Le piattaforme digitali rappresentano uno spazio comune in cui ciascuno dovrebbe essere libero di esercitare il proprio diritto di espressione e, oggi, veicolano messaggi significativi di natura politica e sociale; per questo motivo è sempre più aumentata l’esigenza di comprendere in che modo e se sia possibile immaginare una regolamentazione di questi spazi virtuali.
Immaginare di regolare il funzionamento dei social media, implica l’imposizione in capo alle società che li gestiscono di doveri e standard di trasparenza e controllo da rispettare; questo è quanto accaduto nell’Unione Europea con l’adozione di due regolamenti: il Digital Markets Act ( n. 2022/2065) e il Digital Services Act (n. 2022/1925).
I due provvedimenti normativi rappresentano il primo passo dell’Unione Europea per costruire uno spazio digitale sicuro e rispettoso dei diritti individuali, ove – al contempo – sia promossa l’innovazione, la competitività delle aziende europee all’interno dello stesso mercato europeo e di quello globale.
L’approccio europeo si distingue nettamente da quello proprio degli States, come ha recentemente dimostrato un arresto della Suprema Corte, nel caso Moody v. NetChoice, LLC.
I giudici statunitensi erano stati aditi per verificare la compatibilità con il diritto d’espressione (sancito dal primo emendamento della Costituzione americana) di due leggi, adottate dagli Stati del Texas e della Florida, le quali, pur avendo ambiti di applicazione diversi, avevano in comune il fatto di prevedere dei limiti al potere di moderazione delle piattaforme, introducendo divieti di discriminazione nei confronti di determinati contenuti.
È bene precisare sin da ora che la Corte non si è formalmente espressa nel merito della questione, avendo annullato con rinvio le sentenze delle Corti inferiori per motivi processuali; tuttavia, la maggioranza dei Giudici si è comunque espressa sul merito, in quello che la minoranza definisce un obiter dictum, e che rappresenta terreno di scontro tra orientamenti diversi.
Infatti, la maggioranza dei giudici ha fornito delle indicazioni sulla qualificazione dell’attività delle piattaforme, la quale è stata assimilata a quella editoriale.
Secondo questa lettura, le piattaforme digitali potrebbero selezionare i contenuti da mostrare, nell’esercizio della loro libertà d’espressione tutelata a livello costituzionale.
Dunque, i social avrebbero la possibilità di oscurare determinati contenuti, deindicizzarli o eliminarli del tutto così come un giornale ha la libertà di costruire la propria linea editoriale, esercitando il diritto a non parlare di determinati argomenti, perché contrari o distanti dalla propria policy.
La decisione è quantomeno discutibile poiché sembra dimenticare che, nel 1996, fu sancita l’irresponsabilità delle piattaforme digitali (allora in fase embrionale) rispetto a contenuti illeciti o offensivi pubblicati dagli utenti con la Section 230 del Communications Decency Act.
Con la sentenza in analisi, invece, la Suprema Corte ha riconosciuto ai social network il diritto di esprimersi, eliminando i contenuti non in linea con la loro policy; dunque, se ciò che vediamo sui social è il frutto di una “scelta editoriale”, com’è possibile negare allo stesso tempo la responsabilità di tali piattaforme nel caso di contenuti offensivi, discriminatori o violenti?
Peraltro, come è emerso da alcune dissenting opinion all’interno della sentenza, è difficile parlare di libertà d’espressione quando i processi di selezione, indicizzazione e priorizzazione dei contenuti sono molto spesso automatizzati.
Ciò porterebbe a parlare di scelte editoriali anche quando la selezione dei contenuti fosse effettuata da sistemi di Intelligenza Artificiale.
In definitiva, dalla sentenza emerge l’ostilità nei confronti di tentativi di regolamentazione dell’attività svolta dalle piattaforme digitali, le quali oggi rappresentano un potere parallelo a quello pubblicistico posto in capo ad alcune aziende leader a livello mondiale.
Scegliere di non regolamentare l’attività delle piattaforme digitali rischia di creare uno spazio virtuale apparentemente libero, in cui la liceità o meno di determinati contenuti è rimessa alla decisione arbitraria di (pochi) operatori economici privati.