Quando può ritenersi integrata un’illegittimità sopravvenuta del provvedimento di aggiudicazione tale da giustificare la proposizione di un ricorso per motivi aggiunti in appello? Quali limiti di deducibilità delle sopravvenienze ex art. 104, comma 3 c.p.a. circondano l’istituto dei motivi aggiunti in una tale ipotesi?
La V Sez. del Consiglio di Stato ha fornito eminenti delucidazioni sul punto con la recente sentenza n. 1263 del 7 febbraio 2024.
Nel caso concreto, l’appellante, classificatosi secondo all’esito di apposita procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento di un servizio, esperisce ricorso per motivi aggiunti in appello per chiedere l’esclusione dell’aggiudicataria, a norma dell’art. 80, comma 5 del d.lgs. 50/2016 (ivi applicabile ratione temporis). Nella relativa doglianza adduce l’intervenuta fusione per incorporazione dell’aggiudicataria in altra società, quest’ultima resasi responsabile in passato di gravissimi illeciti professionali. Proprio nell’atto di fusione, di cui l’appellante lamenta il mancato deposito, risiederebbe la “sopravvenienza” nel caso in esame (essendosi la fusione realizzata posteriormente alla pronuncia di primo grado e finendo asseritamente col determinare una riaggiudicazione in favore della società incorporante).
Nel ritenere inammissibili ed irricevibili nella specie i motivi aggiunti, il Consiglio di Stato richiama taluni precipui principi di diritto, di seguito riportati.
Preliminarmente, va osservato che il disposto di cui all’art. 104, comma 3 c.p.a, come interpretato dalla costante giurisprudenza amministrativa (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 17 luglio 2023, n. 6933; CGA Sicilia, 4 ottobre 2022, n. 996), consente la proposizione di motivi aggiunti in grado d’appello soltanto se e nella misura in cui le censure con esso prospettate traggono origine da documenti:
a) “nuovi”, intendendosi per tali quei documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado e di cui la parte interessata sia venuta a conoscenza solo successivamente alla conclusione dello stesso;
b) dai quali emergano vizi degli atti o dei provvedimenti amministrativi già impugnati in primo grado.
Sulla scorta della predetta norma codicistica, deve arguirsi che gli atti sopravvenuti non integrano sempre, di per sé, un vizio del provvedimento di aggiudicazione oggetto di impugnativa in prime cure, sub specie di illegittimità sopravvenuta.
Occorrerà, invece, vagliare caso per caso l’intensità del vincolo di presupposizione tra atto presupposto (il provvedimento di aggiudicazione in favore della società incorporata) e atto conseguenziale (riaggiudicazione in favore della società incorporante), per capire quando l’annullamento del primo debba implicare ipso iure anche la caducazione del secondo.
Sussiste, infatti, un’ineliminabile dicotomia di fondo tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante:
1) La prima si realizza laddove tra i due atti insiste un rapporto di presupposizione immediato, diretto e necessario, di guisa che l’atto successivo non esige nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr., ex plurimis: Cons. Stato, V, 26 maggio 2015, n. 2611 e 20 gennaio 2015, n. 163; IV, 6 dicembre 2013, n. 5813, 13 giugno 2013, n. 3272 e 24 maggio 2013, n. 2823; VI, 27 novembre 2012, n. 5986 e 5 settembre 2011, n. 4998; V, 25 novembre 2010, n. 8243), assurgendo a conseguenza indefettibile dell’atto presupposto. Per tale ragione, in presenza di un effetto caducante, l’annullamento dell’atto presupposto si estende automaticamente all’atto consequenziale, quand’anche quest’ultimo non sia stato tempestivamente ed autonomamente impugnato in prime cure.
2) Viceversa, in presenza di un’invalidità ad effetto viziante, l’atto successivo è affetto solo da mera illegittimità derivata, ergo rimane efficace qualora non venga impugnato in via autonoma entro il termine prescritto dalla legge.
Alla luce di quanto premesso, si comprenderà adesso come soltanto nel primo caso (invalidità ad effetto caducante) sia ammissibile la proposizione di un ricorso per motivi aggiunti in appello avverso la sentenza di prime cure che abbia ritenuto legittimo il provvedimento di aggiudicazione.
Alla pronuncia in questione va altresì attribuito il merito di aver approntato importanti precisazioni in tema di avvalimento c.d. tecnico-operativo, posto che l’impresa risultata aggiudicataria aveva fatto ricorso a tale figura contrattuale, onde soddisfare la richiesta di determinati requisiti di capacità tecnico-professionale, a norma dell’art. 89, comma 1 del previgente Codice dei contratti pubblici.
Ebbene, il contratto in parola non impone di quantificare sempre rigorosamente i mezzi d’opera e/o le risorse umane qualificate che l’ausiliaria si obbliga a mettere a disposizione dell’impresa concorrente. Di converso, ci si può limitare ad individuare le «esatte funzioni che l’impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio allausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione» (Cons. Stato, Sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682). Infatti, la verifica della sussistenza degli elementi essenziali della fattispecie di avvalimento de quo può essere operata alla stregua dei canoni ermeneutici dettati dal cod. civ. in tema di interpretazione del contratto.
Sicché, il dato caratterizzante l’avvalimento tecnico-operativo non è necessariamente il mero “prestito” formale all’impresa ausiliata, ai fini dell’esecuzione dell’appalto, di personale, macchinari o beni strumentali, quale elemento sganciato dalla relativa organizzazione aziendale. Viceversa, in virtù dei criteri civilistici dell’interpetazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (ex artt. 1363 e 1366 c.c.), può pattuirsi l’impiego dell’“azienda” tout court, intesa come complesso produttivo unitariamente considerato, e non già di un singolo elemento della produzione (Cons. Stato, Sez. V, 22 febbraio 2021, n. 1514).