La Corte Costituzionale con la sentenza n. 8 del 18 gennaio 2022 si è espressa in merito alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Gup del Tribunale ordinario
di Catanzaro per violazione degli artt. 3, 77 e 97, sull’art. 23 comma 1 del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, ritenendola non fondata.
Ildecreto semplificazioni infatti, all’art. 23 D.L. 16 luglio 2020 n. 76 convertito in L. 11 settembre 2020 n. 120, aveva modificato in parte il reato di abuso d’ufficio, disciplinato dall’art. 323 del codice penale, ridimensionando la sua portata.
L’abuso d’ufficio, così come già modificato dalla legge 16 luglio 1997 n. 234, era stato riscritto anzi stravolto dalla legge di riforma del 1990, per anni considerato come “norma in bianco” poiché la fattispecie criminosa ivi prevista era assolutamente indefinita e quindi suscettibile di un uso ampiamente discrezionale tale da causare una indebita sovrapposizione del sindacato penale sulle scelte amministrative.
In tal senso, qualsiasi comportamento illegittimo o presunto illegittimo poteva essere qualificato come abuso d’ufficio e causare l’inizio di un procedimento giudiziario.
La vecchia formulazione del 1997, pur contenendo ancora degli elementi di ambiguità, poneva dei confini più definiti all’illecito penale infatti recitava: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.
Ebbene, le novità introdotte dal decreto semplificazioni incidono solo ed esclusivamente sulla prima delle descritte modalità di condotta, ovvero dove si legge: la violazione di norme di legge o di regolamento.
Con il decreto, l’interesse del legislatore è stato quello di circoscrivere l’area dell’abuso di ufficio penalmente rilevante con l’intento di rasserenare funzionari e amministratori pubblici per facilitare la ripresa dello Stato.
Infatti, la nuova formulazione, all’art. 23, prevede che le parole: “di norme di legge o di regolamento” siano sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Si è verificata quindi una parziale abolitio criminis che riguarda le condotte poste in essere in violazione di regolamenti, di principi generali e di norme di discrezionalità.
In particolare, la dottrina che ha commentato la riforma, è stata concorde nell’affermare che, stando al testo del nuovo art. 323 cp, le condotte che siano il frutto di una scelta discrezionale riservata all’agente pubblico non sono più previste dalle legge come reato.
Ebbene, il Giudice di Catanzaro, spiega la Corte, chiedeva una pronuncia di incostituzionalità che avrebbe avuto come effetto la reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell’abuso di ufficio dal perimetro più vasto.
Con la richiamata sentenza la Corte Costituzionale dopo aver ricostruito la lunga vicenda politico-parlamentare-giudiziaria che ha portato alla modifica del reato di abuso di ufficio ha rilevato che la scelta di mettere mano al suddetto reato è maturata: “solo a seguito dell’emergenza pandemica da Covid 19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento di urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza”.
Nel Governo, si legge ancora nel comunicato, era diffusa l’idea che questa ripresa potesse essere facilitata anche da una più puntuale delimitazione della responsabilità.
La Corte sottolinea come non ci sia stata quindi violazione delle regole perché era necessario intervenire per contrastare la burocrazia difensiva freno e causa della inefficienza amministrativa.
Per burocraziadifensiva si intende il fenomeno secondo il quale pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumere altre meno impegnative o più spesso restare inerti per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (c.d. paura della firma).
Alla luce di quanto esposto, la Corte termina dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del decreto legge 16 luglio 2020 n. 26 poiché ha escluso che mancassero i requisiti di straordinaria necessità e urgenza, derivanti proprio dall’emergenza epidemiologica e dalla necessità di far ripartire il Paese celermente e dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della medesima norma sollevate in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione ricordando altresì come: “l’incriminazione costituisce un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela”.
Qui è possibile consultare la sentenza n. 8/2022 della corte Costituzionale mentre a questo link si può leggere il comunicato della corte Costituzionale.