Smart working: stop per i pubblici dipendenti dal 15 ottobre

Un primo commento al recentissimo DPCM del 23 settembre che ha previsto lo stop allo smart working nel pubblico impiego come modalità ordinaria di esecuzione della prestazione

È stato sottoscritto nella giornata di ieri, 23 settembre, il DPCM contenente una importante novità nella disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Infatti, a poco più di un anno di distanza dalla normativa emergenziale che aveva aperto spazi enormi al lavoro agile, specie all’interno dei pubblici uffici, derogando alla disciplina generale di cui agli artt. 18 ss. della legge 81/2017 (si pensi, ad esempio, alla possibilità di prescindere da un accordo tra il lavoratore e il dirigente), il lavoro agile (c.d. smart working) non sarà più considerato come una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa nel pubblico impiego.

Il decreto, non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, è stato emanato su proposta del ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che ne aveva in realtà anticipato il contenuto nei giorni scorsi, sollevando polemiche opinioni molto discordanti tanto tra i lavoratori pubblici quanto tra gli studiosi e appassionati della materia.

Lo smart working, quale particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro (le cui peculiarità sono l’assenza di vincoli di orario o di luogo di lavoro e l’utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività) era già previsto e disciplinato nel nostro ordinamento già dal 2015.

Con la legge 81/2017 (artt. 18 ss.), il lavoro agile aveva trovato una più compiuta disciplina che consentiva la sua applicazione generalizzata, tanto nell’ambito del pubblico impiego quanto in quello del lavoro privato.

Ebbene, con l’avvento della crisi epidemiologica, il Governo ha proceduto ad una sostanziale semplificazione delle condizioni di accesso allo smart working, con il fine di diffonderne al massimo l’utilizzo nei pubblici uffici, arrivando a sancire espressamente, con il d.l. 18/2020 (art. 87) che “il lavoro agile è una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni”.

A ciò si aggiunga che successivi provvedimenti normativi di fonte governativa avevano addirittura previsto precise percentuali minime di lavoratori per i quali lo smart working doveva essere applicato; ed ancora, il c.d. decreto rilancio (d.l. 34/2020) ha imposto ad ogni P.A. l’elaborazione e il successivo aggiornamento annuale del Piano organizzativo per il lavoro agile (POLA).

Tale processo di estensione applicativa dello smart working all’interno della PA sembra ora aver ricevuto una dura battuta d’arresto per mezzo del DPCM appena sottoscritto.

Secondo la parte dispositiva del decreto, infatti, “a decorrere dal 15 ottobre 2021 la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa in tutte le amministrazioni pubbliche (come definite e individuate dall’art. 1, comma, 2, del Testo unico sul pubblico impiego) è quella svolta in presenza”.

E’ stato così previsto un preciso termine per l’applicabilità delle suddette previsioni di favore nei confronti del lavoro agile.

Il DPCM in commento fa espressa applicazione del disposto dell’art. 87, comma 1, del già richiamato d.l. 18/2020, secondo il quale il lavoro agile sarebbe stato considerato come modalità ordinaria di svolgimento delle prestazioni “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione”.

Per quanto riguarda le ragioni di questo anticipato stop allo smart working pubblico esse possono essere ritrovate nelle premesse del DPCM e nell’allegata relazione illustrativa; in estrema sintesi, sembra che tali motivazioni intendano valorizzare, nella sostanza, due distinti aspetti:

– da un lato, il minore rischio nel lavoro in presenza, dovuto all’aumento dei lavoratori già vaccinati e all’obbligo (di recentissima introduzione) del green pass anche nei luoghi di lavoro;

– dall’altro lato, la circostanza che un lavoro in presenza garantisca maggiormente che l’attività dei pubblici uffici sia più efficiente e pronta a soddisfare in modo migliore le esigenze dei cittadini.

Sotto il primo profilo, quanto previsto dal nuovo DPCM trae evidentemente origine dalle disposizioni del recente decreto legge 21 settembre 2021 n. 127, che ha esteso l’applicazione del c.d. green pass anche nell’ambito del lavoro pubblico e privato.

Ed infatti, secondo quanto è dato rilevare dal testo del DPCM, “l’estensione della certificazione verde Covid-19 anche ai lavoratori del settore pubblico incrementa l’efficacia delle misure di contrasto al fenomeno epidemiologico già adottate dalle amministrazioni pubbliche”.

Sul punto, un ulteriore chiarimento è contenuto nella relazione illustrativa al DPCM, che mira a far risaltare i risultati raggiunti dalla campagna vaccinale. Si legge infatti nella citata relazione:

“i dati statistici che pervengono dagli uffici del Commissario straordinario dimostrano che tra i dipendenti pubblici, che sono complessivamente in numero di poco superiore a 3,2 milioni, ovvero pari a circa il 5,4% della popolazione italiana, quelli non obbligati alla vaccinazione anti Covid-19 (ovvero escluso il personale sanitario, il personale dell’Istruzione e quello delle FF.A. e delle FdP) sono stimabili in poco oltre 900.000 unità. Di questi, quelli già vaccinati sono complessivamente stimabili in circa 583.000 unità. Sulla base dei dati regionali sulle percentuali della popolazione vaccinata e tenendo anche in conto il 5% dei dipendenti obbligati ma non ancora vaccinati sopra menzionati, è possibile stimare che circa 320.000 dipendenti pubblici non siano ancora vaccinati, con percentuali estremamente variabili tra un territorio e l’altro.

Tale considerazione induce a ritenere che, stante anche il graduale, ma progressivo aumento anche tra la popolazione dei dipendenti pubblici del numero dei vaccinati, sussistano le condizioni per un graduale rientro in presenza, e in sicurezza, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.

Sotto il secondo profilo, invece, le premesse del DPCM pongono in rilievo la circostanza per la quale occorre sostenere cittadini e imprese nelle attività connesse allo sviluppo delle attività produttive e all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e che, a tale scopo, “occorre consentire alle amministrazioni pubbliche di operare al massimo delle proprie capacità”.

Da ciò consegue, come reso evidente nel decreto, che il Governo ritiene necessario “superare la modalità di utilizzo del lavoro agile nel periodo emergenziale come una delle modalità ordinarie di svolgimento della prestazione lavorativa per consentire alle pubbliche amministrazioni di dare il massimo supporto alla ripresa delle attività produttive e alle famiglie, attraverso il ritorno in presenza come modalità ordinaria della prestazione lavorativa”.

Questo aspetto rappresenta, a parere di chi scrive, l’elemento maggiormente discutibile dell’impianto della novella normativa, perché sottintende una valutazione tutt’altro che scontata e da dimostrare in concreto, ossia che l’applicazione estesa e generalizzata del lavoro agile nei pubblici uffici – disposta dagli inizi dell’epidemia ad oggi – abbia restituito come risultato quello di una pubblica amministrazione poco efficiente.

Ad ogni modo, ricordato che la limitazione dello smart working avrà decorrenza dal 15 ottobre, la relazione illustrativa (a fronte del dispositivo del decreto, che nulla dice in merito) dà evidenza del fatto che il rientro in presenza non sarà immediato, bensì graduale e accompagnato da apposite indicazioni fornite a tutte le pubbliche amministrazioni con decreto del Ministro per la PA, ovviamente nel rispetto della cornice delle misure di contrasto del fenomeno epidemiologico adottate dalle competenti autorità.

L’auspicio è quindi quello che, entro il 15 ottobre, l’emanando decreto del ministro per la PA consenta di fare chiarezza sul quadro normativo applicabile al lavoro agile nella P.A. e sulle sorti delle disposizioni emergenziali attualmente vigenti; in altri termini, al di là dell’affermazione di mero principio secondo cui la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione sarà solo quella in presenza, pare necessario chiarire, in attesa che la disciplina dell’istituto venga recepita in sede contrattuale – come più volte affermato dallo stesso ministro Brunetta – in che modo lo smart working potrà continuare ad essere autorizzato, specificando se dovrà ritenersi definitivamente ripristinato l’obbligo generale di raggiungere un accordo individuale con il lavoratore o sarà previsto un qualche tetto percentuale massimo di personale autorizzabile.

In allegato al link segnalato di seguito, il testo del DPCM del 23 settembre 2021 e della relazione illustrativa di accompagnamento.

Redazione

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