provvedimento amministrativo che è “atto politico”, e quindi insindacabile, alla luce delle decisioni della Corte Costituzionale e della Cassazione.
Il superamento della visione tradizionale di atto politico e la rilevanza della concreta disciplina del potere
Al fine di valutare la sindacabilità di un provvedimento amministrativo rispetto ad un provvedimento che è un “atto politico”, secondo il Consiglio di Stato assume importanza fondamentale l’esame delle caratteristiche della norma posta a fondamento della funzione esercitata con l’atto impugnato.
Secondo i giudici di Palazzo Spada assume rilevanza centrale l’accertamento della sussistenza o insussistenza di un vincolo giuridico posto all’esercizio del potere discrezionale.
La sentenza afferma quindi che “ciò che rileva ai fini della impugnabilità o meno dell’atto non è tanto che esso promani da un organo di vertice della pubblica amministrazione e che concerna le supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri, ma che sussista una norma che predetermini le modalità di esercizio della discrezionalità politica o che, comunque, la circoscriva”.
Dall’altro lato, e sotto il profilo del concreto accertamento processuale, sarà impugnabile quell’atto – pur promanante dall’autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica – la cui fonte normativa riconosce l’esistenza di una situazione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, riferita ad un bene della vita oggetto della funzione svolta dall’Amministrazione.
Il Consiglio di Stato ha quindi ritenuto superata la tradizionale concezione dell’atto politico, come provvedimento avente due requisiti: il primo a carattere soggettivo, consistente nel promanare l’atto da un organo di vertice della pubblica amministrazione, individuato fra quelli preposti all’indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello; il secondo a carattere oggettivo, consistente nell’essere l’atto concernente la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione
Per arrivare a questa conclusione il Consiglio di Stato si avvale di un’interpretazione adeguatrice dell’art. 7 del C.P.A., seguendo le indicazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 81/2012.
L’art. 7 del Codice del Processo Amministrativo e la sua interpretazione adeguatrice
Ai sensi dell’art. 7 del Codice del Processo Amministrativo (D.Lgs. 105/2010) “Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
Si tratta di un disposizione che riprende il vecchi Testo Unico del Consiglio di Stato del 1924, che a sua volta era stato sospettato di contrasto con il nuovo ordinamento costituzionale e in particolare con l’art. 113 della Costituzione che prevede l’impugnabilità di tutti gli atti della pubblica amministrazione in sede giurisdizionale senza esclusioni o limitazioni per determinate categorie.
Secondo la decisione in commento, la citata sentenza n. 81/2012 ha offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dell’art. 7.
In particolare, secondo la pronuncia della Consulta, “Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto; nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.”.
Sotto il profilo delle sedi appropriate per contestare il c.d. “atto politico”, secondo un’altra sentenza del Consiglio di Stato, “le uniche limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituite dall’osservanza dei precetti costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato della Corte costituzionale di legittimità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o in sede di conflitto di attribuzione su qualsivoglia atto lesivo di competenze costituzionalmente garantite” (Cons. Stato, V, n. n. 4502/2011).
Il diniego di concessione o di rinnovo dell’exequatur non è sindacabile dal giudice amministrativo
Applicando il metodo interpretativo delineato, che quindi fa leva sulle caratteristiche della norma che si pone a fondamento del potere esercitato con l’atto impugnato, il Consiglio di Stato ha ritenuto inammissibile un ricorso relativamente alla concessione o al rinnovo dell’exequatur, perchè tali atti non sono soggetti a parametri giuridici.
L’exequatur, secondo la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, consiste nel permesso che lo Stato di residenza accorda a un individuo designato dallo Stato di invio come Console di carriera o Console onorario: la concessione dell’exequatur è il presupposto necessario affinché un console possa esercitare le proprie funzioni.
Secondo il Consiglio di Stato si tratta di atti dello Stato di rilevanza internazionale fondati su valutazioni altamente ed eminentemente discrezionali, non circoscritte da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnino i confini o ne indirizzino l’esercizio.
Dalle disposizioni normative emerge quindi la piena discrezionalità dello Stato ospitante, che non è tenuto a fornire neanche all’altro Paese la motivazione del diniego di concessione o di rinnovo dell’exequatur.
E’ inammissibile, pertanto, il ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto avverso il diniego, opposto dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, di rinnovo, richiesto da una Ambasciata in Italia, dell’exequatur per l’esercizio delle funzioni di console onorario.